domenica 17 agosto 2014

La marsigliese

Io (alla giacobina, in un momento di tenerezza materna): - Sappi che, per rispetto della tua privacy, e anche perché trovo che ti stia a pennello, tu sul web sei da me apostrofata La giacobina. 

La giacobina: - Sì, mi sono giunte all'orecchio voci lontane che tu m'appelli così, La giacobina qui, La giacobina là. Ma perché io sarei La giacobina?

Io: - Stai scherzando, vero?

La giacobina (sussiegosa): - No! Non ho le idee chiare su chi fossero i giacobini, alla Rivoluzione Francese non ci sono ancora arrivata a Storia.

Io: - Seeeee. Ad ogni modo, ti scoccia se ti chiamo La giacobina? Posso continuare a farlo?

La giacobina: - Sì, mi scoccia. No, non puoi.

Io: - Allora continuo.

La giacobina: - OK.

martedì 12 agosto 2014

Di sole e d'azzurro

Sono a Roma a ridosso del Ferragosto, come mi capita ormai da qualche anno per motivi non tanto economici quanto familiari e personali. 
(Familiari: figli per ora persi poiché ormai, se non ancora in via ufficiale, di fatto mentalmente e fisicamente autonomi e mentalmente e fisicamente pigri in maniera irriducibile oltre ogni immaginazione, e dunque impossibili da convincere o vincere nella battaglia di svellerli dal nido e dalle carabattole di cui l'hanno infarcito e ostruito in favore di un periodo di vacanza, in nostra o in altrui compagnia.
Personali: l'indolente volontà di testimoniare a me stessa - corroborata anche grazie a quel loro così manifesto ed ostinato disinteresse alla questione - l'anarchia del non rispetto dei costumi borghesi in me da sempre latente, e sotto a quella l'affrancazione dalla palude del mio inconscio di bambina che, condizionato all'epoca dal malessere di vivere nel misero e doloroso isolamento di una famiglia squisitamente disfunzionale avvalorato dall'oggettiva circostanza del divenire il mio quartiere di residenza, per almeno tre delle quattro settimane del mese di agosto, un vero e proprio deserto, mi faceva patire l'insostenibile acutezza di un senso di abbandono, come di un punitivo esilio dal consesso civile, ad un segno tale da farmi considerare l'odiosa e coatta migrazione in caotici e scomodi luoghi di villeggiatura una benedizione, pur di allontanarmi da quella condizione penosa che aggravava la mia già penosa esistenza di prigioniera, separata dal mondo delle persone libere e, io allora immaginavo, felici e contente di campare divertendosi allegramente).
Sono a Roma a ridosso del Ferragosto, come già, dicevo, è accaduto nelle tre o quattro estati precedenti a questa: quando, anno dopo anno, ho potuto assistere all'inversione di tendenza sempre più marcata dal vuoto al pieno, dalla serrata totale di tre settimane dei negozi al progressivo prolungamento dell'apertura sulla chiusura, da venti giorni a quindici a dieci a sette, dalla sfilata di palazzi con le finestre sbarrate alla visione di panni stesi e di porte finestre aperte prima su dieci, e poi su venti, e poi su cinquanta balconi per l'intero mese senza interruzione, dall'immobilità post atomica del paesaggio rotta solo dall'abbaiare di un cane invisibile all'orizzonte al marciapiede che anno dopo anno si rianima del transito di una persona all'ora, e l'anno dopo di dieci, e l'anno dopo ancora di venti, trenta, sessanta, cento.
Ma a vedere quello che ho visto ieri non c'ero ancora arrivata. Ieri intorno all'ora di pranzo, quando sono rientrata dal mio week end lungo e tonificante in campagna (quello sì, in beata, beatissima solitudine) e ho scoperto assieme al marito guidatore di non poter posteggiare la macchina sotto casa per scaricare le quintalate di provvigioni di cui ci siamo riforniti (ci hanno costretti a rifornirci). No no.
No, perché, contrariamente a tutti gli anni precedenti, nessuno escluso, lungo tutto il perimetro del mio palazzo, l'undici di agosto, non c'era un solo posto auto libero.
Bisognava accostare, come in un'ordinaria domenica sera qualunque di autunno inoltrato, scaricare e poi parcheggiare più lontano, oppure nel nostro box. 
Nel nostro box, uno delle centinaia di box auto fioriti sotto l'instabile suolo del nostro quartiere improvvisamente crivellato di trincee scavate ai tempi gloriosi dell'approvazione del P.U.P.: formicai sotterranei costruiti, alimentando un business facile e famelico, grazie a corsie preferenziali di permessi grandi come autostrade, da piccoli e grandi squali del cemento sventrando viali e svellendo alberi dai giardini e devastando oratori parrocchiali (preti e suore furono i primi a gettarsi nell'affare concedendo i loro terreni al miglior offerente) perché, questa era la giustificazione data dall'amministrazione cittadina (di centro sinistra), così si sarebbero risolti i problemi di intasamento degli innumerevoli veicoli, divenuti, per il sopraggiunto benessere, due o tre per famiglia, in misura assai superiore al numero di posti di superficie disponibili.
Quei box che, svenduti uno ad uno da tanti proprietari in difficoltà, hanno adesso risputato le macchine sulla strada. Macchine che ieri, e anche oggi, assieme a quelle di coloro che non sono andati ancora - o non andranno proprio - in ferie, ho trovato allineate in fila davanti ai marciapiedi del mio palazzo e di quelli limitrofi, ad occupare tutti i posti disponibili.
Chi gliel'avesse detto, ai sessanta cipressi abbattuti sotto i miei occhi inorriditi la mattina del 23 dicembre 2002 nel sottostante giardino della mia scuola elementare (che le monache si erano affrettate a cedere al costruttore di turno a scopo di lucro, fregandosene di dove di lì alla primavera sarebbero andati a giocare durante la ricreazione i loro scolaretti), che dopo dodici anni al posto loro sarebbero spuntati in ogni angolo multicolori cartelli di "Vendesi". Chi gliel'avesse detto, che il loro sacrificio sarebbe stato vano, perché i possessori dei box si sarebbero venduti a prezzo ribassato, o avrebbero tentato di farlo, dopo poco più di un decennio, il box medesimo, e magari anche una delle due o tre macchine, se ne avessero potuto cavare qualcosa, restando a godersi, invece del sole e dell'azzurro di Punta Ala o di San Benedetto del Tronto o anche solo di Passoscuro, il grigio sporco del cielo sopra al quartiere Prenestino Labicano.
Mentre i box invenduti restano vuoti, inutilizzati, come le cabine degli stabilimenti balneari.
Ma nonostante questo, nonostante tutto, c'è chi dice agli italiani di stare sereni. E poi, lui sì, si va a godere il sole e l'azzurro.

domenica 3 agosto 2014

White flag


Quando si ama è facile essere vinti. In un rapporto di coppia, tra genitori e figli, in un'amicizia, quello che ama, quello che ci tiene, è il più debole, coinvolto, dipendente, destinato a soccombere a quello che è amato, fra i due l'invulnerabile. Si può lottare quanto si vuole contro questa sconfitta: accettarla negoziando concessioni sul sentimento e sul conseguente fallimento; accanirsi nella lotta oltre ogni ragionevole rischio; disperarsi; riderci su, ribellarsi, finanche tentare di strapparselo dal petto facendo violenza a se stessi, di disprezzarlo, di rinnegarlo; è tutto vano. Arriva sempre il momento in cui ci si deve arrendere. Senza condizioni. The winner takes it all.

Ed è proprio lì, nella resa incondizionata, che si scopre che arrendersi è il solo modo per diventare invincibili.



I know you think that I shouldn't still love you
I'll tell you that
But if I didn't say it
Well, I'd still have felt it
Where's the sense in that?
I promise I'm not trying to make your life harder
Or return to where we were 
Well I will go down with this ship
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door
I'm in love and always will be
I know I left too much mess
And destruction to come back again
And I caused but nothing but trouble
I understand if you can't talk to me again
And if you live by the rules of "It's over"
Then I'm sure that that makes sense
Well I will go down with this ship
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door
I'm in love and always will be
And when we meet
As I'm sure we will
All that was then
Will be there still
I'll let it pass
And hold my tongue
And you will think
That I've moved on
Well I will go down with this ship
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door
I'm in love and always will be
Well I will go down with this ship
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door
I'm in love and always will be
I will go down with this ship
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door
I'm in love and always will be

Portami il girasole

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.


(Rari girasoli, quest'anno, in Valdichiana. Tornata su due settimane fa, percorrendo la panoramica Sarteano-Cetona, che l'anno scorso m'aveva regalato glorie di distese di questi fiori regali intervallate a vigneti e a cipressi che sembravano aver fatto da modello a Dio per la creazione del Paradiso terrestre, ho dovuto far fronte al piccolo dispiacere di dovermi rammentare, io che nell'agricoltura ci bazzico da più di vent'anni e queste cose le dovrei tenere ben presenti, la rotazione colturale dei seminativi, nel cozzare contro la delusione di trovare in luogo di girasoli tappeti brunastri di grano già mietuto. Dovendo così, dopo aver scoperto questa poesia di Montale nella sua strofa di centro, apposta come didascalia ad un dipinto della preziosa mostra di Lawrence Alma-Tadema con cui mi son lustrata gli occhi la primavera scorsa nel Chiostro del Bramante, associandola subito a quel paesaggio agreste idilliaco, ridimensionare i miei epici furori.
Ma uno splendido girasole superstite, la mattina del mio rientro a Roma, son riuscita a scovarlo e a fotografarlo, in un campo nei pressi di quello che è il più pittoresco casello d'Italia, quello di Chiusi. E, sarà stato per la vivida esperienza che ancora mi riempiva gli occhi e l'anima, due sere di fila al Castello di Sarteano a correr dietro ad una Alice sempre uguale e sempre diversa nell'incredibile, prodigiosa, davvero meravigliosa versione di "Alice - fuori dal paese delle meraviglie" allestita e messa in scena con indicibile bravura e soprannaturale talento e amore dalla formidabile Compagnia degli Arrischianti, quel maestoso girasole solitario mi è sembrato racchiudere egregiamente tutta la poesia di Montale, tutta la bellezza del mondo.
Portami il girasole ch'io lo trapianti, portami il girasole impazzito di luce: stasera, di nuovo in quelle terre benedette, avrò la gioia e la grazia di tornare ad assistere ad un altro incanto teatrale, e a cercare altri girasoli.)