martedì 30 ottobre 2012

Diarios de motocicleta

"Una persona con un adeguato livello di intelligenza dovrebbe sempre avere un po' paura di te" mi disse a bruciapelo una volta, verso la fine della nostra bizzarra relazione, il mio casoumano.
Io lì per lì, tutta presa a contemplarlo sdilinquita mentre si sbafava un pezzo di pizza ungendosi dal naso al mento, non chiesi specifiche, mi limitai a restare a bocca aperta come un'idiota.
Solo al nostro successivo incontro, una decina di giorni dopo, ricollegando certi atti e fatti, gli replicai  un ansioso, pressante "perché?"
"Perché tu sei una che non lascia sospesi, che alla fine chiude sempre tutti i conti" mi rispose lui, rivelando un acume di giudizio nel quale un'anima ingenua come la mia credette di scorgere coinvolgente intuizione, commovente comprensione effetto di profondo vincolo affettivo, empatia, sintonia spirituale, dove invece c'era solo la mera straordinaria capacità di captare pensieri ed emozioni altrui, e di connettervisi mentalmente, tipica di uno psicotico.
Comunque sia, il casoumano aveva, come già altre volte, letto in me cose di cui io non avevo piena consapevolezza. Ci aveva preso. Ci prendeva spesso.
Ci ho ripensato perché in questi giorni sto regolando parecchi conti, in effetti. Uno ieri sera, bello grosso. Pratica espletata con pacata e lucida determinazione, con olimpica, efficace serenità.
Entro un paio di giorni ho intenzione di regolarne un altro, decisamente meno importante, anche se non è inusuale che contingenze che nella vita quotidiana sono poco più di mere sciocchezze abbiano un peso e un significato notevoli invece, stranamente, a livello psichico. Il mondo dell'inconscio segue buffi criteri, apparentemente assurdi rispetto all'ordinato e prevedibile sentire della coscienza.
Sto acquistando densità, contorni. Mi sto differenziando dall'indistinto caos nel quale ero immersa fino a poco tempo fa, una con-fusione emotiva che non mi dava modo di vedere delineati i confini che dovevo rispettare e che avrei dovuto esigere di tracciare.
Mi sto indurendo. E mi sento molto Che Guevara. Il quale affermava, in una frase gettonatissima su tutte le bacheche di FaceBook dove ciclicamente ricompare ad ondate: "Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza."
(Spero di essere proprio così, io. E di morire come lui, combattendo. Il più tardi possibile...)

domenica 28 ottobre 2012

Falling

Il buio e il freddo di questo primo pomeriggio di ora solare sembrano aver smorzato del tutto l'eccesso di calore dentro di me. Non brucio più, non mi consumo, non patisco più ustioni che mangino la mia carne viva. Invece di deprimermi, mi sento infusa di serenità. Mi godo il calduccio del mio nido domestico, il mio presente, il fugace attimo di tranquillità che mi viene donato dagli eventi a cavallo di giorni sempre frenetici, travagliati e forieri per me di prove di resistenza all'ansia sempre nuove. Ecco, ho digitato la parola "ansia" e mi viene in mente il post sulle venti cose da fare prima di morire che mi sono ripromessa di buttare giù da più di una settimana, ma rimando.Vorrei scrivere a profusione, ma mi sento troppo calma e riflessiva per farlo, adesso. Contemplo il mio groviglio interiore senza capo né coda assolutamente scevra da preoccupazioni o da autocritica. Anzi, più lo guardo e più mi pare di rara bellezza, una delicata, mirabile, irripetibile opera d'arte. Esisto, hic et nunc. Una sensazione assolutamente nuova.

Il momento che vivo e descrivo si inanella nel percorso che sto facendo da un po' di tempo. Spontaneamente, senza forzature, non intenzionalmente. Nello svolgersi del quale ho assorbito e assorbo con attenzione per me inusitata come possibile suggestione ogni avvenimento, ogni dettaglio, anche il più infimo, il meno importante. Per esempio, in questi ultimi giorni ho rivisto insieme a mio figlio, episodio dopo episodio, l'intera serie di Twin Peaks, che mi scosse non poco quando ero ancora quasi una ragazzina, e mi ha - piacevolmente - impressionato parecchio anche adesso. In modo molto diverso: allora mi attraeva contro la mia volontà, turbandomi alquanto, oggi mi affascina apertamente e mi provoca un curioso senso di pace, la pace che si ottiene con la comprensione e l'accettazione delle due facce opposte dell'esistenza contenute l'una nell'altra: il dolore nella gioia e viceversa, il bene nel male, senza possibilità di discernerli, di separarli.

Per cui eccola qua, la canzone che m'è venuta in mente oggi pomeriggio e che sto ascoltando con affetto intriso di dolcezza. Tenera, suadente, fluida, inquietante. Ipnotica, calda, inquietante, consolante. Triste. Placida. Sognante. Sensuale. Segreta, arcana. Odorosa di legna aromatica, di foglie secche, di erba umida. Pulsante di vita e di morte, di effimero e di eternità. Perfetta per questo primo scuro e gelido pomeriggio di autunno incipiente. Da riempirsene le orecchie e l'anima raggomitolate sul divano a meditare, magari con un ciocco in braccio.


Don't let yourself be hurt this time.
Don't let yourself be hurt this time.

Then I saw your face
Then I saw your smile

The sky is still blue
The clouds come and go
Yet something is different
Are we falling in love?

Don't let yourself be hurt this time.
Don't let yourself be hurt this time.

Then your kiss so soft
Then your touch so warm

The stars still shine bright
The mountains still high
Yet something is different
Are we falling in love?

Falling
Falling
Are we falling in love?

Improvvisamente l'estate scorsa


"Secondo una filosofia orientale, tutto quello che dai ti ritornerà indietro. Aspetto tir con trasporti eccezionali nei prossimi anni ;)"

" Ci credevo anch'io, finché il tir non m'ha investita XD"

sabato 27 ottobre 2012

The choice

Non possiamo scegliere chi siamo liberi di amare.
(sostiene Harold Bloom che l'ha detto Auden: io, che pure sono un'estimatrice abbastanza attenta di Auden, 'sta frase non la trovo. Ma siccome Harold Bloom c'ha una testa tanta gli credo. In ogni caso, la frase è psicologicamente, purtroppo, molto esatta)

mercoledì 24 ottobre 2012

Apologo sull'onestà nel paese dei corrotti

Cambio di mood.
Aiuti una figlia a cercare sul web un certo tipo di testo letterario, che tratti della corruzione della giustizia, perché l'insegnante con cui sta studiando I promessi sposi, giunta al brano di Renzo dall'Azzeccagarbugli, le ha parlato della Colonna Infame e le ha dato per compito a casa di cercare, appunto, un altro breve estratto di opera che affronti la questione.

E incappi in questo, scandalosamente mai letto prima, scritto dal genio di Calvino trentadue anni fa. E ammutolisci.

Da leggere con venerazione, in religioso silenzio.


Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti

di Italo Calvino*

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.

Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

* da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori

Al di là dei sogni


‏@pellescura
Si sta come sul baratro, un attimo prima di una spinta da dietro
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12:15 PM - 23 Ott 12 

17h ‏@crisolocri
@pellescura Lascia fa' che poi si vola!!!

16h ‏@pellescura
@crisolocri  non ci avevo pensato:-)

16h @crisolocri
@pellescura Nemmeno io, mai. Ma poi mi è successo davvero, stasera :D

Risvegli

Salvarsi la vita. Si può fare in mille modi, anche i più assurdi ed eccentrici. Ciascuno ha la sua strategia, magari maldestra, ma efficace.
L'importante è aver innescato il processo. E avere la percezione di averlo fatto.
Esser consapevoli che le cose si sono messe in un modo tale per cui indietro non si tornerà più. Che si andrà solo avanti, da oggi in poi. Senza sapere dove si sta andando, guardandosi intorno stupefatte e smarrite, talvolta anche rapite, non riconoscendo lo scenario.
Sapendo che, comunque, il meccanismo si è messo in moto, in maniera irreversibile.
E che oggi è il primo giorno di una nuova vita.

martedì 23 ottobre 2012

Può succedere anche a te

Quando, dopo aver opposto strenua e disperata resistenza, all'improvviso ti stappi,  il tuo mondo ruota di centoottanta gradi e ti accorgi che l'ansia, vista da un'altra prospettiva, è mera, autentica energia vitale disponibile.

sabato 20 ottobre 2012

Ricomincio da tre

Settimana caotica, dentro e fuori di me. Sto cercando di conoscermi, di capire quel che mi piace, quel che mi interessa, quel che vorrei, potrei, fare da grande. E mi sento un uccello che, entrato per caso in una stanza da una finestra aperta, non riesce più ad uscirne, e frullando le ali come un disperato sbatte il capo in tutte le pareti. Vado a tentoni, insomma. Sperando di trovare dei punti fermi a cui appigliarmi.

Continuando a ripensare a Suu mi è venuto istintivo adoperare la sua vicenda come un test: comparare la sua forza di volontà alla mia. Così mi sono messa a rovistare nel barattolo arrugginito della mia memoria alla ricerca di qualche mio atto che, compiuto magari per caso, senza aver idea di star facendo chissà che, nella più completa inconsapevolezza della sua portata, abbia finito per dare un'impronta, una sterzata importante, alla mia vita, in modo tale che, vedendolo ora retrospettivamente, io ne possa cogliere l'importanza, il significato, e gli effetti che ha indelebilmente determinato nella mia essenza di persona, nonché quanto abbia potuto influire e incidere sull'esistenza di coloro che mi circondano. Per avere un punto di partenza, o di ripartenza, da me stessa.

Non è servito manco rimestare tanto, alla fine, per tirarne fuori qualcuno.

Uno, come già ricordato, riguarda la storia della mia erre blesa corretta da me in prima elementare.

Il secondo è la mia autoterapia di guarigione dagli attacchi di panico che ho risolto con la fierezza di non esser mai ricorsa all'ausilio di farmaci. Manco mezza pasticca di ansiolitico ho mai preso. Dopo l'insorgenza di episodi violentissimi, continui e invalidanti intorno ai miei ventitrè anni - e lì sono stata aiutata e assistita, tanto, dalla sola amorevole attenzione di due uomini che avevo vicino, il mio allora fidanzato oggi marito e il mio datore di lavoro - ne ho avuti altri, anche a distanza di anni, ripetutamente. Stavo bene per un bel po', con il mio silente malessere che mi scorreva sottotraccia come un fiume carsico. Poi, improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, senza un motivo apparente, ecco che si riscatenava. L'ultima volta è stato il giorno del compleanno di mio figlio, un agosto di dieci anni fa. Si era in campagna, era prossimo il tramonto, io stavo andando in auto al paese vicino a ritirare la torta; e nel passare il ponte sul fiume ho sentito salirmi la solita, familiare, angosciosa sensazione di morte che pian piano prendeva ad invadermi tutta. Il panico che   mi saliva alla gola, irrefrenabile, ingestibile. La certezza di star varcando la soglia del mondo dell'aldilà, di non poter far niente per ancorarmi alla vita, agli affetti, ai miei figli che mi aspettavano a casa. Ma invece di irrigidirmi, come avevo sempre fatto, favorendo l'aumentare dell'intensità dei sintomi, mi sono abbandonata, dicendo tra me e me con serena curiosità: "Cri, forse è un attacco di panico, forse invece stai davvero morendo. E con ciò? Non avere paura. In fin dei conti, è un'esperienza anche questa. Vediamo che succede". Ebbene, sono tornata all'istante padrona di me stessa. L'attacco di panico si è arrestato, per non tornare mai più.

Il terzo è quando sono riuscita autonomamente, con una regime alimentare e fisico di mia invenzione e una costanza di cui mai mi ero scoperta capace, a dimagrire di dodici o tredici chili. Nell'autunno del 2005, in seguito ad un brutto malanno di mia madre, e alla sua conseguente degenza in vari ospedali, qualcosa mi è scattato dentro, e mi son detta che se non potevo ringiovanire potevo almeno dimagrire. Sull'età non avevo potere, sul peso sì. E dai settantuno, settantadue chili che ero arrivata a pesare, a giugno 2006 ero tornata ad averne addosso i miei cinquantasette di ragazza. Ora ne ho ripresi un paio, forse tre. Ma so di avere la potenzialità di disfarmene quando voglio.

Se ci metto pure il mio modo piratesco di guidare l'auto, il mio autocontrollo e la mia fulminea lucidità nel calcolare il pericolo guizzando a zigzag nel traffico impazzito e spaventoso di Roma senza aver paura di niente e di nessuno, beh, mi trovo una buona base su cui ancorare la mia rinascita di persona.

E ora esco di qui e comincio a darmi da fare.


lunedì 15 ottobre 2012

The lady

Week end intenso, passato variamente a vivere.
Bene, perlopiù.
Ieri sera, sfinita, mi sono ficcata a letto con una decina di DVD assortiti comperati nelle ultime settimane e non ancora liberati dal cellophane, estraendo dal mucchio, dopo breve esitazione, The lady, il film biografia che Luc Besson e Michelle Yeoh (quella de La tigre e il dragone e di Memorie di una geisha, qui splendida e devota interprete della protagonista) hanno tratto dalla parabola umana  di Aung San Suu Kyi.
Chi non conosce, almeno per sommi capi, la storia di questa piccola donna birmana? Tutti ne hanno sentito parlare, molti ricorderanno la cerimonia del Nobel per la pace che le fu conferito nel 1991: sul palco suo marito, professore inglese di storia ad Oxford, i suoi due giovani figli, e una sua gigantografia. Lei non c'era, costretta agli arresti domiciliari nella sua casa di Rangoon da un regime dittatoriale che cercava di cancellarla dal mondo, tanto che al momento della proclamazione nessuno, nemmeno la sua famiglia, sapeva nulla delle sue condizioni di salute; non si era nemmeno ragionevolmente sicuri che lei fosse ancora viva.
Eppure la visione di questa pellicola mi ha fatto scoprire quanto poco sapevo di lei. Quanto pochi strumenti di conoscenza avessi avuto fino ad allora per comprendere il dramma suo e della sua famiglia. Quanto straordinaria sia stata la coerenza della sua scelta di vita, così intensa perché così intimamente condivisa con suo marito. Quanto abbia perso di se stessa. Quanto abbia guadagnato in cambio. Che sacrificio immane abbia chiesto ai suoi cari. Ai suoi figli ragazzini, che hanno sicuramente sofferto in modo indicibile. Che strazio sia stato per lei esserne consapevole. Ed essere altresì consapevole di non poter fare altrimenti, semplicemente.

Tra le varie scene emozionalmente impegnative di questa pellicola, che sceglie di non approfondire più dello stretto indispensabile gli eventi della storia ufficiale per concentrarsi sulla vicenda privata di una donna che definire coraggiosa è molto più che riduttivo, due sono quelle che mi hanno particolarmente scosso. 

Una è quella, appunto, che descrive la cerimonia del Nobel. Suu, in completo isolamento, riesce a captare dalla radio, unico strumento di contatto col mondo esterno che le è rimasto, la cronaca dell'evento. Sa che lì ci sono suo marito, i suoi figli, con cui non può comunicare da tanto tempo; che parleranno di lei, che il mondo intero parlerà di lei: è una formidabile iniezione di fiducia, una sferzata potentissima di vita, in un momento così impossibile della sua esistenza. Ma i militari, con sadica crudeltà talmente chirurgica e gratuita da renderli grotteschi e ridicoli di fronte alla grandezza della sua umanità, le tagliano la corrente elettrica all'improvviso. La sua vecchia domestica non si perde d'animo: scova una radiolina a transistor sguarnita di batterie e ci infila a forza la pila della torcia elettrica. La radio funziona, riescono a sintonizzarla sulla stazione giusta, e Suu può così ascoltare le parole del comitato, gli applausi della gente, il discorso di suo figlio maggiore Alexander che parla in suo nome, presta la sua voce di ragazzo a lei, che il tiranno birmano vorrebbe rendere muta per sempre. Poi sente un'orchestra attaccare la sua musica preferita, quella che suo marito le ha sentito tante volte suonare: il Canone di Pachelbel. E allora, spontaneamente, si siede al pianoforte e trova il modo per essere lì con loro, colmando il baratro di tempo e spazio. I militari sono sconfitti, e con loro sconfitta è la protervia, la violenza, la brutalità. Vinta dalla sensibilità dello spirito di una piccola donna indomabile, impossibile da coercizzare o da imprigionare.


L'altra è quella, quasi insostenibile, dell'ultima drammatica telefonata tra lei e il marito morente di cancro. Ai dittatori non pare vero ritrovarsi tra le mani questa formidabile arma di cui profittare: dopo averle restituito una fittizia libertà di movimento con la revoca degli arresti domiciliari puntano sulla sua fragilità di donna toccata da una tragedia immensa nei suoi sentimenti più profondi, e negano perfidamente il visto d'ingresso all'uomo che vorrebbe ricongiungersi alla moglie che non vede da anni per un estremo saluto. Suu sa che questo è fatto per costringerla a partire: e che se uscisse dalla Birmania non le consentirebbero più di fare ritorno, vanificando il senso di anni di lotte, rendendo inutili anni di sofferenza sua e dei suoi cari. Ma senza salutare il suo uomo per l'ultima volta non sa stare. Lei, l'orchidea d'acciaio, per la prima volta davvero vacilla, e dice al marito che pensa di andare da lui in Inghilterra. Egli allora le si oppone fermamente: con indicibile generosità supporta Suu fino all'inverosimile, persino contro se stesso, spingendola così dove lei non si dà il diritto di arrivare. Sa che non la rivedrà mai più, che si spegnerà solo, lontano da lei. Ma proprio il dolore inaudito che entrambi provano a quel pensiero è misura della straordinaria condivisione d'intenti  tra loro due, uniti, nonostante il distacco, come pochi altri al mondo, dall'inizio dei tempi, sono stati. Rivedersi, abbandonando la strada che Suu sta percorrendo, vanificando tutto, sarebbe come rinnegarsi, e rinnegare qualcosa che sta alla radice del loro legame, su cui poggia l'autenticità e il significato del loro amore. Perché questo è il vero amore. Proprio perché si amano davvero Suu e suo marito Michael dovranno restare separati fino alla fine. Piange, Suu; e io, sdraiata sul letto accanto al mio, di marito, mi sono girata verso lo schermo, dandogli le spalle, perché mi vergognavo di fargli vedere che piangevo anch'io. O di fargli capire che sapevo che stava piangendo anche lui.

Quando ho spento mi è successo come quando i bambini piccoli vedono per la prima volta un documentario sui loro coetanei che muoiono in Africa e, per un po', i loro guai e dispiaceri scoloriscono in confronto ai veri travagli della vita. Aung San Suu Kyi oggi ha sessantasette anni: la sua esistenza volge al termine, e il rendiconto non è positivo. Si è persa la giovinezza dei suoi figli, costretti a crescere senza la madre e, dopo poco, assai prematuramente, anche senza il padre; si è persa la loro confidenza, se il figlio maggiore, oggi trentanovenne, si è rinchiuso in un monastero buddista negli USA e non ha inteso rivederla; si è persa gli ultimi anni di serenità accanto al suo uomo, morto il giorno del suo cinquantatreesimo compleanno; ha patito terribili segregazioni paragonabili alle più atroci torture, è stata oggetto di sopraffazioni inaudite, ha visto orrori incancellabili; e la situazione politica nel paese ch'ella lasciò ragazzina per tornarvi donna e madre con una vita ormai lontana da lì solo per una settimana o due - "il tempo necessario", dichiara ai soldati all'aereoporto - per assistere la sua, di madre, che aveva avuto un infarto - non è sostanzialmente mutata. Chi gliel'ha fatto fare?
Semplicemente, lei ha visto un orizzonte che gli altri non vedevano. Ha amato i suoi figli, il suo uomo. E siccome sapeva amare, ha naturalmente dilatato ed espanso questa sua capacità, questa tenerezza di madre, di donna, agli altri esseri umani, ai giovani universitari che ha incontrato, sanguinanti dopo gli scontri con i militari, nell'ospedale dove accudiva sua madre, e via via poi a tutti gli altri che si è trovata davanti nel cammino intrapreso, fatto di passi non preordinati, venuti spontaneamente, uno dopo l'altro, camminando. L'amore non è avaro, non si restringe, non si può circoscrivere. Può solo ampliarsi in cerchi concentrici via via sempre più larghi, come quelli di un sasso gettato nello stagno. E a sua volta ha tratto forza dal suo essere stata molto amata. Dai suoi figli, fino a dove le loro risorse emotive di ragazzi hanno consentito. E da suo marito, indissolubilmente legato a lei da un vincolo che li rendeva due in uno, anche a distanza, moltiplicando la loro forza e la loro capacità di incidere sul proprio e sull'altrui destino.
E mi sono detta: chissà come si sente, oggi, Suu. Questa donna minuta e indomabile, ostinata, piena di grazia e gentilezza. Chissà se ha mai provato le stigmate della depressione, del vuoto esistenziale, della mancanza di senso. Forse sì. Forse chissà quante volte. Però ce l'ha fatta. E' rimasta fedele a se stessa, senza perdersi mai.
E' una persona eccezionale, Suu. Quello che le è capitato è eccezionale. Per fortuna, anche, non è richiesto a tutti uno sforzo così sovrumano. Però, in fin dei conti, lei è invece, comunque, sempre e solo un essere umano. Una donna, solo una donna.
Se ce l'ha fatta lei, ce la posso fare anch'io. Ce la possiamo fare tutti.



mercoledì 10 ottobre 2012

Il male oscuro


"La maggiore incidenza della depressione sulla popolazione femminile, a prescindere dalle cause biologiche e ormonali di pertinenza della medicina, dal mio punto di vista di psicoterapeuta, rimanda a diversi fattori che hanno inevitabili ripercussioni sul piano psicologico.
Innanzi tutto, perché le donne attualmente non dovrebbero sentirsi deluse, insoddisfatte, scoraggiate? Se sono depresse, sono realiste. Malgrado l’equiparazione sulla carta dei diritti civili, nella pratica sono più che mai emarginate e risospinte in un ruolo subalterno. E’ un dato evidente: il ruolo femminile non si è evoluto secondo le attese degli anni delle grandi contestazioni. Le nuove generazioni, salvo qualche recente lodevole sussulto, sembrano avere abbassato le aspettative e rinunciato ad affermare aspirazioni più che legittime.
Un altro fattore predisponente alla depressione è quello che io chiamo “l’approccio sentimentale“ alla realtà, tipicamente femminile. Le donne vanno in depressione per eccessiva “partecipazione alla vita”: tutto ciò che fanno lo caricano di un investimento emotivo persino troppo intenso e un eccesso di dedizione. Questa attitudine a investire senza risparmiarsi genera un enorme dispendio di energie, da cui il rischio di ritrovarsi periodicamente svuotate. E, nella vita delle donne sempre così in affanno, manca spesso la possibilità di ricaricarsi andando alla ricerca di compensazioni gratificanti.
Infine, credo si sia alquanto persa di vista la dimensione collettiva, vissuta dalle generazioni passate con notevole passione e maggiore spirito di solidarietà, lasciando il posto a un individualismo disgregante. 

Prima di parlare di guarigione o prevenzione conviene considerare il fatto che la condizione umana e gli stati d’animo che la caratterizzano sono, per loro natura, variabili e altalenanti: la nostra emotività riflette gli alti e bassi della vita. Dobbiamo accettare il principio che la stabilità affettiva si fonda su un‘alternanza di esperienze felici e di altre insoddisfacenti o propriamente dolorose. Gli stati di crisi vanno comunque accolti perché, senza vissuti di sofferenza, di fallimento e di delusione, saremmo esseri incompleti. Oltre tutto, la depressione, dal momento che ci induce a un temporaneo ripiegamento su noi stessi e alla riflessione interiore, può essere utilizzata per accrescere la nostra consapevolezza, presupposto indispensabile per operare scelte più aderenti ai nostri bisogni .
Più che prevenire la depressione, dunque, occorre imparare a governarla quando si presenta, cercando di arginarne gli effetti più molesti e insidiosi. A tale scopo, conviene applicarsi con costanza alla ricerca di metodi di cura, non necessariamente farmacologici (escludendo naturalmente i casi di psicosi depressive o disturbi bipolari). Vale a dire: conviene adottare strategie correttive di comportamento, di abitudini di vita e di stile relazionale, puntando sui fattori che favoriscono il nostro benessere e la riconciliazione con la singolarità del nostro destino.
Le donne sanno essere particolarmente creative in questo programma di rinnovamento. Da questo sforzo di riorganizzare la propria vita, confidando nelle proprie risorse personali, deriverà una condizione di equilibrio dinamico che è tutto ciò in cui possiamo sperare per stare bene al mondo.  
Attraversare una crisi depressiva può costituire una sorta di vaccinazione che, in qualche modo, ci immunizza per il futuro. E, nel corso di eventuali ricadute, il malessere ci farà meno paura perché avremo a disposizione strumenti acquisiti nel corso della passata esperienza."


tratto da questo articolo scovato oggi su Repubblica on line.

martedì 9 ottobre 2012

Quando tutto cambia

Eccomi, finalmente! Vi ho trascurati tutti, sciagurata che sono! Devo ancora rispondere ai commenti del fantastico trio di ultimi carissimi amici che mi hanno scritto nel post precedente: lo farò quanto prima, giuro! Per ora li saluto qui: Ambra, Bruno, Sandra, vi mando tutto il mio autentico affetto!


E' che sono stata molto occupata con una mia nuova idea che mi ha assorbito completamente, data la bambina che sono.



Leggo oggi il bellissimo (al solito) post di Martina  e penso al mio voltare di pagina.

Perché questo mi è successo in questi giorni, ad andare da mercoledì scorso in poi.
"Volta la pagina, la puoi voltare": Martina la racconta, questa sua e forse anche altrui esortazione a se stessa,  per qualcosa di profondamente serio, profondamente incidente sulla sua vita.
Io questa esortazione me la sono fatta per mesi per una faccenda molto meno importante, molto più risibile di qualsiasi concreto vissuto. Ma non meno dolorosa. Perché, pur riguardando un avvenimento in sé inconsistente, è stata in grado di riattivare tutti i dolori pregressi della mia vita. 
(La causa di questo effetto: solo questo mi resta da capire. Ma sarà un percorso che farò autonomamente, per me stessa, perché riguarda solo me e non coinvolge nessun altro.)
Ho sofferto tanto, ormai è di pubblico dominio, per una persona, che è entrata nella mia vita prepotentemente, attaccandosi a me per sua necessità temporanea, e poi ne è uscita, altrettanto prepotentemente, senza preavviso.
Una persona che ho conosciuto sul web e poi ho frequentato anche nella realtà.
Fino a che non mi ha mollata.
Sì, signori. Sono stata mollata. Non ho vergogna ad ammetterlo.
E ho patito la sua mancanza stando male come un cane per tanto, tanto tempo.
Tutti mi dicevano "volta pagina!"; io stessa avrei dato l'anima per farlo: ma non mi riusciva. Ho pianto, spinto, tirato, riflettuto, cercato di farmene una ragione, argomentato, protestato, ingiuriato, poi ho pure taciuto, tentando di chiudere i contatti, di fare tabula rasa. Ma ero impaludata in una melassa vischiosa che mi aveva avviluppato e mi faceva soffocare, sprofondandomi sempre più giù in un abisso di malinconia, desolazione e disperazione.
Finché, improvvisamente, in occasione del mio compleanno, questa persona si è rifatta viva, in qualche minima maniera. Che era solo un manierismo. Ma a me lì per lì è sembrato di rinascere, per la speranza che quest'occasione pareva offrirmi di riappropriarmi del suo affetto. 
Forse c'era stato solo un brutto equivoco, tra noi, come diceva lei, che attribuiva a me la rottura. Incomprensioni che potevano sanarsi.
Nel giro di pochissimi giorni ho finalmente capito la verità. L'ho assorbita dai pori della pelle, mi è penetrata nella carne, non solo nella testa, dove avevo cercato di conficcarla invano per tutti questi mesi addietro.
L'ho captata da una sua telefonata, mercoledì scorso. Una telefonata fatta per prassi, per buona creanza. Dove si sentiva dalla sua voce il fastidio, l'assenza di interesse e di ogni minimo sentimento in lei per me.
E' stato come se finalmente mi cadesse un velo dagli occhi. E mi sono liberata.
Questa persona non esiste. E' aria. La relazione tra noi due, il suo bene, sono state tutte proiezioni della mia mente riflesse sullo spazio bianco che costituisce tutta la sua essenza.
E' vuota. E' un fantasma. Uno dei tanti che circolano qua dentro, e che si alimentano della vita degli altri, arraffando quello che trovano, senza manco stare ad andare per il sottile, senza discernere, senza nemmeno vagliare in base ad un proprio gusto.
Sono capitata io, poteva essere un'altra. Lei non mi ha mai manco vista davvero, non sa chi sono, non si è mai curata di saperlo. Perché tutto ciò che rientra nella sua sfera di interesse è il proprio basico, angusto benessere al grado zero dell'umanità, da procacciarsi in modo lucido e asettico, coattivo, senza odio né amore per l'individuo che va a colonizzare per ottenerlo.
Può una iena uccidere per cattiveria? Per rancore verso la sua preda? Certo che no. Semplicemente, ha necessità di nutrirsi. E' il cerchio della vita. Così va il mondo.
Non aveva dunque intenzione di farmi del male, no no. Non prevede, nelle sue azioni ed intenzioni, conseguenze in bene o in male. Doveva solo soddisfare le sue necessità. Nulla di personale: si è semplicemente nutrita di me in mancanza di pasti più appetitosi. Pure i leoni, quando non trovano carne, mangiano gli insetti. Mi ha assecondato perché non le costava niente. Ha continuato a frequentarmi come ultima spiaggia fino a che non ha trovato qualcosa che fosse meglio - meglio per i suoi standard, ovvio. E quando ha scovato chi era in grado di gratificarla di più nei suoi bisogni primari ha girato i tacchi ed è sparita senza manco darmi il tempo di rendermene conto.
E' una delle tante entità ectoplasmatiche che popolano questi luoghi virtuali. Gente che rovista nel mare della rete come in un cassonetto della spazzatura, sfoglia collezioni di esseri umani come fossero figurine, piglia e lascia le persone come i bambini al supermercato le cose sugli scaffali: vedono le caramelle, prendono quelle. Poi, se trovano i cioccolatini, lasciano cadere le caramelle. Senza riflessione, senza responsabilità. Dei Gurdulù che vanno appresso alle farfalle guidati esclusivamente dall'impulso, dalla volatile voglia del momento. Che passa repentinamente quando è soppiantata da un'altra, e allora si abbandona la precedente senza rimpianti né rimorsi.
Gente che non ha persistenza né consistenza. Che asseconda solo i propri stimoli finché li percepisce, senza scrupoli come può esserlo un neonato, incapace di distinguere il suo sé dal mondo circostante.
E lì ho avuto una folgorazione. Mi son detta, alla maniera di Pirandello: ma allora non è una cosa seria!
Così, dopo tanto penare, mi è venuta la benedetta ispirazione di scherzarci su. Di non pigliarla, e non pigliarmi, sul serio. Che c'è di meglio per ridimensionare una situazione che vederla con umorismo? Con l'umorismo si fa fronte anche alla morte. Campanile docet.
L'idea mi è venuta da una compagna di sventura, diciamo, che giovedì sera, su Twitter, in seguito ad una mia battuta spiritosa ha lanciato un cosiddetto hashtag, ossia, un argomento su cui chiacchierare: "DilloallaCri".
La mattina dopo, assecondando quell'improvvisa ispirazione, ho aperto una pagina su FB che si chiama giustappunto così: DilloallaCri. E ci ho messo come frase di lancio quel piccolo scambio di battute che mi era stato rivelatore, al telefono. (La mia risposta in realtà non m'era venuta subito. Ho dovuto ritelefonarle il giorno dopo per controreplicare.)
- Come va?
- Non mi posso lamentare.
- Ecco perché non mi cerchi più!

Con meticolosità ci ho invitato tutti i miei contatti, ci ho aggiunto un po' di cogestori - un paio amati e assidui frequentatori di questo blogghino - e ho cominciato a scriverci dentro.
Ecco un assaggio dei primi status. Ma nella pagina c'è molto di più.

"Primi rudimenti di apprendistato di laCri: laCri è prevalentemente femmina. Si osservano solo occasionalmente esemplari di laCri maschio. In questi individui il fenomeno è in prevalenza transitorio; mentre una laCri femmina è per sempre, un laCri maschio è sovente interessato da una momentanea ed isolata perturbazione psichica che cesserà al cessare della causa scatenante (una figa di legno o una troia, quasi sempre). Esiste tuttavia una ristretta tipologia di soggetti di genere maschile dove si ravvisa una tendenza laCri radicata e connaturata con intensità pari a quella delle femmine della specie.
Poiché quella tra una laCri e un casoumano è a tutti gli effetti una relazione, occorre, perché la dinamica si dispieghi in tutta la sua armonia e potenza di fuoco, che si sprigioni tra i due attori casoumano e laCri corrispondente una tipica sorta di vischiosa, più (da parte dellaCri) o meno (da parte del casoumano) larvata e ambivalente attrazione. Si è riscontrato che le interazioni più idonee all'armonioso sviluppo della stessa sono quelle formate da una laCri femmina piuttosto maggiore di età del suo casoumano, e da un laCri maschio coetaneo della sua casoumano controparte, con la quale si è incaponito perché, pur essendo tanto bisognosa d'affetto, non gliela dà. Questo perché, laCri femmine o laCri maschi, si ricade comunque nella conditio sine qua non ricordata dal Magnani nel post precedente, peraltro inscritta nel DNA della natura della specie laCri, connotante significativamente il legame ch'ogni laCri instaura con l'esemplare della specie casoumano: laCri è tale solo se va in bianco."

Man mano che scrivevo, ad ogni nuovo pensiero che formulavo, sentivo che mi lasciavo alle spalle un'ulteriore scoria, sedimento, incrostazione, che componeva un guscio di sozze squame le quali, via via che cadevano una dopo l'altra, andavano liberandomi una pelle liscia e vellutata, come stessi rinascendo. E aggiungendo dettaglio a dettaglio ci ragionavo come se fosse la prima volta, e me ne convincevo.
Così la mia paginetta, oltre ad essere un efficace diversivo ai miei pensieri ossessivi, è divenuta una sorta di autoterapia. Che ha contribuito a dare forza allle gambe su cui mi ero appena rialzata.
La dedico a tutte le donne che ho incontrato qui dentro che hanno patito storie simili alla mia. Sono tante. Alcune hanno subito esperienze molto più devastanti e difficili da archiviare. Altre non riescono ancora ad uscire dal gorgo.
Una di loro, domenica, mi ha detto "ti ringrazio, Cri. La pagina mi sta facendo tanto del bene."
Ecco, due cose ho imparato in questi due giorni. Una è che cambiare punto di vista può salvarti la vita. E che riuscire a ridere dei propri guai è un magnifico modo di mutare prospettiva.
L'altra è che sostenersi vicendevolmente moltiplica gli effetti benefici di qualsiasi azione.

Ah, ce ne sarebbe una terza.

Pensando che per contrastare un'attrazione potente occorresse la forza altrettanto potente di un'altra attrazione, disperavo di poter uscire da questa situazione anche per la mia scarsissima propensione a rificcarmi in un ginepraio di dipendenza con un'altra persona.
E invece è stata la creazione di questa pagina l'attrazione potente in grado di controbilanciare con piena efficacia l'altra. 
Un perfetto chiodo scaccia chiodo.
Solo che il chiodo sono io.
Ho finalmente sostituito nella mia testa l'immagine costantemente presente di quella persona con una molto più importante: la mia. Invece di appassionarmi ad un altro individuo, mi sono appassionata a me stessa. Invece di chiacchierare, passare il tempo, dedicarmi ad un altro ulteriore da me, ho chiacchierato, passato il tempo, mi sono dedicata a me. 
Ho riacquistato forma e dimensione. Le cose intorno a me hanno ripreso densità. Non sono più schiava. Sono libera, signora e padrona del mio cuore e della mia mente. Dove, ho scoperto, c'è un sacco inesauribile di roba interessante, divertente, stimolante.
Che meravigliosa sensazione. Dà senso alla vita, quel senso che temevo di avere perduto.
La auguro a ciascuno di voi, con tutta l'anima.


(Scusate la pessima impaginazione: blogger fa i capricci, e non ho più un amico che mi aiuti a districarmi tra i codici HTML...)

giovedì 4 ottobre 2012

Felicità tà tà

Ti ricordi, Cri? Di quando a cinque anni fosti spedita in prima elementare?
La classe, le compagne collegiali in divisa, i brutti grembiuli di nailon verde bottiglia, quei banchi neri, antichi, con il buco per il calamaio, troppo alti per una bambina tanto piccola. Suor Maria Rosaria, severa, brusca e distaccata come un sergente maggiore, ma rassicurante nella sua mancanza di tenerezza che ti risparmiava vischiosità emotive. L'indipendenza di sentirti lì una persona, un minuscolo individuo compiuto e autonomo. La meraviglia, la sorpresa, le scoperte. Il sillabario, le letterine da staccare, e da pescare nel grande sacco di riserva al centro dell'aula quando ti erano finite...
E quelle più usate di cui tutte facevano costantemente incetta, e per questo scarseggiavano, e allora tu eri costretta ad alzarti in continuazione e passare mezze mattinate immersa a testa in giù nel mare di cartoncini a rovistare, rivoltare tutti quei quadratini bianchi come chi cerca un ago in un pagliaio, borbottando.
"La mutolina, dov'è la mutolina? Uff, questa mutolina che va dappertutto, serve sempre e non si trova mai!"

E ti ricordi la tua erre moscia? Ti ci pigliavano in giro parenti e amici di famiglia da quando avevi cominciato a parlare. E tu, gran chiacchierona, ti ci irritavi e demoralizzavi, ma non riuscendo ad azzittirti mai non eri nemmeno in grado di sottrarti a quel gioco dove fungevi da zimbello.
"Cri, dai, diccelo ancora: giardino zoologico"
"GiaVdino zoologico"
"Ahahahahah!"
"GiaVdino, giaVdino, giaVdino!"
"Muahahahahah. Rrrosa, rrruota, rrrosso"
"Vvvosa, Vvvuota, Vvvosso!"
"Ihihihih. Dai, non ti dare per vinta, riprova!"
"Viprovo? Vvvvvvosa!..."
E giù risate.

Il dispetto e l'avvilimento per questo tuo difetto si era acuito a dismisura quando avevi dovuto cominciare a compitare il tuo nome e cognome gonfi di erre in classe, davanti a tutti.
"MaVia CVistina VecchiaVelli" avevi sbuffato, rossa in faccia per lo sforzo e la vergogna.

Quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. E finalmente eri esplosa. Decidendo di risolvere il problema una volta per tutte.

"Perdindirindina" pensasti, perché nella tua mente la erre era sonora e perfetta "se gli altri sanno dire la erre posso farlo anch'io. Che sarà mai? Ci dev'essere un segreto, qualcosa che sbaglio. Voglio capire cosa"

Passasti così all'azione.

La prima operazione fu darsi ad una attenta e insistita osservazione dei movimenti facciali delle tue compagne mentre pronunciavano le parole incriminate. Scopristi così in breve che la criticità si annidava in una differenza di impostazione della lingua: mentre tu la appoggiavi all'arcata superiore dei dentini (ancora da latte), loro invece la ponevano a vibrare all'inizio del palato.

Il passaggio successivo fu sperimentare nella pratica ciò che avevi visto.

E come una logopedista consumata cominciasti di slancio tentativi di autocorrezione, badando bene a posizionare in modo ortodosso quel tuo piccolo e vivacissimo organo fonetico.

Ci riuscisti quasi al primo colpo.

Così, un pomeriggio di ottobre, tornasti a casa da scuola cresciuta di una spanna, fierissima, giubilante di felicità, e ti piazzasti davanti a tua madre per il tuo momento di gloria.

"Mamma, senti: GiaRRRRRdino zoologico! RRRosa, RRRuota, RRRosso! MaRia CRistina!!!!"

Persino tua madre strabiliò. Venne chiamata tua nonna, e strabiliò anche lei. E per una settimanella parenti ed amici dovettero ascoltare, come pena del contrappasso per i loro pregressi sbeffeggiamenti, schiocchi argentini, assordanti e prolungati, di rotonde e perfette erre ad ogni piè sospinto.

Passata la prima settimana di euforia, ti venne nostalgia della tua vecchia erre blesa. E una certa inquietudine nell'averla persa. Questa nuova Cri, diversa da quella di prima, un po' sconosciuta a se stessa, ti turbava.

Perciò tentasti di recuperarla. Che ci voleva? Non dovevi far altro che tornare indietro, rimettere la lingua al posto di prima e ripigliarti il tuo vecchio difetto di pronuncia. Era una cosa che potevi controllare, pronunciare la erre così o cosà. Questo pensiero ti rassicurò subito. E cominciasti a provare a far fare alla bocca il movimento di prima, a ritroso.

Solo che, per quanto ti sforzassi, non ci riuscivi più. Avevi compiuto un passo che pareva irreversibile. La Cri piccina era cresciuta, non poteva più decrescere.

"Mi piacevo di più prima" ti lamentasti, spaurita. Ma poi anche questo piccolo malessere passò. Rimase la tua bella erre sonora, testimonianza di una tua piccola grande impresa andata a buon fine senza l'aiuto di nessuno, solo con la forza, la capacità e la tenacia di una bambina di cinque anni.

Ora è uguale ad allora. Quello che hai capito ieri, quasi folgorata, il decisivo passo avanti che hai compiuto, è irreversibile. Non si può e non si deve fare retromarcia. Il velo che sei riuscita a toglierti dal viso non potrai più riappiccicartelo. Ancorarti a nostalgie, a vagheggiati rimpianti di affetto per un difetto non ti serve, è un tiro mancino, un dispetto che ti fa la tua mente. Non aver paura di essere cresciuta, e vai sfoggiando per il mondo a testa alta la felicità e la fierezza che ti senti dentro: la rotonda e sonora erre di "libertà".









martedì 2 ottobre 2012

I treni a vapore


Questo post l'ho scritto a luglio 2011.
Lo riposto perché mi è ricapitata oggi la stessa cosa, para para.

Tranne il fatto che in più c'è adesso per me la nuova consapevolezza di esser stata persa da due persone amate.
Due persone, un uomo e una donna, che ho amato più di me stessa. Dunque male.
Due persone che per me non scenderanno più da alcun treno.
Due paia di occhi scuri che oggi han lasciato il posto a due paia di occhi chiari. E da oggi in avanti.

Perché al loro posto, oggi, ne ho incontrate altre due. Un uomo e una donna - Silvia.
Occhi celesti lui, occhi verdi lei. Che mi hanno vista, oggi, e mi vedranno ancora.

Le cose cambiano. Non ci si può opporre al cambiamento.
E come i treni a vapore, di dolore in dolore, il dolore passerà.

Io la sera mi addormento e qualche volta sogno
perché so sognare...

Oggi sono andata alla Stazione Termini, ad accogliere la mia amica Silvia, che tornando dal sud verso il nord aveva quattro ore di buco che ha voluto dedicarmi.
Silvia è una donna speciale, una delle persone che ho conosciuto sul web, e che, senza questo ausilio, probabilmente nella vita non avrei mai incontrato. Perdendomi molto.

Sono un tempo fatato, per me, quelle brevi ore in cui persone invisibili che mi sfiorano con le dita su di una tastiera escono dallo schermo e diventano carne viva, palpitante. Con una voce, e un modo di camminare, e di guardarmi, di ridere, di mangiare un gelato.
E io che assaporo questi passaggi effimeri di vita, cercando di assorbirli, per ritirarli fuori da me quando quelle persone saranno di nuovo lontane.
Ad ogni incontro la confidenza si fa più naturale, l'affetto più caldo, il legame più profondo. E ogni incontro si sovrappone agli altri, e ad altri con altre creature che il mio cuore ha imparato ad amare e riconoscere come familiari.
Si cammina fianco a fianco, felici di essere insieme, di essersi ritrovati, e già proiettati nel prossimo distacco, e nella lunga lontananza che ne seguirà.

E ogni volta con l'ansia che, per i più svariati motivi, sia definitiva. 

E dopo l'addio si cammina verso casa, con un piccolo affanno nel petto, e quella separazione ne richiama altre, che pesano un po', ogni giorno, di un peso che al presente si rinnova, nel ripercorrere tragitti già percorsi, luoghi di appuntamenti passati, di incontri e di congedi, di sorrisi nel riconoscere i tratti di un volto che ci attendeva lì, in quel punto, quella volta, e invece oggi non c'è.

Quanto sono belli, i momenti in cui i miei sentimenti per amici di pixel si riscontrano con la realtà di un abbraccio forte, di due meravigliosi occhi verdi di una donna bellissima, di un dialogo di vita, tra un treno da cui si scende ed uno su cui si risale. E lo strappo finale, quando si riparte, e si aggiunge in un posto del cuore anche questo ricordo, accanto agli altri, che, subito ridestati, si fanno più vivi e più dolenti di nostalgia.


lunedì 1 ottobre 2012

The rime of the ancient mariner


Quando, dopo una lenta, estenuante agonia, a quasi novant'anni di età morì mia nonna, cupa e amara vecchia che aveva costituito l'unico mio possibile appiglio nella vita, lo choc fu immenso.
Era la mia prima esperienza di distacco: temuta e accarezzata ossessivamente nei miei incubi per tutto il tempo della mia infanzia e adolescenza.
Nulla poteva lenire il dolore, l'angoscia del vuoto nero che mi si apriva davanti. Nemmeno dolci ricordi. Lei non era mai stata una cara nonnina che leggeva favole, che preparava dolci, che carezzava amorevole, che consolava quando la mamma era severa. Era solo stata l'unico scoglio del procelloso mare dove mi era toccato in sorte di annaspare. Piccolo, scomodo, scabroso, tagliente. Ma non avevo altro a cui aggrapparmi per non affogare.
Mi ricordo che fin da piccolissima, per tenere a freno l'ansia, il terrore che mi provocava il costante pensiero della sua dipartita, avevo cercato più volte conforto in una solitaria fantasia in cui io mi sarei presa una sua sostituta per farle recitare la sua parte: una donna che avrei fatto vestire con i suoi vestiti, avrei fatto abitare nella sua casa, parlare come lei, agire come lei. Come se niente fosse stato.
Quest'illusione mi esaltava e mi acquietava per qualche minuto. Il tempo di sentire affiorare alla coscienza la consapevolezza, la desolazione, la disperazione della mascherata. Non c'era soluzione. "Ma chi voglio ingannare? Quella comunque non sarebbe mia nonna, e io lo saprei" mi diceva subito una voce interiore, ributtandomi nel gorgo nero della mia paura, più debole e atterrita di prima.

Quando è morta mi sono spezzata dentro. Non perché le volessi bene, non era questo. Forse lo dico ora, dopo aver fatto i conti con la sua immagine per tanti anni, e aver capito tante, troppe cose. Forse allora mi pareva di averla amata talmente che il dolore era insopportabile.

Poi, dopo qualche giorno, mi sembrò di stare già meglio. Lei non viveva più a casa sua, vicino a noi, da molti mesi, e apparentemente non era dunque cambiato nulla. Io avevo ventun anni, da poco avevo preso a lavorare, avevo il mio ragazzo, sempre quello, quello che oggi è mio marito, e credevo anche di avere una vita davanti, occupazioni, progetti, speranze, sogni da coltivare, in cui immergermi.

Ma col passare dei mesi il dolore, anziché attenuarsi, si intensificò. Guardavo la sua stanza, le sue cose, che non avevamo avuto il coraggio ancora di riporre, il suo letto, i suoi abiti, e la mancanza di lei diventava così tangibile da togliermi il fiato.  La sera, quando andavo a dormire, in un lettino che avevo appoggiato al suo, in senso inverso, il mio sguardo errava sui muri di quella camera come quello di un carcerato in una cella senza finestre. Dovevo arrendermi all'orribile, inaccettabile realtà. Quei muri erano il simbolo concreto di quelli, invisibili, che la separavano da me per sempre. Potevo pigliarli a testate, ma non si sarebbero frantumati per aprirmi un varco verso di lei. Io non potevo abbatterli per andarle incontro, lei non poteva attraversarli per tornare da me.
Così mi familiarizzai gradatamente, inesorabilmente, sera dopo sera, coll'idea che lei non sarebbe tornata mai più, mai più. Non ero una bambina, lo sapevo che era morta, al suo funerale ero quasi svenuta, e al ritorno avevo avuto una metrorragia. Eppure quel dolore subitaneo nulla aveva a che vedere con il lutto infinito che mi devastò in quelle sere, quello stillicidio straziante che mi teneva il cuore stretto in un pugno e toglieva suono alle mie grida mute.

Durò un anno, questo tormento che si alzava come uno tsunami nella mia anima. La prima estate senza di lei. Il mio primo compleanno. Il primo Natale. La mia vita, senza di lei.

Poi, dopo un anno, come era venuto passò. La clessidra del tempo era stata rivoltata, portandosi via, risucchiati da un turbine di sofferenza, i più vivi ricordi, le più vive sensazioni. Allora riuscii pure a svuotare il suo armadio, i suoi cassetti, senza sentirmi sanguinare dentro il petto.

Forse un anno è il tempo minimo necessario a ricoprire i ricordi. Ogni giorno ripassi sopra allo stesso giorno dell'anno prima, ed è dilaniante la memoria di quello che ci hai vissuto al giro precedente, ne hai una nostalgia inaudita, ti si schianta il cuore nel constatare la differenza, la perdita. Poi, quando ci ripassi la seconda volta, non è più così. Ci hai perso l'abitudine. Ci hai frapposto, finalmente, un'intercapedine.

Prego con tutta l'anima che sia così anche stavolta. Perché allora sono, sì, appena entrata nel vivo di un'ulteriore eruzione del magma di sofferenza che ho dentro, ma ho speranza che tra qualche mese scivoli via. E io possa finalmente arrendermi ad un'altra orribile, inaccettabile, straziante realtà, e seppellire un altro morto. Senza rimpianti, senza più dolore.

The Mariner, whose eye is bright,
Whose beard with age is hoar,
Is gone: and now the Wedding-Guest
Turned from the bridgeroom’s door.

He went like one that hath been stunned,
And is of sense forlorn:
A sadder and a wiser man,
He rose the morrow morn.