sabato 28 settembre 2013

Il cavaliere inesistente

Insomma, c'erano anche da noi tutte le cause della Rivoluzione francese. Solo che non eravamo in Francia, e la Rivoluzione non ci fu. Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti.

(E' tanto che ce l'ho in canna questa frase. Stasera mi pare assai opportuna, se un delinquente per festeggiare il suo imminente compleanno si regala impunemente una crisi di governo nella generale acquiescenza)

venerdì 27 settembre 2013

Survivor

"Chiunque sia sopravvissuto alla propria infanzia, possiede informazioni sulla vita per il resto dei propri giorni."

Con questa frase di Mary Flannery O' Connor, per cui sono grata al mio amico e grande artista Carlo (altro libro che dovrò comperare, questo della O' Connor!), celebro il superamento delle cinquantamila visite sul mio blogghino.

Ringraziandovi ancora e rassicurandovi che, in quanto sopravvissuta alla mia infanzia, ne avrò ancora molte, per conseguenza, secondo quanto sopra affermato, di cose da scrivere.

giovedì 26 settembre 2013

L'ultimo giorno del circo

E adesso, con l'ultimo (per ora), eversivo, miserabile bluff delle minacciate dimissioni di massa degli eletti del PdL, fragoroso e ridicolmente innocuo come il botto di un tappo stappato di champagne, veniamo a sapere che l'Uomo della Provvidenza da cinquantacinque giorni non dorme più e ha perso undici chili.
Per l'irrefrenabile dissenteria, ovviamente.
Il suo agitarsi folle e disperato ha assunto tratti paradossali, grotteschi, eccessivi persino per un uomo palesemente privo di dignità e di etica come lui.
Pian piano tutto si compie, ogni tassello torna al suo posto, il puzzle si ricompone. Così, mentre all'orizzonte si cominciano a profilare gli altri nodi grossi come montagne - i documenti richiesti con rogatoria del 2006 finalmente arrivati da Hong Kong per il processo Mediatrade, le ammissioni di De Gregorio, il dossier della Guardia di Finanza sull'inchiesta di Bari - venuti al gigantesco pettine avvelenato che, come nella fiaba di Biancaneve, per vent'anni è stato conficcato sul capo dell'Italia esanime, scopriamo, a integrazione del quadro della sua personalità, un ulteriore tratto caratteriale del Grande Malfattore, non meno distintivo della sua compulsiva, svergognata capacità di mentire e di delinquere, sin qui dissimulato: un'abissale vigliaccheria.



Han spento lucciole e lanterne
messo il leone nella gabbia
scambiato il funo con la nebbia
domani il circo se ne va.
Le stelle accese nella tenda
sono tornate dei fanali
i clown degli uomini normali
domani il circo se ne va.

Passato il giorno della festa
ritorneremo a misurare
quel posto vuoto sul piazzale
domani il circo se ne va.

Passato il giorno della festa
ci resta il piccolo calvario
di spazi vuoti al calendario
domani il circo se ne va.

Han messo via le luminarie
smontato tutto pezzo a pezzo
soldati e bimbi a metà prezzo
domani il circo se ne va.

Nel lampo breve di un istante
forse era solo un'illusione
l'uomo sparato dal cannone
domani il circo se ne va.

Passato il giorno della festa
resta un ricordo eccezionale
un manifesto lungo il viale
domani il circo se ne va.

Passato il giorno della festa
ci sono a far da spazzatura
lustrini fra la segatura
domani il circo se ne va.

Solo l'orchestra del silenzio
che non ha posto per partire
rimane a farci divertire
domani il circo se ne va.



mercoledì 25 settembre 2013

Rush

Com'è come non è, sono sbalordita dell'avverarsi della mia premonizione, e in un lasso di tempo così breve.
(Forse non è nemmeno stata una premonizione: forse sono io che gliel'ho tirata, oppure è stato Aldo! Sìssì, sono sicura che Aldo c'entra qualcosa!)
Ho dato conto qui della mania di Edoardo di dondolarsi vigorosamente spingendo all'indietro lo schienale della Poang, la famosa poltroncina di legno dell'Ikea che molleggia, e dei miei timori che mal gliene incogliesse, una volta o l'altra. Per la verità io me lo vedevo lanciato in orbita a tutta velocità per il contraccolpo, questo cavaliere statuario apparentemente invulnerabile.
Invece stasera è successo il contrario: io mi accomodo sulla mia poltrona, lui si lascia cadere con forza sulla sua e crac, il legno mille volte sollecitato cede e si crepa, mandandolo gambe all'aria.
Vedere il proprio terapeuta finire a culo per terra a inizio seduta è cosa che solo a me, comunque, poteva capitare, ne sono certa.

sabato 21 settembre 2013

Si sta facendo notte




Staccate la corrente
un po' di pace qui
fermiamoci un istante, voglio stringerti così
è bello ritrovarsi,
abbandonarsi e già
costretti in questa fabbrica alienante
chiamata città
non sentono ragioni
i sentimenti no,
almeno per un po'
mi apparterrai
ti apparterrò

Inutili rumori
non è felicità
vorrebbero convincerci
che il paradiso è qua
è un mondo virtuale
padrone chiunque sei
smetti di spiarci, di sfruttarci
esistiamo anche noi
in fondo a questa vita
talmente breve che
non è un delitto se
se la offro a te

Di travagliati giorni
fantastiche tournée
io contro il mondo
e tu a fianco a me
quel coraggio dov'è
si sta facendo notte
è il nostro cantiere che riparte
più efficiente che mai
guai se così non fosse
siamo ancora pieni di risorse, aspetta e vedrai

La voglia di cantare
è figlia dei miei guai
salvare quel sogno
è tutto ciò che vorrei
mi aiuterai

Si sta facendo notte
c'è gente che non dorme ma riflette
sul tempo che va
non è un problema l'età
aprite quelle porte
e fate entrare amore in ogni cuore
finché ce ne sta

Non fosse stata musica
a guarire i silenzi miei
non starei qui a difenderla
non ti chiederei
di credere in lei
lo sai

Si sta facendo notte
se questa nostra stella non decolla
avrò sbagliato e anche tu
che ti aspettavi di più
son giochi disonesti
per tanti irresistibili idealisti
assoluzione non c'è

Diamoci dentro affinché
non si faccia notte
alziamoci fin lassù
mattone su mattone
seguiamo questa pallida illusione
qualcosa succederà

Si sta facendo notte


venerdì 20 settembre 2013

I save the world today

"Mi piace sviluppare la mia coscienza per capire perché sono vivo, cos'è il mio corpo e cosa devo fare per cooperare con i disegni dell’universo.

Ogni secondo di vita è un regalo sublime.

Mi piace invecchiare perché il tempo dissolve il superfluo e conserva l’essenziale."


Ecco, a mezzogiorno e mezza di quarantanove anni fa sono nata io. E dopo le grandi parole di Jodorowsky, che faccio come regalo a me stessa, ora passo al regalo per voi: la stessa canzone che stamani mi sono dedicata su FaceBook.
Su FaceBook, dove ho nascosto la mia data di nascita perché ho la nausea delle centinaia di messaggini d'auguri di prammatica che mi intasano la bacheca, inviati per riflesso pavloviano dietro l'input dell'annuncio "oggi è il compleanno di..., da gente a cui in realtà di me non frega un beneamato ombrello e di cui altrettanto non frega a me. Ma qui, con voi, è diverso.

L'anno scorso ho vissuto molto male questo giorno. E' stato uno dei compleanni peggiori della mia vita, pieno di sofferenza, di angoscia, di mancanza di senso. Ero caduta in una depressione che mi stava distruggendo - io che sono sempre stata iper ansiosa ed agitata, spesso anche isterica, ma mai oppressa da quell'immobilismo mortale, quella nube nera e ghiaccia che oscura i colori della vita e prosciuga l'entusiasmo di esistere. Ho lottato tanto per uscire da quella palude, e ce l'ho fatta. Grazie al mio impegno e a tanto aiuto di un piccolo gruppo di persone preziose. Del quale voi fate parte.

L'anno scorso, a fine giornata, mi sono asciugata le lacrime e mi sono detta: basta così, Cristina, questo compleanno grazie al cielo è passato, archivialo e punta tutto sul prossimo perché sia un giorno completamente diverso da questo.

Ce l'ho fatta.

Questo compleanno è autentico, concreto, sereno. Fatto di auguri di gente che davvero si ricorda di me perché ci tiene, e non perché gliel'ha ricordato un social. Fatto di telefonate, di abbracci veri, di messaggi spontanei. Niente più formalismi vuoti e stereotipati, solo verità.

Un compleanno indicibilmente più sereno e ricco di gioia. La gioia di chi ha avuto salva la vita.

E io l'ho salvata anche grazie a voi.

Perciò, siccome chi salva una vita salva il mondo, vi dedico la canzone di Annie che in questo momento più di tutte mi sta nel cuore. E' una canzone in bilico tra dolcezza e disincanto, come sempre, e soffusa di una ironia temperata di malinconia. Come dovrebbe essere il giusto punto di vista sulla vita. Ed è per questo che io la trovo tanto toccante, tanto essenziale, tanto bella.

Vi abbraccio idealmente tutti con quella. Grazie.



Monday finds you like a bomb
That's been left there ticking there too long
You're bleeding
Some days there's nothing left to learn
From the point of no return
You're leaving

Hey hey I saved the world today
Everybody's happy now
The bad things gone away
And everybody's happy now
The good thing's here to stay
Please let it stay

There's a million mouths to feed
And I've got everything i need
I'm breathing
And there's a hurting thing inside
But I've got everything to hide
I'm grieving

Hey hey I saved the world today
Everybody's happy now
The bad things gone away
And everybody's happy now
The good thing's here to stay
Please let it stay

Doo doo doo doo doo the good thing

Hey hey I saved the world today
Everybody's happy now
The bad things gone away
And everybody's happy now
The good thing's here to stay
Please let it stay


giovedì 19 settembre 2013

L'anello di re Salomone

Egregio sindaco Marino, ieri ho preso ferie e, mentre stiravo per passare il tempo nell'attesa dell'arrivo della mia luminosa amica rinascimentale dall'urbana e magnifica terra rilucente degli effetti d'un uso appropriato dell'umano raziocinio e di tutte le qualità a quello connesse ove risiede, ho deciso di scriverle questa mia a proposito dell'annuncio che lei ha strombazzato al popolo circa le sue intenzioni di pedonalizzare l'intera città e le sue estreme propaggini fino al Grande Raccordo Anulare nella prossima "Notte bianca" prevista per il sedici maggio venturo.
(Notte un cazzo: la pedonalizzazione è prevista dalle diciotto del venerdì alle sei del sabato. Dalle diciotto: quando c'è il sole ancora alto nel cielo, sono ancora aperti tutti i negozi,  è in pieno svolgimento l'uscita dagli uffici e in piena attività la congestione centrifuga dei vacanzieri del week end .)

Volevo innanzitutto ringraziarla per avermi avvertita con congruo anticipo, in modo di potermi organizzare, qualora per quella data fatale io fossi ancora nel novero dei viventi, pianificando un viaggio in un luogo ameno fuori città.

Perché, se ella fosse un parolaio, non ci sarebbe da temere che arrivi a porre in essere questa minaccia. Ma dai suoi primi atti s'è purtroppo constatato che parolaio non è, e che forse per compensare la mancanza di questo difetto è pure alquanto ostinato, e quando si mette in testa una cosa non gliela estirpano manco le cannonate.

Dunque, Dio ci salvi, c'è da pigliarla sul serio, molto sul serio.

Avendo ben chiara l'intimorente conformazione del GRA, ma volendo essere specifica al massimo, sono andata a controllarmi le misure su wikipedia, che recita: Il Grande Raccordo Anulare o GRA, classificato ufficialmente come A90, è l'autostrada tangenziale, senza pedaggio, che circonda anularmente Roma. È caratterizzata dal tracciato circolare chiuso e senza discontinuità, con un diametro medio di circa 21 km, e lungo 68,223 km. È gestita direttamente dall'ANAS e percorsa giornalmente da circa 160 000  veicoli (58 milioni l'anno), risultando tra le autostrade italiane con il più alto volume di traffico.
A scuola ero una capra in matematica, dunque può ben essere che sbagli il conto: me lo auguro. Perché a fare raggio per raggio per pi greco per calcolare l'area di questo anello saltano fuori la bellezza di trecentoquarantasei virgola centoottantacinque chilometri quadrati.
Una superficie di trecentocinquanta chilometri quadrati interdetta al transito di auto e moto private dalle diciotto alle sei del mattino seguente. Non per motivi inderogabili, si annoti: per un'iniziativa simbolica, a scopo ludico, aggregativo, e forse, nelle sue intenzioni, educativo.

Si rende lei conto di ciò che intende fare?

Avesse annunciato di voler sgomberare dalla privata circolazione la porzione di città coincidente col Municipio I, ossia il centro storico racchiuso dalla cinta delle mura Aureliane allargato a dismisura grazie a una delle ultime alzate d'ingegno di Alemanno oltre Tevere, sino ad includere San Pietro e le pendici del Gianicolo, cioè una zona di venti chilometri quadrati, sarebbe già stato un azzardo che avrebbe apportato una certa quota di fastidio alla popolazione, ma insomma, per dodici ore ci si poteva pure stare. Ma così è mera, assoluta follia.

Significa che tutti i cittadini di Roma e sobborghi, anche abitanti a una distanza dal centro città di venti, trenta chilometri, quella notte dovranno starsene obbligatoriamente nelle loro dimore, e pregare i loro santi di non aver bisogno di niente. Perché sarà loro impedita qualsiasi uscita voluttuaria - una cena in pizzeria, una sortita al cinema più vicino, se non allocato nelle immediate vicinanze di casa -, ma anche ostacolato ogni eventuale disbrigo di necessità improvvise: provi un po' lei, ad esempio, caro sindaco, ad avere qualcuno di famiglia in preda ad una colica, o ad un febbrone, o ad un incipiente mal di denti, accorgersi di non avere niente di fungibile nell'armadietto dei medicinali, e andare a scarpinare per le strade buie a cercare una farmacia notturna.

Ah, ma già, lei sicuramente potenzierà i mezzi pubblici. La metro, ad esempio, magari, invece di sospendere il servizio, resterà in funzione tutta la notte.
Geniale. Se fosse praticabile la tratta di metro che passa dalle mie parti, la famigerata C, di cui sono stati ora riaperti i cantieri dopo uno stop forzato, arrivato ad incrementare il cumulo del ritardo sul cronoprogramma previsto di ormai più di due anni (sulla carta avrebbe dovuto entrare in funzione nella prima metà del 2011).

Ah, mi replicherà lei, ma l'iniziativa è volta ad incentivare l'uso della bicicletta, dunque si adoperi in alternativa una bicicletta.
Ora, a parte che non tutto si può fare in bicicletta - per esempio, non si può portare in canna una moglie in travaglio per accompagnarla all'ospedale -, quanta gente lei creda possa permettersi di tenere una bicicletta a Roma? Quelli che hanno un giardino, o un box auto. E tutti gli altri?
E poi: non sarà che è così poco diffusa la pratica della bicicletta perché non è raccomandabile usarla come mezzo di spostamento in una città enorme dove praticamente non esistono piste ciclabili?
Ah, già, lei le costruirà. Ma una bici, per costituire effettivamente una valida alternativa ad altri tipi di veicoli, deve poter percorrere una striscia d'asfalto ad essa riservata lungo tutta la città, o almeno che si estenda in sicurezza per lunghi tratti continui. Dove farà passare lei la pista ciclabile, per esempio, all'incrocio di Porta Maggiore? O sulla via Prenestina o Casilina, strozzate dalla sede dei binari dei tram?
Perché mica si può dotare di piste ciclabili solo il centro. Se no che fa il ciclista, comincia a pedalare dopo esser entrato dentro le mura, dopo aver portato la bicicletta in spalla sin lì per non rischiare di finire falciato dalle auto?

Ah, non le va bene niente, mi ribatterà lei a questo punto. Come extrema ratio c'è pur sempre il taxi, no?
Ma, caro sindaco, siamo a Roma, che è dotata del peggior servizio taxi dell'universo, tenuto in ostaggio da una lobby che ha messo a ferro e fuoco le strade e ricattato amministratori di destra e sinistra per mantenere la sua posizione privilegiata e contrastare la liberalizzazione delle licenze. I taxi a Roma sono vergognosamente cari ed estremamente insufficienti nel numero. O lei crede di essere a Londra, a New York, dove si fa un fischio e ne accorrono tre?

E inoltre: come la piglieranno i vigili urbani? E soprattutto: dove li piglierà? Perché per pattugliare trecentocinquanta chilometri quadri di territorio controllando ogni veicolo in movimento (viste le probabili numerose deroghe al provvedimento per i medici in servizio, i portatori di handicap, i furgoni trasportatori di generi deperibili etcetcetc) non le basterà l'intero corpo di polizia municipale.

E infine: ben venga la trovata della Notte bianca (che io aborro per passate nefaste esperienze, ma pazienza) quale utile esperimento di ripensamento delle abitudini dei cittadini riguardo alla mobilità. Chiudere l'intero perimetro del centro storico allargato sarebbe il compromesso vincente: chi vuole partecipare alla grande festa di popolo lo fa liberamente, e liberamente va a piedi, coi mezzi o in bicicletta (sperando nella clemenza del tempo, ché a maggio Roma non mostra frequentemente cieli senza nubi). Ma perché tormentare la mamma di Monte Sacro Alto che alle diciannove va a ripigliare il figlio a pallavolo o la famigliola dell'Alessandrino invitata a cena dalla zia di Cinecittà, a chilometri e chilometri di distanza dai musei, dai monumenti, dalle strade e dalle piazze dove si disloca l'evento?

Insomma, caro sindaco, scenda da Marte e riveda con un po' d'umiltà il suo grandioso progetto. So che il problema del traffico è uno dei prioritari a Roma; ma davvero ritiene lo sia prima dello sfascio dei servizi sociali, della tragedia degli sfrattati, del degrado dei quartieri periferici, del difficile e accidentato percorso di integrazione tra le varie etnie che compongono oggi il suo tessuto umano?

E anche se lo fosse, pare che ella abbia in animo di affrontarlo semplicemente negandolo. Come fanno i bambini quando vogliono credere di far sparire una cosa che non piace loro solo chiudendo gli occhi. Ma allora ci sarebbe potuto arrivare persino il suo predecessore a risolverlo!

Consapevole che questa mia non le farà né caldo né freddo, che lei perseguirà a testa bassa il suo insensato obiettivo e continuerà imperterrito a coltivare i suoi castelli in aria, rassegnata la saluto.

P.S.: quand'ella, appena eletto, disertò la chiassosa, allegra e colorata carnevalata del Gay Pride, suscitando polemiche a mio avviso pretestuose e gratuite, io fui sua appassionata paladina per quello che ritenni un suo stile, evidentemente sobrio e forse non amante degli eccessi, ancorché simpatici. Mi sono amaramente ricreduta sul punto quando ho dovuto fare tanto d'occhi davanti alle foto e agli articoli che testimoniavano la sua partecipazione entusiastica ad Atreiu, la festa dei giovani fascisti di Giorgia Meloni: questa sì, da anni, una mascherata davvero di pessimo, amarissimo gusto.

lunedì 16 settembre 2013

With a little help from my friends

Martedì scorso, finalmente, torno da Edo.
Sono quaranta giorni che non lo incontro, troppo perché il mio desiderio di vederlo, così a lungo protratto, non si sia sfilacciato, ed ora, complice anche il rientro al lavoro che mi ha smorzato in sole quarantottore gran parte della gioia, della vivacità e del benessere recuperati o conquistati durante le ferie, la prospettiva di questo evento a lungo atteso con impazienza non mi alletta più mica tanto. Anzi.
Sto facendo la bimba piccola, lo sento. La bimba lasciata tutto il giorno a casa dei nonni dalla mamma che è andata a lavorare e che a sera, vedendola arrivare a riprenderla, mette il muso e volta il viso dall'altra parte, offesa.
In più ci si è messo pure questo pensiero deprimente a ronzarmi nella testa. Un pensiero che è uno squisito banchetto per le mie paranoie di abbandono e indegnità. Un rovello che mi si avvita nella mente e mi tenta alla ricaduta nella dipendenza e nella sofferenza: "Se è stato tranquillo quaranta giorni senza vederti significa che di te non gli importa niente. E come potrebbe essere altrimenti? Tu non sei nessuno per lui, sei solo lavoro. Mica sei una a cui vuole bene. Perché dovrebbe? Ti sopporta perché tu lo paghi. E ora che le vacanze sono finite, magari si sente come te, e si scoccia pure di tornare a lavorare, come tu ti senti scocciata di andare in ufficio". Roba da rabbrividire. E da lì a "non ti vuole bene perché nessuno te ne vuole, perché non sei degna di essere amata" il passo è breve.
Vincendo il mio malessere, e il senso di inutilità e scoramento, vado all'appuntamento.
Mi apre sorridente, bello come il sole e vitale come un mattino di maggio, e non mi dà nemmeno il tempo di registrare le mie prime sensazioni che già mi abbraccia con spontaneità e calore, apparentemente davvero contento di rivedermi.
Ci sediamo per il solito faccia a faccia sulle due Poang poste l'una di fronte all'altra.
Io annaspo nel mio mutismo.
"Allora?" mi sollecita placido, interessato, anche se un'insolita fissità e compostezza nella sua attitudine (non si dondola a gambe larghe curvandosi all'indietro in quel suo modo impetuoso che mi fa sempre temere che finisca in orbita per il contraccolpo) tradisce una punta di disagio anche in lui, o forse solo un'esitazione per l'incertezza delle mie reazioni, nel ritrovarsi me davanti dopo tanto tempo.
Io sbotto cercando di non farmi tremare la voce: "Sai, da un paio di giorni sono rientrata al lavoro, e mi sono bastati per spegnere tutta l'energia positiva che ho accumulato in queste ferie. Come se mi avessero spento un interruttore."
"Ah, il senso di straniamento, sì" mi interrompe roteando le sue due padelle azzurre come un folle, o un attore. "Quello ce l'ho anch'io, ti capisco. Mai come quest'anno mi fa fatica riabituarmi al caos della città: mi sembra che tutti vadano di corsa, che siano tutti pazzi. Sai, dopo sedici giorni di Grecia, in quella calma, in quella pace, in quella luce... In sedici giorni mai manco una nuvoletta, figurati..."
Me lo figuro eccome, steso a pancia in su sulla spiaggia di un'isoletta dell'Egeo. Sorrido nervosa, gli strappo di mano il filo del discorso, e riprendo: "Anch'io mi sono goduta il mio periodo di distacco con intensità particolare, quest'anno. Al punto, pensa, che mi ero proprio dimenticata dell'ufficio, dei colleghi, di tutto. E quando mi è toccato rientrare... Mi è costato proprio tanto, come entrare in una tomba e farmici chiudere dentro con una bella pietra sepolcrale, ecco. E allora mi sono detta che, se a te riprendere fa lo stesso effetto che a me, proprio non deve farti piacere rivedermi."
Allora mi guarda sornione, poi si scioglie nel suo sorriso più incantevole e  - lui, il mio terapeuta, l'uomo che fa, come dice lui, "una professione d'aiuto", quello che dovrebbe darmi una mano a campare nella mia realtà - replica allegramente, enfaticamente, affettuosamente: "Ma che c'entra! Ma per forza stai così! E grazie, anch'io, sai, se facessi il lavoro di merda che fai tu, che ancora non capisco dove trovi le forze per continuare a subire quella tortura, mi sentirei come te..."

sabato 14 settembre 2013

Italiani brava gente

Lavoro nel palazzo adiacente al Provveditorato agli Studi, in un quartiere sede di molti istituti superiori.

E in questa settimana hanno riaperto le scuole.
Imboccando la strada dell'ufficio me ne ha dato conto, puntuale come il volo delle rondini a primavera, l'imbattermi nel solito delirante manifesto affisso abusivamente da Lotta Studentesca.

Lotta Studentesca, movimento di estrema destra rinato dalle ceneri di un passato oscuro, contiguo col terrorismo nero, dilaga da anni nelle nostre scuole superiori e università, colonizzando come l'invasione degli ultracorpi di neofascismo, razzismo e violenza le menti dei ragazzi romani. Ed è il più emergente, ma non certo l'unico tra quelli professanti quei disvalori, i quali tutti adesso la fanno da padroni nel condizionare la formazione delle opinioni politiche delle fasce più giovani della popolazione di Roma. Sin dai tempi dell'amministrazione Veltroni, permeata di sciagurata ottusa inerzia buonista, se si fossero avuti gli occhi, si sarebbe potuta constatare senza sforzo l'evidenza del pauroso sbandamento verso quelle derive antidemocratiche di una larga parte dei nostri imberbi concittadini: nell'abbigliamento, nelle teste rasate, nei cori fascisti allo stadio, equamente spartiti tra curva Nord e curva Sud (una saldatura degli ultrà laziali, da sempre neri, e di quelli romanisti, da sempre "rossi e giallorossi" sotto una comune militanza di destra mai vista prima: un mutamento antropologico epocale insieme alla nuova, incredibile alleanza tra i discendenti dei pariolini degli anni di piombo, i ricchi ragazzi dei quartieri bene, e quelli dei proletari storici, i "borgatari", residenti in aree urbane ch'erano sin lì sempre state serbatoio principale di consensi per la sinistra), nelle svastiche che fiorivano su tutti i muri, nella prorompente, prepotente ascesa delle fortune e del favore sulla scena cittadina per i farneticamenti incitanti all'odio verso l'avversario e allo scontro frontale e corporale degli pseudo ideologi di Casapound. Ma non solo non si presero provvedimenti per tentare di arginare l'inquietante fenomeno: nessuno, semplicemente, a cominciare dagli esponenti del centrosinistra che governava la città e che avrebbe dovuto essere la prima centrale di allarme, il primo avamposto a difesa della democrazia, e che invece dormiva sonni beati o forse era in altre faccende affaccendato, parve rendersene conto. E così il morbo dilagò indisturbato e la marea si ingrossò fino a che le organizzazioni di ispirazione nazista e fascista egemonizzarono i consigli di classe e d'istituto, e conquistarono anche la consulta provinciale. E, siccome giunti a diciott'anni gli adolescenti cominciano anche a votare, finendo anche per contribuire, insieme all'insipienza di quelli della parte avversa, agli obbrobriosi successi elettorali di personaggi deprecabili come Giovanni Alemanno e Renata Polverini.

E oggi, caduti dal pero, si grida al pericolo del rigurgito fascista. Quando ormai, più che un rigurgito, è una vomitata a spruzzo inarrestabile.

Ci si avvede dell'incantesimo malsano che ha posseduto le anime dei nostri figli con appena vent'anni di ritardo.

Ebbé, come si può commentare, se non con un "meglio tardi che mai"?

Del resto è quel che è accaduto con il fenomeno Berlusconi. Che giusto da vent'anni - dopo esser sceso in politica per non finire in galera e non dover portare i libri contabili delle sue aziende in tribunale (per esplicita ammissione del suo braccio destro Confalonieri) - adopera l'Italia come suo feudo personale, distorcendo il potere politico e quello mediatico in egual misura per suo esclusivo privato profitto, calpestando diritti e doveri, reiterando reati ulteriori a quelli già largamente commessi prima della sua discesa in campo e poi depotenziando le leggi che avrebbero dovuto e potuto sanzionarli, non negandosi ogni bassezza civile e sociale e umana, in un'escalation di intemperanza, improntitudine, attitudine a deliquere, volgarità e cinismo impressionante che l'ha portato sino ad ora a collezionare la bellezza di quarantuno processi (li ha contati per me la Santanché); e clamorosamente solo ora una parte di popolazione pare cominciare a svegliarsi per accorgersi che, beh, forse forse questo tizio non era l'eccelso statista, il grande benefattore, il venerabile artefice del nuovo miracolo italiano, che masse enormi di connazionali hanno acclamato entusiastiche. Anzi, tutto il contrario.

Che conforto abbinare queste due vicende e concludere che, gli italiani, evidentemente, non sono cattive persone. Hanno solo tempi di reazione mooooolto lunghi, più o meno biblici. Mica è colpa loro, sono fatti così, bisogna compatirli, eh. Ci arrivano quando ormai è fuori tempo massimo, purtroppo, ma che ci volete fare, povere stelle?

mercoledì 11 settembre 2013

9/11

Apro incautamente FB la sera dell'11 settembre, e mi trovo ad assistere alla diatriba delle commemorazioni tra i filoUSA - Torri Gemelle sì, Golpe cileno no - e gli antiamericani - Golpe cileno sì, Torri Gemelle no. Allora io mando affanculo tutte e due le fazioni e celebro il mio 11 settembre personale: il giorno del compleanno di mio zio Agostino Ferretti detto Nino, fratello di mia madre, nato l'11 settembre 1920, e dell'incidente che lo uccise.
Anche mio zio aveva la retinite pigmentosa, ed era cieco come lei. Anzi, essendo nato 14 primavere prima di lei aveva anche il primato di esser lui il cieco originale di casa, per così dire, quello su cui avevano anche provato le torture di cure inutili e dolorose, prima di arrendersi all'inevitabile. Ma era lo stesso un uomo, mi si dice, molto vitale, spiritoso, un eterno ragazzone.
Pare che gli amici lo avessero chiamato il 10 settembre per invitarlo ad un pranzo a base di pesce ad un ristorantino di Ostia. Pare che lui convinse la compagnia a posticipare di un giorno: "andiamoci domani, è il mio compleanno, così festeggiamo." E così fu. E nell'andare, quell'11 settembre 1965, la macchina su cui viaggiava ebbe un incidente sulla famigerata Via del Mare: uno stupidissimo tamponamento, nulla di grave, così mi hanno raccontato. Ma la portiera del posto del passeggero, dove sedeva mio zio, si aprì per l'urto, e lui, privo di punti di riferimento visivi, non fece in tempo a rendersi conto di quel che stava capitando prima di cadere riverso fuori dall'abitacolo, battendo la nuca su una pietra miliare della strada.
Restò tetraplegico. Cieco e immobilizzato dalla testa in giù, rimase cosciente per qualche giorno, poi per fortuna entrò in coma. Ai primi di ottobre - il cinque, mi sembra - morì, tra l'altro fottendomi il primo compleanno della mia vita, capitato in mezzo a quel mese scarso di agonia.
Non ricordo niente di mio zio. Ricordo il viso di pietra di mia nonna, lungo tutto il corso della mia infanzia, quello sì. E devo aver assorbito il suo dolore per contatto ogni giorno da quell'undici settembre in poi, visto che, con una madre quasi cieca e un padre sempre fuori, era prevalentemente lei quella a cui ero affidata: quella che mi cambiava, che mi lavava, che mi dava la pappa.
Sembra che zio Nino fosse innamorato di quella nipotina, a cui aveva scelto il nome, Maria Cristina, combattendo e vincendo contro una pletora di parenti che ne avevano suggeriti altri, e che lei lo ricambiasse con uguale entusiastico amore. Che negli ultimissimi mesi, quell'ultimissima estate, ogni mattina, sentendo il suo vocione allegro che si approssimava al suo lettino, quella bimba di otto, nove mesi si svegliasse di colpo e si rizzasse in piedi, festante paperotta, dondolando energicamente la coda formata dalle fasce di lino intrise della pipì della notte.
Quando era di buonumore mia madre mi raccontava che, oltre al mio doppio nome, potendosi sul registro parrocchiale indicarne fino a sei, io ero segnata come Antonietta Marina Marta Laura Floriana. Antonietta come la mia madrina, Marina come mio nonno materno morto prima che io nascessi, Marta per far contento quell'originale di mio zio Aldo, fratello minore di mio padre, Laura per la mia zietta dodicenne sorella di Aldo e di mio padre, Floriana per la sorella della mia madrina.
Quando, nell'imminenza del mio matrimonio in chiesa, sono andata in parrocchia a richiedere l'indispensabile certificato di battesimo, ho constatato coi miei occhi che è vero, i nomi sono proprio quelli: Maria Cristina Antonietta Marina Marta Laura Floriana.
Ma all'anagrafe, prima della virgola, c'è solo Maria Cristina. E io quella sono, una Maria Cristina. Come volle lo zio Nino.
Auguri, caro zio che mi hai imposto il nome che porto, che mi ha definito come persona.
Oggi è te che ricordo.

martedì 10 settembre 2013

La freccia nera




Lo scorso martedì sera, al Globe, ho assistito al mio primo Riccardo III, notissimo capolavoro, ancorché minore, del Grande Bardo, che ho scoperto essere la sua opera più rappresentata: batte persino Amleto.
Minore perché giovanile, acerba, la trascendente originalità della sua successiva titanica, immortale produzione qui ancora solo sfiorata, e non ancora raggiunta l'emancipazione dal gusto gotico che permea i drammi nerissimi di Marlowe e degli altri suoi colleghi contemporanei fino a quel momento più celebri di lui, è né più né meno che una divertente e folle carneficina familiare senza tregua e senza respiro, attuata e narrata insieme, con lugubre entusiasmo e raccapricciante giocondità, dal suo artefice Riccardo di Glouchester, rispettivamente fratello, cugino, zio diretto o acquisito e marito di malcapitati York, alcuni dei quali peraltro a loro volta responsabili, quando non strettamente fautori, di precedenti delitti a danno di svariati Lancaster, altri loro congiunti, tutti maturati nel solco di quella lunga scia di sangue versata tra quelle due casate, entrambe discendenti dall'unica schiatta dei Plantageneti, per la supremazia sul trono d'Inghilterra, passata alla storia col titolo di Guerra delle due Rose.
Datosi che lo spettatore è consapevole che la fragorosa e cruenta sarabanda a cui assiste è effettivamente avvenuta, il suo primo pensiero, insieme a "quanto rimpiango in 'sto momento di essermene fregato a scuola dei cazzi e mazzi della monarchia pre Tudor, se l'avessi studiata come si deve adesso mi raccapezzerei in questo groviglio di parentele e di ammazzamenti di gente che si chiama tutta allo stesso modo, tre Riccardi, tre Enrichi, tre Edoardi, due Margherite, due Elisabette" è "ammazza, però, gli inglesi, che delicatezza di spirito, che attaccamento alla famiglia, che riguardo, che nobiltà d'animo! C'hanno un popo' di antenati di questa risma, che ospitavano i parenti stretti nella Torre di Londra e li ossequiavano a colpi di mannaia o facendoli strangolare, e ora fanno i fichi con il british understatement. Ma mi facessero il piacere."
In realtà poi sembra che questo Riccardo duca di Glouchester, assurto ad emblema di tutte le efferatezze compiute dagli York e dai Lancaster, non fosse il mostro di malvagità che il Grande Bardo pretende. Non più degli altri, almeno. E' vero, usurpò il trono dei figli del fratello (la cui morte, peraltro, pare, avvenne per cause naturali, ed egli non ne ebbe dunque sorprendentemente parte) - quell'Edoardo che l'aveva strappato al precedente re Enrico Lancaster e a suo figlio, tolti dal mondo ad opera del medesimo Riccardo nel suo periodo di fedeltà alla famiglia - dichiarandoli eredi illegittimi del sovrano defunto, facendoli rinchiudere nella torre di Londra e lasciandoli lì a morire d'inedia, o aiutati da un paio di sicari (anche se in tempi recenti, se non sull'imprigionamento, quanto meno sull'ordine di omicidio dei due principini la colpevolezza di Riccardo è stata messa in forse, un forse che scagiona lui per coinvolgere il "buono" Lancaster, l'eroico liberatore Enrico Tudor che lo sconfisse e lo lasciò morto nella battaglia di Bosworth Field salendo al trono al posto suo: ma nemmeno la storia può combattere contro Shakespeare e averla vinta), più o meno in contemporanea all'altro suo fratello conte di Clarence, a cui aveva fatto fare poco prima la stessa fine, per poi occuparsi di far passare a miglior vita la sua regina, lady Anne vedova Lancaster, sua antica promessa sposa divenuta sua moglie dopo che lui aveva finito di ammazzarle il marito e il suocero, i succitati re Lancaster fatti fuori in precedenza (rincarando poi la dose col cognato, dato che in questo guazzabuglio sanguinoso il già menzionato Clarence figura anche come marito della di lei sorella...); non fu però un monarca particolarmente vessatore, e non venne odiato dal popolo, perlomeno non più di quanto non fossero odiati tutti gli altri. Ma il Riccardo III di Shakespeare viene composto per celebrare i fasti dei Tudor, eredi diretti dei Lancaster, e dunque espone il punto di vista dei vincitori. Una forzatura che, tuttavia, invece di nuocergli, ha finito per regalargli, beffardamente, una fama imperitura.
Un dettaglio, invece, pare finalmente certo, dopo secoli in cui era stata considerato mero artificio letterario volto ad esprimere e motivare una ripugnanza anche fisica per un personaggio storto nell'anima: Riccardo era davvero gobbo, a causa di una scoliosi che gli aveva deformato la spina dorsale. Così palesa lo scheletro rinvenuto nel settembre scorso in un parcheggio a Leicester, il quale, in seguito ai test del carbonio 14, è risultato compatibile con l'esistenza storica di Riccardo. E che ora si parla di comporre e di seppellire con tutti gli onori. Insomma, adesso, oltre alla tragedia di Shakespeare, di Riccardo abbiamo anche i resti: l'uomo si è ricongiunto col suo mito.
Sia come sia, è stato suggestivo godere le crudeli gesta del diabolico Riccardo, e poi la sua caduta rovinosa e gloriosa. Il suo protagonista, Maurizio Donadoni, grandissimo attore teatrale, ha restituito appieno il fascino maledetto del personaggio e la sua suadente luciferina simpatia, credibile anche nella possanza fisica che lo rendeva simile ad un orco delle favole. Ma io, gustandomi incantata la sua vitalissima performance, ho ricordato un altro Riccardo, più misurato, sinuoso, fine ed elegante: quello ammirato da bambina in uno sceneggiato televisivo che era fiabesco e avventuroso piuttosto che cupo e macabro.
Eccolo qui, a colori invece che in bianco e nero, ma insomma proprio lui, serpentesco, infido, ammaliante, magnetico, Adalberto Maria Merli nei panni di un giovane Riccardo di Glouchester ne La freccia nera di Anton Giulio Majano.

Chissà se la memoria non m'inganna... Mi toccherà proprio rivedermela per appurarlo, quell'avvincente storia di cappa e spada. Per fortuna sono una collezionista e ho tutta la serie completa in DVD...


venerdì 6 settembre 2013

Friday I'm in love

Oggi c'era un'aria così lieve, un sole così giallo, un cielo così azzurro, un tepore così grato, colori così netti, e tutto era così fresco e vivo e nuovo di zecca e smagliante come se il mondo fosse stato creato stamattina, che persino Viale Partenope pareva un bel posto dove vivere.
Ah, settembre, quanto ti amo, sei il mese migliore dell'anno.


martedì 3 settembre 2013

Per chi suona la campana

1)
It's a kind of magic. IT'S A KIND OF MAGIIIC...
TA-DAH!
Gli squilli di fanfara della messaggeria del mio cellulare mi destano da un sonno inquieto e, quello per fortuna, dal sogno inquietante del marito che mi stava piantando per mettersi con una scemetta venticinquenne che lo seguiva con la lingua di fuori e la coda scodinzolante.
Apro un occhio: ma sono le otto e mezza di mattina!
Chi è che rompe a quest'ora le scatole a una povera donna in ferie?
"Ciao Maria Cristina, felice giornata! Ma non sei più su FB?"
Un mio contatto tacchinatore, educato e gentile ancorché povero di spirito, che ho eliminato senza rimorsi e senza clamore sei mesi fa. Non tanto perché tacchinatore, quello lo reggevo per il garbo e la discrezione con cui mi tampinava: ho tracollato quando s'è palesato grillino, e ha cominciato a sporcarmi la bacheca di spiritosissime idiozie a cinque stelle.
Pappagallo sì, Grillo no. Via. Ze end, sciò.
Il quale poi oggi, solo oggi, ha realizzato che c'era qualcosa di insolito nel fatto di non veder più traccia di miei aggiornamenti. Da cui il suo sms: "Ma non sei più su FB?"
Gli ho risposto "non a quest'ora..."
L'idea che l'abbia semplicemente cancellato dai contatti, quella ancora non è arrivata a sfiorargli la mente. Ci vorrà altro tempo perché il concetto si faccia strada in quel cranio ampio, lustro e vuoto, si radichi e cominci a fiorire.
Speriamo non se ne renda conto in piena notte, a 'sto punto.

2)
Moooon riveeeeer, wiiider than a miiile...
Ieri pomeriggio invece, mentre sto meditando sdraiata sul letto - leggi: sono in pre-pennica - mi suona il cell: è una telefonata della mia "amica" calabrese, quella che mi posta in bacheca gli abbracci "di quelli nostri" e con la quale intrattengo ormai da un biennio una relazione telefonica tutto sommato tenera e gradevole (chiama sempre lei, poveretta).
Mi disturba? Spera di no, e si scusa; ma mi chiama per chiedermi (tra risolini imbarazzati ed elettrizzati) cosa deve rispondere all'amica che ho "fatto fuori" ad aprile, la quale, non tenendosi più e sapendo che lei è ancora in contatto con me, le ha inviato un messaggio privato su FaceBook disperandosi del mio improvviso allontanamento, asserendo di non comprenderne la ragione e di non riuscire a darsi pace "perché tiene molto a me", e implorandola di adoperarsi per farle ottenere udienza presso di me. Lei, pur essendo al corrente delle mie motivazioni - ne abbiamo parlato da poco, da quando cioè mi ha fatto precise domande piene di malcelata eccitata curiosità in tal senso - non si è scoperta perché prima voleva assicurarsi di avere il mio permesso. Le ho risposto di fare quello che riteneva più giusto, e che mi fidavo del suo buonsenso. Insomma, intrighi adolescenziali tipici feisbucchiani. Strabiliante, però, che capitino tra una quarantanovenne (me, tra diciotto giorni), una ultracinquantenne e una sessantatreenne (l'amica ripudiata). Poi dice che non ho ragione, quando asserisco che FB ci voglia tutti far regredire all'infanzia.

E dunque, con tempi di reazione giurassici, uno dopo l'altro i miei contatti abortiti stanno ritornando, a intervalli di dodici ore l'uno dall'altro, come nei film degli zombie: li cacci dalla porta a badilate, rientrano dalla finestra col badile incastrato nella fronte. Tanto, essendo già morti, non possono rimorire, sono invulnerabili, invincibili.

A 'sto punto, siccome non c'è due senza tre, faccio ogni sorta di scongiuro. Perché, se tanto mi dà tanto, quale altro revival mi debbo aspettare a breve? Lo vedi, Cri, mi dico, che era un presagio, quello status che hai letto ieri dall'amico argentino della tua precaria amica sventata, il quale, parafrasando Venditti, e forse intendendo perculare lei, ha scritto quella roba che ti ha fatto schiantare dalle risate sardoniche:
"Certi amori non finiscono,
si fanno i cazzi loro e poi ritornano..." (col sottofondo melenso della melodia di Amici mai)

"Non chiederti mai per chi suona la campana, Cri. Essa suona per te." (cit.)

(Lo metto qui, 'sto gatto mammone che miagola da far tappare le orecchie, per scaramanzia. Occhio malocchio prezzemolo finocchio!

)

lunedì 2 settembre 2013

La fortezza vuota

"Mal comune mezzo gaudio".
Ah, quanto significato in questa saggezza popolare, oggi sconsideratamente disprezzata a favore dell'infelice ridicola illusione della supremazia di un individualismo ch'è perdente sotto ogni punto di vista.
L'idea narcisistica di essere speciali, diversi dagli altri nelle proprie sofferenze - ossia, nella partitura costante della nostra esistenza - prima ancora di essere patologica è tafazziana. Perché è la perfetta maniera per condannarci da soli, e senza scopo, al ritiro dalla salutare, inevitabile connessione con le persone, e anche col resto dell'universo mondo, indispensabile per la sopravvivenza.
Respingendo con latente spregio l'accettazione della imprescindibile condizione di uomo tra gli uomini, la mente morbosa ci fa il peggior servizio che il più acerrimo nemico possa concepire. Nella sua vanagloriosa allucinazione di eccentricità, lo psicotico si condanna da solo al proprio isolamento. Egli va in pezzi e sembra gridare aiuto, appigliandosi ad ogni ausilio possibile come un naufrago a qualsiasi pezzo di legno galleggiante, e attaccandosi a chiunque come una cozza allo scoglio, ma in realtà non lo vuole, anzi, lo disdegna. "Tu non puoi capire, nessuno può capire". L'interazione con un suo simile - uno qualunque, egli non distingue nella massa dei diversi da lui, non ha gusti né sentimenti, tranne un generico sentire filantropico che in realtà è maschera di una profonda, paranoica diffidenza verso qualsiasi specificità di contatto con gli altri a lui "inferiori" - può servirgli al massimo per svuotare il suo secchio di ansie e ossessioni, l'altro ridotto a discarica di rifiuti tossici. Il suo male interiore è cannibale e autoreferenziale, e per sussistere - in un atroce mors tua vita mea ingaggiato con colui che parassita e divora giorno dopo giorno - protegge quel malcapitato dalla possibilità di sanarsi costruendogli attorno un'inaccessibile tomba di ghiaccio che allo sventurato sembra il suo fondamentale guscio protettivo, ma in realtà separandolo dall'unica cura possibile, ossia l'accesso a relazioni autentiche con gli altri esseri umani, e prosciugandolo dall'interno per mancanza di dialettici stimoli affettivi, cioè di nutrimento del sé.
Al di là delle cause scatenanti - le ferite dell'infanzia, i condizionamenti sociali, le influenze esterne -, è questa catastrofe solipsistica la devianza ontologica che lacera l'anima dell'uomo contemporaneo.

La fortezza vuota: con questa metafora Bettelheim tratteggiò, in un libro bellissimo e insostenibile, la condizione dei bambini autistici rinchiusi nella sua Orthogenic School di Chicago. 

"Questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre".
Ora quei bambini sono usciti dalle cliniche, si sono propagati, sono diventati noi.