lunedì 31 dicembre 2012

Gilda

E' stata di certo una grande scienziata. E' stata una perseguitata delle leggi razziali. Ma nel mio ricordo vivo, reale perché frutto di esperienza diretta, lei è questo:


una formidabile, minuscola, fragilissima donna d'acciaio di novantasette anni che passa varie nottate di metà maggio 2006, indomita e disciplinata, assisa sugli scranni del Senato, per votare prima l'elezione a presidente del Senato di Franco Marini, e poi la fiducia al II governo Prodi, mentre i suoi colleghi maschi relativamente più giovani di lei si sfasciano esausti a ronfare sulle panche. E che poi, ad operazione conclusa, esce a piccoli passi, scortata dappresso ma non sorretta dal suo giovane segretario, per tornare a casa, tributando signorili, discreti e franchi sorrisi al diluvio di applausi della folla assiepata fuori da Palazzo Madama. In mezzo alla quale si distingue per esuberanza la detentrice di questo blog.
Ciao, fantastica, atomica Rita.

martedì 25 dicembre 2012

Mi ritorni in mente


(Grazie a tutti, domani rispondo! E per ora, a Natale finito e pericolo scampato, mi godo Freddie, un vero angelo, per me.)


Oh my love we've had our share of tears
Oh my friends we've had our hopes and fears
Oh my friend it's been a long hard year
But now it's Christmas
Yes it's Christmas
Thank God it's Christmas

The moon and stars seem awful cold and bright
Let's hope the snow will make this Christmas right

My friend the world will share this special night
Because it's Christmas
Yes it's Christmas
Thank God it's Christmas
For one night
Thank God it's Christmas
Yeah thank God it's Christmas
Thank God it's Christmas
Can it be Christmas
Let it be Christmas every day

Oh my love we live in troubled days
Oh my friend we have the strangest ways
Oh my friends on this one day of days
Thank God it's Christmas
Yes it's Christmas
Thank God it's Christmas
For one day

Thank God it's Christmas
Yes it's Christmas
Thank God it's Christmas
Wooh yeah
Thank God it's Christmas
Yeah yeah yeah yes it's Christmas
Thank God it's Christmas
For one day yeah - Christmas

lunedì 24 dicembre 2012

Nightmare before Christmas

E' da ieri che già mi è presa, puntuale, la sindrome depressiva delle feste.
Però, siccome vi voglio bene, mi faccio forza e vi auguro non so bene che a modo mio, nell'unica maniera possibile, quella di Jack.
Perché io, di fronte al Natale, esattamente come lui mi sento.
Speriamo che anche il mio film vada a finire come il suo.
Ma non precipitiamo gli eventi. Per ora godiamoci questo caleidoscopio con le orbite spalancate come le sue.
Auguri, Aldo, Ambra, Angie, Martina, Sandra, Bomba, Bruno, Endi, Minerva, Linda, Vania, Nick, Gap, Luz, Punzy, Nou, Carlo, Antonio, Mezza, Eli, Frà, Dan, Aube, Simo, Penny, Pat. E auguri a tutti gli altri che passeranno di qui, a quelli che ci capitano per caso, a quelli che ci capitano a mia insaputa,  a quelli che non ci sono mai passati, a quelli che non glie passa manco p'a capa, a quelli che ci sono passati e non ci passano più, che non dimentico.
Cos'è?

venerdì 21 dicembre 2012

L'amor che move il sole e l'altre stelle

"Dimenticate il resto e ditelo solo a me. Ditelo a me: come amico."

(Io lo so come ci si sente, quando i nervi e la mente ti imprigionano con lacci invisibili ma robustissimi. Conosco lo strazio lacerante, la mortificazione, lo scoramento. E cosa vuol dire sentire uno che ti parla così, che non si rivolge al tuo ruolo, alla tua maschera, ma al tuo autentico te stesso, all'essere umano che sei e che lui ti riconosce di essere, degno di attenzione e amore per il solo fatto di esistere.)

giovedì 20 dicembre 2012

Perpetuum mobile

Tutto scorre, tutto è moto. Armonico, elastico, fluido movimento di energia cosmica. Ed è gioia sentirsene microscopica, irripetibile parte, destinata a continui scarti infinitesimali di distacco e riassorbimento, immersione ed emersione, danzante sulla cresta dell'onda sinusoidale che ritma l'esistenza.

La giornata di oggi si apre con un freddo becco e con me che, lasciata la macchina lontano dall'ufficio, percorro a passi veloci Via Emanuele Filiberto cercando il sole come una lucertola intirizzita, finché, girato l'ampio angolo di Viale Manzoni, mi incanto a guardare l'espositore di DVD dell'edicola dappresso con concentrazione infantile, pastrocchiando mentalmente tra i film che ho nella testa e quelli che vorrei comperare, e sento alle mie spalle un "Cristina!" esclamato con voce fresca e melodiosa, e mi giro, e godo la visione della più bella centaura incontrata da parecchio tempo in qua, la professoressa di mia figlia (ed ex di mio figlio) che, a cavalcioni del suo motorino, da sotto il casco scuro che le contorna gli occhi splendidi, si abbassa sul mento il passamontagna, mi fa sorridendo "due bacetti al volo prima che scatti il semaforo!" e in una frazione di secondo mi porge la bocca a cuore, mi sfiora le gote e riparte vivace e leggera verso la scuola che l'attende; e si chiude con la pazienza e la pacatezza dell'uomo che ascolta le mie prodezze, i miei progressi, mi spinge a non sminuirli ma li colloca nel giusto alveo di semplicità e naturalezza ch'è proprio delle cose umane acciocché non mi si rivoltino contro, e che sulla porta, dandomi appuntamento ai primi di gennaio, mi saluta così: "Buone feste. E continua ad usare la forza" lasciando trapelare così il suo segreto: non è un terapeuta, è uno jedi.

E adesso mi rituffo nell'indistinta bellezza del divenire, in cui ad ogni istante frammenti si staccano da me, brulicante pulviscolo dell'universo, per trasformarsi e trasformarmi in qualcosa di incessantemente nuovo e diverso, e variamente ricombinato, insieme a tutto il resto.
(Buonanotte.)


martedì 18 dicembre 2012

Signora per un giorno

Ieri è stata una giornata da dimenticare.
Oggi è una giornata da ricordare.
Non perché sia successo chissà cosa.
Perché sono stata, coi miei atti, col mio comportamento, io a far succedere delle cose.
Non sono stata, come al solito, una bambina maltrattata.
Oggi sono stata un'adulta. Ho perseguito verità e giustizia, ho difeso diritti, ho ripristinato l'etica calpestata nei rapporti, ordine, armonia e serenità smarriti nel mondo. Ho rimesso ogni cosa al suo esatto posto. Ho innalzato gli umili, ho confuso i prepotenti. E senza eccedere, senza farmi coinvolgere. Senza perdere la testa, senza investirci emotivamente, senza spaventarmi prima né commuovermi poi. Non mi sono fatta confondere dalle minacce, né blandire dalle lusinghe.
In soldoni, non mi sono fatta fregare come al solito.

Oggi sono stata una signora. Signora per un giorno.
E ho fatto tutto da sola!

Le colleghe, stasera, prima di uscire, quando ormai era tutto tranquillo, mi hanno timidamente chiesto un resoconto.
"Cri, puoi essere fiera di te" hanno concluso poi, felici per me e anche per loro, perché vedere realizzate certe piccole cose da una persona è sprone, incoraggiamento e segno di speranza per tutti. "Puoi andare a scrivere sul calendario alla data di oggi: è stata una bellissima giornata."
(Qualcuna ha azzardato ammirata: "ma questa terapia funziona davvero!")

sabato 15 dicembre 2012

Cavalli ricamati

Ieri sera sono andata a teatro con estrema diffidenza.
E mi sono difatti inflitta tre ore di sofferenza.
Tre ore faticose, farraginose.
Purtroppo l'abbonamento annuale al Quirino, accanto a opere di qualità messe in scena da solidi professionisti, comprende anche robe simili, e allora, per non sprecare il biglietto, ho tentato la sorte, pur sapendo di fare un azzardo. E invece! Mi ero concessa di lisciare Barbareschi col Discorso del re, mi sono sorbita ben di peggio con questo. 
Lo spettacolo era un adattamento di Rain Man. Uno di quei filmacci hollywoodiani che affrontano storie improbabili con faciloneria frettolosa, ruffiani, scontati, scritti coi piedi, tutti mestiere, che si reggono unicamente sulle più retrive sollecitazioni alle viscere degli spettatori e sulle performance ai limiti dell'istrionico di gigionissimi protagonisti che sanno che ruoli siffatti (contrariamente a quanto immagina il volgo molto più semplici di tanti altri), al limite del numero da circo, così cesellabili e alieni, frutteranno loro un sicuro Oscar. 
Robette divertenti, per carità, piacevoli. Ma nulla di più.
L'unica cosa che davvero mi era simpatica di quel film era la colonna sonora, opera dell'onesto artigiano Hans Zimmer, non un genio musicale ma un sicuro, dignitoso talento, autore di varie cose non eccezionali ma certo pregevoli, alcune delle quali - la colonna sonora di The vacancy, per esempio, o quella di The Lion King - mi sono, per la mia compulsiva attrazione per la melensaggine, care al cuore.
Son riusciti a farmi detestare pure quella, sparandola a tutto volume e poi sfumandola quasi simultaneamente ad ogni piè sospinto all'interno dell'indigesto polpettone, come alle recite parrocchiali.
Ché se già non è il massimo guardarsi il film, figuratevi vederselo replicato, sfrondato di ogni addobbo potenzialmente, se non abbellitivo, almeno decorativo quale scenografie, inquadrature e tagli di montaggio, nella scarna penuria di mezzi di un allestimento teatrale, senza il minimo sforzo creativo di rivisitare il testo e dargli un'impronta diversa e personale, damblé, con tutti i tempi morti di sceneggiatura, le stesse identiche precise battute precisamente scimmiottate, collo scialbo coprotagonista (distintosi esclusivamente nei dieci minuti recitati in canottiera e attillatissime mutande per la sua esposizione al maturo pubblico, in palese ossequio alla volontà della produzione di far cassetta con ogni mezzuccio, di un fisico palestrato e d'una pacchiana ostentata erezione) spedito a fare piattamente il verso a un Tom Cruise, già abbastanza insopportabile e imbarazzante di suo nell'originale, persino nel timbro di voce (del doppiatore, of course!) e ad enfaticamente caricare e appesantire, per eccesso di zelo e difetto di personalità, ogni battuta più di quanto già non la carichi ed appesantisca quello nella pellicola madre di cotanto abominio, e con l'attricetta comprimaria indotta a ricalcare pedissequamente tutti gli strilletti e le mossette di Valeria Golino fin nel modo di appizzare il culo. Gente che non si cala in un ruolo, non si immedesima in una parte, ma semplicemente svolge il suo compitino per di più ricopiandolo da altri, o sforzandosi alla meno peggio di farlo, con una calligrafia che non le è propria, qualcosa a cui si sovrappone rimanendone completamente avulsa.
Una mistificazione. Una parodia. Una finzione penosa, faticosa, che di scenico, di teatrale, non ha nulla.
Una cosa kitsch, di plastica, scadente, brutta, come le imitazioni delle borse griffate cinesi o napoletane.

Responsabile di siffatta prodezza è la Compagnia della Rancia, che oggi va per la maggiore, artefice di riedizioni di musical di grandissimo successo. Questo è il gusto artistico, oggi.

Che tedio, che noia. Conoscendo purtroppo bene i dialoghi del film (anche per il loro esser invero ridotti all'osso), mi sembrava di dover imboccare agli sciagurati interpreti ogni battuta. Ad ogni scambio concluso mi incoraggiavo con momentaneo sollievo: "e vai, anche questo dente ce lo siamo levato". E che imbarazzo, che disagio, dover applaudire, alla fine, quando invece avrei ritenuto più appropriato tirare pomodori, impossibilitata dalle mie inibizioni e dalla mia perniciosa tendenza all'accondiscendenza, nella circostanza giunta a livelli di ipocrisia elevatissimi. 
Con questi, sul palco, stolidi e bamboleggianti, che non si accorgevano di niente. Che chissà quanto credevano di esser stati bravi.

Viviamo in tempi così.

E forse per contrasto, per ribellione interiore, stamane, svegliandomi, mi sono venuti in mente "i miei tempi". Quelli degli sceneggiati TV trasposti da illustri opere letterarie, recitati da autentici attori degni di questo nome. Senza arrivare a scomodare il pantheon dei Grandi, da Foà a Buazzelli, che so, i Corrado Pani, gli Ugo Pagliai, i Giuseppe Pambieri, i Gabriele Lavia. Per il quale mi presi una cotta stratosferica ai tempi del Marco Visconti. Il Gabriele Lavia di allora, innocente promessa delle scene, pre-sodalizio con la Guerritore. In perfetta coppia d'amor cortese con la Pamela Villoresi di allora, tenera e sensibile giovinetta nel cui seno ardeva il fuoco sacro dell'arte, non l'esaltata destrorsa di oggi.
La sigla finale, poi, quella ballata composta e cantata da Herbert Pagani, lui sì artista, morto prematuramente, non me la sono mai dimenticata, e me la risento spesso, assaporandomela come mia personale madeleine. Ah, il profumo delle cose buone di una volta.


Cavalli ricamati sull’arazzo del passato,
passato che ritorna su un accordo in si minore;
leggende dove guerra è sempre sposa dell’amore,
amore che tu insegui e non raggiungi quasi mai...

Io sono nato il giorno che ho veduto il tuo sorriso
e fui ferito a morte quando ti hanno rubata a me:
le acque dei torrenti sono lacrime d'amore
e ogni lacrima mi dice "meglio vivere infelice
che felice, senza averti vista mai"

Vivrò tutta la vita per cantare il nostro amore
ed ogni trovatore che il mio canto sentirà
lo porterà lontano, oltre monti ed oltre mare;
il tempo può passare, questo canto durerà...

E volerà leggero come polline di fiore,
per secoli d’amore altri amori sveglierà;
e immagino gli amanti che lo cantano a memoria,
e poiché saranno tanti sull'arazzo della storia,
qualche cosa
di noi due
resterà.

venerdì 14 dicembre 2012

Fiore di cactus


 lo so che sono psicopatica
e tu non puoi mica negarlo

ma che ne so

ma pure io, dai, e tu lo sai
si vede da come mi comporto, da quello che scrivo, dalla mia pagina dellaCri!

a essercene di psicopatiche come te :)

Cammina, non correre

(Mi sa che una delle verità per cui mi è ripresa l'acuta nostalgia canaglia di questi giorni è che il mio  inconscio cerca di stornarmi da una nuova fatica inutile: mi propone immagini di un passato pseudo felice per impedirmi di affezionarmi troppo al mio terapeuta, ecco. Ché oltretutto, se l'obiettivo è liberarmi dalle mie inibizioni con una robusta dose di frantumazione del mio maledetto Superio con la ridicolizzazione di esso e dunque, essendo quello contenuto in me, di me stessa medesima, come posso io, che già faccio normalmente una fatica bestia a superare la mia castrante timidezza, il senso opprimente di vergogna, con quelli di cui non mi frega un ciufolo, far lo sforzo sovrumano di accettare di mostrarmi fin buffona davanti a uno di cui mi importa? Mannaggiammé che me lo son scelto bello come il sole. Mi ficco sempre nelle situazioni del menga, io! Ma pensarci prima, una volta tanto, invece di caricare la vita con le mie cornine a testa bassa? E comunque, come si dice, Cri? Hai voluto la bicicletta, e mo' pedali)

giovedì 13 dicembre 2012

Brise marine


La chair est triste, hélas ! et j'ai lu tous les livres.
Fuir ! là-bas fuir! Je sens que des oiseaux sont ivres
D'être parmi l'écume inconnue et les cieux !
Rien, ni les vieux jardins reflétés par les yeux
Ne retiendra ce coeur qui dans la mer se trempe
Ô nuits ! ni la clarté déserte de ma lampe
Sur le vide papier que la blancheur défend
Et ni la jeune femme allaitant son enfant.
Je partirai ! Steamer balançant ta mâture,
Lève l'ancre pour une exotique nature !

Un Ennui, désolé par les cruels espoirs,
Croit encore à l'adieu suprême des mouchoirs !
Et, peut-être, les mâts, invitant les orages,
Sont-ils de ceux qu'un vent penche sur les naufrages
Perdus, sans mâts, sans mâts, ni fertiles îlots ...
Mais, ô mon coeur, entends le chant des matelots !


martedì 11 dicembre 2012

L'aprés-midi d'un faune

Di tanto in tanto, quasi tutti noi giungiamo a un punto di sopraffazione, dove l'impulso vitale si trasforma in fatica e la gioia di vivere in un senso di apatia che deriva da una pressione psicologica. Poi, una volta o l'altra, ecco arrivare la goccia che fa traboccare il vaso: sperimentiamo il repentino passaggio dall'ancora sopportabile all'insopportabile, dall'impulso alla pressione, quasi come un'espressione del destino. 
(...)
Non è forse naturale che, da uno specifico momento in poi, le cose ci sembrino insopportabili, l'impulso vitale ristagni e qualcosa di forte ci opprima, non soltanto in situazioni di dolore, ma anche in situazioni piacevoli? A tutto questo c'è soltanto una risposta indiretta: possiamo continuare a rimandare il momento in cui l'impulso si trasforma in pressione, l'affermazione in ansia. Possiamo proseguire, anche dal punto in cui ci siamo sempre fermati e arrivare dove non siamo mai arrivati. Dioniso è più forte di quanto crediamo possibile.
Rimanere nell'impulso: questo è il punto cruciale di ogni momento.
(...)
Ciò che conta è rimanere nella vita che ci resta, non anticipare la morte. In questo atteggiamento fondamentalmente dionisiaco di identità emozionale fluente arriviamo a percepire, in modo misterioso e profondo, persino l'umiliazione e il dolore come piacere, essenzialmente poco diversi dalla gioia, da un abbraccio, dalla dedizione. Non resta più nulla dello stoico atteggiamento freudiano: "Il primo dovere di ogni essere vivente è, nonostante tutto, quello di tollerare la vita". Se intendiamo la vita come un dovere, la vita diventa pressione alla quale è necessario sottomettersi. Al contrario, il principio di energia, che sta sotto il segno di Dioniso, riunisce piacere e realtà nel "sì" a un'esistenza che non abbiamo più bisogno di dividere mediante effimeri giudizi. E' importante evitare il dolore, ma è altrettanto importante diventare tutt'uno con esso quando il dolore diventa inevitabile e determina la nostra vita.


venerdì 7 dicembre 2012

Breakfast at Tiffany's

Oggi, grazie anche all'affetto e al supporto delle persone che amo di più al mondo, voi compresi, va molto molto meglio.
E vabbé, speriamo che la terapia, per quanto dolorosa e lancinante, mi aiuti ad addentrarmi nella melma del mio rimosso per recuperare sul fondale il mio tesoro sommerso da troppo, troppo tempo.
E che le mie due anime - quella perversa sofisticata raffinata narcisista aggressiva brillante audace selvaggia, e quella buona semplice naive entusiasta dolce affettuosa ingenua innocente neonata - che tirano da parti opposte perché hanno opposte visioni del mondo e opposte necessità finiscano per ricomporsi e armonizzarsi in una zona franca dove ci sia io, solo io, tutta io, serena, autosufficiente e appagata.
Nel frattempo, per ricaricarmi, posto il mio manifesto. Quello di sempre. Quello che, all'inizio della mia presa di coscienza, ho considerato, per un attimo, come un manierato cascame di sentimentalismo appartenente alla "vecchia" Cri, di cui la nuova non aveva più bisogno.
E invece, sarà la ricaduta, sarà la debolezza, ho scoperto che io ancora non posso smettere di identificarmi in Holly, scissa come me, orfana di se stessa e di se stessa elegante bluff, tremendamente sola in mezzo al rumore caotico, al rutilante scintillio, di un mondo che la irretisce e la atterrisce, che, canzonetta vivente replicata nel ruvido incanto dell'armonia di Henry Mancini, tra il termine di una nauseante nottata da dimenticare e la prospettiva delle brutture del giorno che verrà, si concede all'alba con aerea, disperata e principesca grazia un illusorio, struggente interludio di pace e di sicurezza scendendo da un taxi che emerge dalle brume di Central Park e percorre come in sogno la Fifth Avenue deserta per riflettersi e ristorarsi, in ogni senso, davanti alle lustre vetrine di Tiffany & Co..
Perciò, se mi chiamerete al cellulare, la suoneria sarà, per ora, sempre questa qui.


mercoledì 5 dicembre 2012

Almeno tu nell'universo

Dopo un felice periodo di forza e positività che mi aveva indotto un fin troppo eccessivo ottimismo, ecco, sull'onda lieve della mia bonaccia, riaffiorare dal fondo del mio oceano interiore i relitti, la punta dell'iceberg della catastrofe sottomarina, del Titanic inabissato nell'imo del mio baratro col suo oscuro, inesplorato carico di morte e distruzione. 
La terapia sta coraggiosamente facendo il suo effetto: supportata da quell'euforica sensazione di fortezza, ho trovato il fegato di scandagliare sotto il pelo dell'acqua, di rimestare nel torbido, forse nemmeno ancora davvero alle giuste profondità. E subito è stato come destare il can che dorme, far esplodere un bubbone pestilenziale.
Oggi sento il cuore che mi fa male. Fisicamente, proprio. E dato che questo è un dolore ancestrale, preverbale, legato a qualcosa di talmente lontano che è probabilmente pregresso persino alla mia capacità di formulare pensieri e avere una cognizione di me stessa, il mio inconscio, forse in un estremo tentativo di proteggermi, lo dirotta  su circostanze e persone incongrue, che fungono da diversivo totem della mia tragedia esistenziale, da transfert difensivo. Così da stamane ho una nostalgia disperante di un terrazzino inondato dal sole, un ricordo assolutamente impertinente e del tutto irrilevante fino a questo momento, e la sofferenza mi lacera, l'ansia, il terrore infantile mi paralizza e mi squarcia a metà. E il lamento straziante si fa canto. Già da qualche giorno, al primo emergere dei lontani e sordi echi di questo mio dolore all'inizio percepiti come un mero senso di smarrimento, mi sono sentita risuonare in testa la canzone eterna di Mia Martini. Però non cantata da lei, che la indirizzava, rabbiosa e lucidamente desolata, ad un uomo, come un'invocazione già disillusa in partenza. Ma nella versione, discreta e sommessa, di Elisa, che in un sussurro gentile la storna da sofferenze contingenti e la eleva triste e serena al di sopra di ogni singola storia o dramma, rendendola corale, davvero universale.


E mentre la canticchiavo mi sono detta che in certi momenti, in questi momenti, davvero avrei tanto, tanto bisogno di abbandonarmi a qualcuno a cui chiedere queste cose. Qualcuno in cui credere, che mi porti e mi supporti. Che sopporti per me, in vece mia, per farmi rinfrancare un poco. Ma per quanto mi sforzi, per quanto aneli al piacere e al sollievo che me ne deriverebbe, io non riesco a crederci, in un Dio. Il mio sconforto è superiore al mio desiderio, alla mia necessità.
E allora, ho concluso, la canterò a me stessa. Al mio cuore.
Al mio cuore, che sia la mia ancora salda e forte. Che mi dia coraggio e speranza. Che mi salvi dall'errore e dalla confusione. Che sia tutto, per me, il centro del mio essere, il fulcro del mio equilibrio, della mia esistenza, del mio bene, del mio amore, attraverso cui possa fluire, libero e benefico, il flusso della vita. Così come dev'essere, dovrebbe essere, per ciascuno di noi.

Tu, tu che sei diverso
almeno tu nell'universo
un punto sei che non ruota mai intorno a me, un sole
che splende per me soltanto
come un diamante in mezzo al cuore, tu
tu che sei diverso
almeno tu nell'universo
non cambierai, dimmi che
per sempre sarai sincero
e che mi amerai davvero
di più, di più, di più

Natale


Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

venerdì 30 novembre 2012

Quattro soli a motore

"Arrivai a casa in ritardo. Una zuppa fumante, per niente estiva e ancora meno invitante mi aspettava nel piatto. Un passato di carciofi. Quella sera l'energumeno sembrava tranquillo e non sarei stato punito. Lui e la mamma sorridevano complici come non li avevo visti mai, e ricordo che pensai all'eventualità che ci fosse di nuovo un fratellino in arrivo. Vale a dire che lui, mentre io indugiavo nel fienile ad ascoltare il nuovo racconto di Gianni, gliel'avesse messo dentro per la terza volta. O per la seconda e mezza, visto che sospettavo che la morte prematura di quell'altro fosse stata dovuta a un inserimento non abbastanza convinto. Quella sera non sembravano neanche i miei genitori, ma due controfigure scelte male. Forse erano tornati in un felice passato sovrapposto al mio presente. O erano venuti giù da Shindar 9 o da chissà dove. Videla ogni tanto ragliava o nitriva. Oppure diceva cose come "Ure curòbia scurubienta". Lei aveva messo su una faccia compita,criptica e finto seria, e sembrava che il beone tutt' a un tratto fosse diventato lui. Quando passai al prosciutto e alla fontina, invece di sgridarmi per la mia attitudine a mangiare senza pane si limitò a esortarmi bonariamente: "Cumpesa, ninìn, cumpesa!". Mi chiamò, nei modi in cui mi chiamava quand'era in buona: Strungugnìn, Margnifùn, Federzùn,Balabiòtt, Baiù, fingendo di canzonarmi come se volesse fare amicizia. E non era tutto. Al reparto spedizioni dell'utensileria avevano festeggiato il compleanno di un caposquadra, e lui aveva addirittura rubato per me un pasticcino, tutto glassato di rosa. Guardai il pasticcino sul tavolo e fui vicino a sciogliermi in lacrime. Il mio nemico sotto sotto mi amava? Poi però pensai che non fosse giusto, confondermi così. Se mi vuoi male, devi volermi male sempre. Non che una sera mi picchi e la sera dopo mi regali un pasticcino e quella dopo mi picchi di nuovo. Non si fa. E' molto peggio che picchiare sempre."

(Avevi ragione, Nicola, questo libro mi piace tantissimo. Ci sono tante pagine su cui mi soffermo, tante frasi da sottolineare, tanti umori, tanti sapori, tanto che mi somiglia, tanto in cui mi ritrovo, tanto che scopro per la prima volta, tanto che mi affascina, che mi commuove, che mi entusiasma, in una girandola incandescente e colorata che mi fa sgranare gli occhi e spalancare l'anima per non perdermi nemmeno una virgola.
Ma, fra tutto quel ben di Dio, ho scovato questo paragrafo, all'inizio del capitolo 14. E fra tutto il resto, in particolare, questa cosa tu l'hai scritta per me, è mia, me la piglio.
Grazie)

mercoledì 28 novembre 2012

Il senso della bellezza.

"Ogni cosa ha due facce, una è quella giusta, l’altra ne è solo la caricatura. Nella psicologia umana, ad esempio, se il coraggio è una virtù, non lo è il correre rischi senza senso. Se l’amore è un sincero sentimento umano, il sentimentalismo è la sua contraffazione. La cautela è una qualità, la paura è distruttiva e inutile. Allo stesso modo la bellezza, quando diventa “esibizionismo” volgare, è una banale caricatura di se stessa e si riconosce facilmente. Ma qui parleremo della bellezza sincera, la qualità più preziosa che l’attore “presta” alla sua creazione, se ne ha dentro di sé. Dove sono le radici del vero senso della bellezza e di quello finto? Come possiamo distinguerli? guardiamo i lavoratori manuali. Vedremo che i loro movimenti spesso sono belli. Quando, per esempio, il pesante martello vola su e giù in continuazione, la mente del lavoratore è impegnata esclusivamente in quel compito, senza alcun desiderio di “esibizionismo”. Potremmo addirittura dire che la vera bellezza deve essere nascosta perché gli altri la possano scoprire. il senso della bellezza, che è profondamente radicato in qualsiasi natura artistica, dovrebbe essere trovato dall’interno. Non può essere imposto dall’esterno, perché è individuale come l’artista stesso." M. Cecov "La tecnica dell'attore" Forse tutto questo non vale solo per il palcoscenico.

lunedì 19 novembre 2012

Ogni cosa è illuminata

Guardo dalla vetrata della mia veranda e vedo il cielo al tramonto come solo in autunno sa essere: calde lingue di fuoco arancione che slabbrano con imponderabile contrasto la volta fredda e nera di pece popolata da impressionanti flotte di immensi bianchi batuffoli lanuginosi, spiccanti sull'illimitato sfondo di tenebra per i bagliori di quelle fiamme, grida cosmiche del giorno morente all'apice del più insostenibile strazio e della più squisita armonia, che nell'esatto momento finale della sua irreversibile sorte sprigiona, in sanguinosa e debordante cascata, la più perfetta e piena bellezza sia dato all'occhio umano di poter contemplare.
E' uno spettacolo che mi appaga e mi emoziona. E come sempre all'emozione si accompagna quella stretta al cuore, quel male dolcissimo che sempre si associa ad una percezione intensa, da "dopo".
Il "dopo" distinto dal mio "prima" di ingenuità, inconsapevolezza di me stessa, acerbità.
Il "prima" dove io, ancora addormentata, sognavo la vita, anziché viverla. Immaginavo i sentimenti, anziché provarli. Mi figuravo la sofferenza, anziché rendermi conto di portarne i segni e gli effetti sulla pelle.
Il "prima" dove mi muovevo ignara di me e degli altri, a volte triste, a volte felice, nella serena incoscienza di una bambina.
Il "prima" dove credevo alle fiabe, alla bontà intrinseca delle persone, anche quelle più spietate, e avrei giurato piena d'ottimismo che l'amore vince su tutto, e che è sempre corrisposto. Che, se avessi amato, mi sarebbe stato contraccambiato. Che le mie buone intenzioni, il mio faccino implorante, mi avrebbero accordato la clemenza della Corte.
Avevo avuto bisogno di crederci, da bambina. Ne andava della mia sopravvivenza. E in fondo, davvero, le persone spietate a cui ero stata obbligata ad affidare la mia vita, e a cui ero stata costretta a voler bene, alla fine talvolta si erano impietosite. Non erano mai arrivate ad uccidermi o a ferirmi fisicamente in modo grave, si fermavano sempre in tempo, al di qua del baratro. Ciò mi aveva condizionata ad amare anche i persecutori - anzi, ad amare soprattutto quelli, che mi erano così tanto familiari - e a credermi scioccamente invincibile quando e se lo facevo. Come se fosse stato grazie al mio amore che avevo avuto salva la pelle. Dunque, mi dicevo, di che ti preoccupi? Se ti trattano male si vede che sono legati a te, che a te ci tengono, ti vogliono bene, come quelli del principio, tanto tempo fa. E se tu sai sopportare, e mostrare la tua tempra, la tua resistenza ed entusiastica adesione al ruolo di agnello sacrificale, alla fine l'amore trionferà, e vivrai per sempre felice e contenta.
Al primo incontro "non protetto" con un altro essere umano questa mia fede incrollabile si è infranta contro lo scoglio della realtà. Per fortuna.
Non è mai troppo tardi per imparare.
Imparare, ad esempio, che l'amore vero non è con-fusione, ma distinzione. Che solo nello spazio tra i miei contorni e quelli dell'altro c'è il luogo dell'incontro.
Imparare che imbattersi nell'anima gemella può essere una iattura. Anzi, se per "gemella" si intende uguale, o comunque straordinariamente affine, è una iattura sicura.
Adesso, quando certe sventurate amiche mi decantano i pregi di una scombinata relazione con qualcuno asserendo con entusiasmo "siamo così tanto simili", mi piglia l'inquietudine.
Perché tutti gli esseri umani sono simili nelle cose buone: nell'esistenza, la vitalità. Nel saper voler bene, nella volontà di fare del bene. Nell'istinto di proteggere le creature più indifese, di provare per loro affetto e tenerezza. Nell'impulso di voler aiutare il proprio simile in difficoltà. Nella capacità di impietosirsi per il prossimo sofferente. Nella fame di giustizia, nel desiderio di pace. Nell'amore per l'arte, la bellezza della natura. Nell'attitudine a meravigliarsi e commuoversi. Sono queste qualità, a livelli più o meno sviluppati, comuni a tutti gli uomini dotati di intelletto e raziocinio.
Perché se si è simili in altro che non sia compreso in queste analogie fondamentali, di norma si è simili nelle  caratteristiche peculiari della nostra persona, quelle che ci distinguono dagli altri. Ossia, nelle criticità. Nei difetti. Nelle idiosincrasie. Nelle piccole o grandi psicopatologie. In tutto ciò che ci determina nella nostra unicità ma che, al contempo, ci è di inciampo, ostacolando il libero fluire della nostra energia vitale e delle relazioni positive con gli altri individui.
Perciò, se ci leghiamo a qualcuno per cui proviamo un affetto tanto intenso da assimilarsi ad un'affezione, una corrente di simpatia irresistibile per il suo essere tanto simile a noi, non è quasi mai una cosa buona.
Ci condanniamo, nella migliore delle ipotesi, alla con-fusione, all'indifferenziato, al rispecchiamento narcisistico l'uno negli occhi dell'altro, senza possibilità di evoluzione. Dove mancano diversità non c'è stimolo al cambiamento, non c'è ricchezza.
Non ci verrà mai di dire all'altro la frase che ha postato Minerva ultimamente, pronunciata da Jack Nicholson a Helen Hunt in "Qualcosa è cambiato": "mi fai venire voglia di essere un uomo migliore."
In realtà è più comodo e rassicurante amare qualcosa di conosciuto, che ci assomiglia. Solo che non ci fa crescere. Non è la tensione amorosa che si sprigiona tra due poli opposti e crea un flusso di energia. E' una sterile ammirazione di noi stessi.
Possiamo anche non crescere mai, beninteso. Ma alla fine si muore lo stesso.
Senza essere mai vissuti.
E insomma, guardo il tramonto, mi emoziono, e penso ai tramonti che guardavo un anno fa. Con nostalgia. Di me stessa, di certi miei languori, delle mie prime scoperte sull'amore. Tutte così sbagliate, così illusorie. Perché sbagliato e illusorio era, per quanto ho premesso, il legame che credevo di aver stretto.
Ma io c'ero davvero, coi miei sentimenti, che erano sì sbagliati, ma non illusori.
La Cri di oggi è un'altra. E' un'adulta che ha che ha imparato cos'è la passione. Che mai più potrà provare un'emozione senza sentirci il retrogusto della sofferenza.
E prova struggente tenerezza per quella Cri di un anno fa. E più ancora per quella prima, quella che non tornerà mai più.
Ma che, al contempo, starà sempre dentro di lei. A formare una parte essenziale, inscindibile, di se stessa.






Alive

"Eppure è quando sei circondato dalla gelida indifferenza del mondo che le emozioni ti fanno sentire vivo, anche se profondamente solo. Quei momenti in cui ti si spezza il cuore pensando alle sciarpe mai messe o ai libri mai letti possono farti capire, meglio dell'indifferenza di una madre morta da anni, cosa significhi davvero essere vivi."

mercoledì 14 novembre 2012

More than a feeling

Serata mite e dolce di metà novembre a Roma. Dopo le cinque di pomeriggio, in autunno inoltrato, scende già il crepuscolo. Nell'ufficio quasi vuoto c'è calma e malinconico languore.
Scuote improvviso il silenzio stagnante un piccolo turbine nei panni di Claudio il quale, bello come un giovane semidio con le spalle sottolineate con artistica noncuranza dal maglione verde sottobosco e il frangione biondastro spettinato, si affaccia vivace alla porta della mia stanza: viene a prelevarmi per un'eversiva pausa caffè alla macchinetta del sesto piano.
(Pessimi soggetti peccaminosi come siamo, finiamo per sbafarci in situ anche due krapfen al cioccolato confezionati: adocchiatone dapprima con lubrica avidità uno che fa capolino, nel suo sgargiante involucro tentatore, in cima alla fila di suoi consimili sulla rastrelliera al di là del vetro del distributore automatico di merendine allocato accanto a quello delle bevande, indotti, dopo breve lotta interiore, a cedere senz'altro alla tentazione, proceduti nella mutua assoluzione con un malcerto "uno solo, e poi tanto facciamo a metà..."; ed indi, perso ogni freno e ritegno nel crescendo del delirio porcelloso dei sensi, la bocca e le dita impiastricciate di dolciastra melassa scura, gettati senza indugi sul secondo, con Claudio incitante me e se stesso all'empia reiterazione dell'atto esecrabile al grido lascivo di: "che meravigliosa schifezza finta! Bissiamo, bissiamo!")
A reati compiuti e briciole spazzolate via dagli abiti ci ritagliamo uno spazio tra le incombenze, il tedio e i travagli della giornata passati e quelli ancora da venire attardandoci un po' sul terrazzino che durante il giorno viene adibito a fumoir e che a quest'ora è deserto.
L'aria è calda e piacevole, e non tira, come si dice, un alito di vento.
Ci sporgiamo dal parapetto a guardare in giù il pittoresco panorama dei tetti e delle finestre illuminate che dà l'illusione di stare a Montmartre e intanto commentiamo le frustrazioni del lavoro, ci aggiorniamo velocemente sugli ultimi pettegolezzi, ci sfoghiamo per le meschinità vessatorie del nostro (sic) dirigente e della nostra (ir)responsabile del personale, ci scambiamo notizie confortanti e meno confortanti sullo stato di salute di colleghe, ci confidiamo piccoli segreti, ci raccontiamo le vicende della nostra settimana passata e gli eventi in programma per quella appena iniziata.
"Hai capito? Quella mi aspetta di continuo al varco. Ma io gliel'ho detto; questa è una persecuzione: stai attenta, ché se mi metto di punta ti faccio vedere di cosa sono capace. Ti mando la Guarda di Finanza in ufficio, proprio. Poi vojo vede come te metti."
"Clà, tu sei troppo sensibile, troppo consapevole, troppo dignitoso. E troppo te la pigli. Io manco la saluto, per me è invisibile, me ne impipo della sua esistenza. Che ti frega di una donnetta incapace e inutile così, che ti può dare al massimo il fastidio di una mosca?"
"Eh. Hai ragione. Dev'esse questo che je rode, che io nun me la filo de pezza, se la incontro nel corridoio manco me ne accorgo. Anche questo difatti le ho detto: "io a te nun te vedo proprio."
"Così dev'essere! E invece io, sai, venerdì scorso ho visto l'Otello al Quirino."
"Fico. E com'era?"
"Non male. Massimo Dapporto ha recitato dignitosamente, anche se, per quanto si sforzasse, l'ho trovato abbastanza improponibile come Moro di Venezia. Andava avanti e indietro mollemente per il palco nell'intento, immagino, di mostrare plastica inquietudine, ma anziché suggerire timore o rispetto, piccoletto com'è, e grinzoso, con la panzetta a botte sulle gambette secche, me faceva un po' ride..."
"Embè, no. Otello dev'essere vigoroso, anche fisicamente corpulento. Io ricordo quello fenomenale di Orson Welles, per me insuperabile."
"Vero! Ma pure Laurence Fishburne, nell'Otello con Branagh, aveva il giusto physique du role. Comparalo a Dapporto e poi me dici... Però in compenso Maurizio Donadoni come Iago è stato eccezionale. E anche la Desdemona era incisiva al punto giusto. Scrive Bloom che l'Otello è la tragedia più dolorosa di Shakespeare, e che la fine di Desdemona è insostenibile."
"Ha pienamente ragione."
"Shakespeare è un genio, il più grande conoscitore dell'animo umano. E' stato catartico, educativo, vedere rappresentato in quel modo così terribile, così impressionante, davanti agli occhi, che lo potevi toccare con mano, come la mente, partendo da qualche sua propria fragilità o incrinatura, e con un minimo diabolico intervento esterno, possa costruire un intero mondo immaginario alternativo alla realtà, del tutto mistificato, opposto al vero, e coerente, nella sua assurdità, che ti condiziona totalmente gli atti, la vita."
"Sì! E come possa influenzare i sentimenti di una persona, e i suoi convincimenti, al punto che tutto si tiene, e ogni ulteriore dettaglio, capovolto di senso, trova perfettamente il suo posto nel puzzle, a completare e rafforzare la certezza che si è disgraziatamente formata nella testa."
"Avessi visto la scena centrale dello scontro tra Otello furente, pazzo di dolore e gelosia, e Desdemona, agnello sacrificale, perfino stolida nella sua innocenza, del tutto impossibilitata a capire che cosa stava succedendo. Uno strazio. Mi ha fatto pensare tantissimo."
"... Ah, non si riesce a trovare una casa decente nei dintorni. Tutte senza terrazzo, al massimo con un balconcino. Non potrò mai abitare in una casa che non abbia il terrazzo, o un giardino. Non è tanto per la cana, ho capito che i cani si adattano a come vive il padrone. E' proprio che io senza uno spazio mio, indipendente, non ci so stare."
"Ah, quanto mi piacerebbe vivere qua vicino, in un villino della zona di Via San Quintino."
"Dillo a me... Devo ricuperare tre ore. Mi sa che vengo uno di questi giorni."
"Vieni domani mattina, così ci sono anch'io."
"Sì, forse è meglio. Ché poi giovedì devo stare tutto il giorno al museo a Genazzano. E poi devo partire per Milano..."
"Io invece giovedì sera ho una presentazione di un libro in centro, dove non vedo l'ora di andare per incontrare un po' dei miei amici blogger. E sabato dovrebbe venire a Roma un'amica del forum di Spinoza, così forse organizziamo una cena. E la settimana successiva ho una rimpatriata con un po' di compagne di scuola, e un'altra uscita con spinoziani. Poi c'è di nuovo una serata a teatro. Oh, beato te, stai sempre in giro..."
Claudio si gira a guardarmi con simpatia.
"Però, Cri: io giro, è vero, ma me pare che pure a te ora gli impegni nun te mancano" mi fa notare, sorridendomi con la fierezza di un padre che vede una figlia tramutatasi da brutto anatroccolo in cigno.
Ricambio il sorriso. E taccio, soppesando la sua osservazione dentro di me, riconoscendone l'emozionante fondatezza, gustandone l'intrinseco carezzevole affetto. "Apperò!" mi fa la mia bambina interiore, gongolando un po'.
Pure lui non aggiunge altro, si stiracchia soddisfatto e si appoggia di nuovo al parapetto. E restiamo un altro bel pezzo così, fianco a fianco, in silenzio, a goderci la beata, soffice dolcezza della sera.

domenica 11 novembre 2012

Io non sono di qui

Torno ora dal centro di Roma, prima da Piazza di Spagna e dalla Babington Tea Room e poi dal Teatro di Vicolo Due Macelli dove ho assistito ad una rappresentazione insolita, sommessa, delicata e profondamente commovente.
Un testo che dà voce alle donne: donne migranti, donne viaggiatrici, donne stanziali, tutte in perenne, incessante movimento, col corpo e con l'anima. Che infilano e sfilano cappotti, aprono e chiudono ombrelli, danzano, cantano, parlano e camminano, col freddo, col caldo, col sole, con la pioggia.
Tutte protese alla ricerca del momento essenziale in cui la loro anima ritroverà il loro corpo smarrito per il mondo, stazione dopo stazione, e si ricongiungerà a lui, permettendo loro di dire "sono a casa. Ora posso ripartire."
Lungo l'itinerario della vita. Portando con loro tutte se stesse, il loro cuore come valigia di ricordi: di suoni, colori, profumi, gioie e dolori. Intersecando le loro esistenze con altre, mischiando i racconti, gli affetti, i punti d'incontro e le differenze, i "non sono di qui" con i "sono di qui", i sorrisi, i volti, i segni della loro presenza, in un unico, tenue, vivacissimo acquerello.





Numa folha qualquer
eu desenho um Sol amarelo
E com 5 ou 6 rectas é fácil fazer um castelo
Com o lápis em torno da mão e me dou uma luva
E se faço chover com 2 riscos tenho um guarda-chuva
Se um pinguinho de tinta cai num pedacinho azul do papel
Num instante imagino uma linda gaivota a voar no céu

Vai voando contornando a imensa curva
Norte e Sul
Vou com ela viajando
Havai, Pequim ou Istambul

Pinto um barco à vela
branco navengando
é tanto o céu e mar num beijo azul

Entre as nuvens vem surgindo um lindo avião
rosa grená
tudo em volta colorindo
com as suas luzes a piscar

Basta imaginar
e ele está partindo sereno e lindo
Se a gente quiser
ele vai pousar

Numa folha qualquer
eu desenho um navio de partida
com alguns bons amigos
bebendo de bem com a vida

De uma América à outra
eu consigo passar num segundo
giro um simples compasso
e num círculo em faço o mundo

Um menino caminha
e caminhando chega no muro
E ali logo em frente
a esperar pela gente
o futuro está

E o futuro é uma astronave
que tentamos pilotar
Não tem tempo nem piedade
nem tem hora de chegar
Sem pedir licença
muda a nossa vida
e depois convida a rir ou chorar

Nessa estrada não nos cabe
conhecer ou ver
o que virá
o fim dela ninguém sabe
bem ao certo onde vai dar
Vamos todos numa linda passarela
de uma aquarela
que um dia em fim...descolorirá

Numa folha qualquer
eu desenho um Sol amarelo (que descolorirá)

E com 5 ou 6 rectas é fácil fazer um castelo (que descolorirá)

Giro um simples compasso
num círculo eu faço o mundo (que descolorirá)




venerdì 9 novembre 2012

Oggi sono io

Ieri è stata una di quelle tipiche giornate di novembre che ti sorprendono puntualmente, anno dopo anno, da quando sei al mondo, per la loro straordinaria e imprevista bellezza. Una di quelle giornate che paiono disegnate, dove, al posto dell'accecante bagliore estivo che tutto scolora e ingiallisce in una nebbia di calore evanescente, sei immersa in un'armoniosa punteggiatura di elementi che si stagliano nitidi e tangibili dentro la cornice del paesaggio che ti corona: il cielo pennellato di un azzurro materiale, i palazzi dalla prospettiva accentuata, iperrealista, l'arcobaleno di tinte forti degli alberi che virano dal verde cupo al rosso carminio. E tutto assume contorni più decisi, colori e suoni sono più marcati e distinti. E il suono dei tuoi passi sul selciato, di cui ti rendi conto in un modo nuovo ed insolito, ritma il tuo respiro, il tuo essere lì, viva, solida, esistente, al centro della scena.
L'anno scorso ho creduto che novembre fosse bello perché avevo incontrato una persona.
Oggi so che era il contrario: avevo incontrato una persona, e creduto di aver provato un'emozione per quell'incontro, perché novembre era bello. Era sempre stato bello, solo che io me ne accorgevo solo allora. E siccome ero inesperta, credevo di accorgermene per merito di quella persona. Invece ero io che ero cambiata dentro, mi ero aperta ed ero divenuta ricettiva alla bellezza. Mi ero svegliata da un lungo sonno, credevo col bacio di un principe. E invece non mi aveva baciata proprio nessuno. Mi ero destata da me.
Fino all'anno scorso ho atteso di cominciare a vivere come se dovesse piovermi dal cielo. Come se ad un certo punto nel mio cammino avessi dovuto trovarmi davanti una montagna incantata. Ora so di sentire, e di volere, tutto il contrario.
L'anno scorso ho creduto di cominciare a vivere perché mi era caduto dal cielo un angelo dalle ali ferite. Che poi si è rivelato un pipistrello, tuttalpiù, ma insomma. Ora invece so che non è così che si comincia a vivere. Che si comincia a vivere quando non si aspetta più che qualcosa ci piova dal cielo, ma ci si attiva per andarsela a cercare, quella cosa. Quando non si subisce passivamente ciò che accade a nostra insaputa, ma ci si adopera attivamente per farlo accadere.
Ora non voglio più incappare per caso in nulla. Voglio andare io a procacciarmi la mia gioia, il mio bene.
E tutto il cammino fatto, la sofferenza patita, ha dato i suoi frutti.
Quando ho fatto le foto sulla scalinata del Visconti nel mio cuore ferito c'era l'immagine di me e di Giulio seduti su quegli scalini.
Ora invece c'è l'immagine di me che faccio le foto, che mi cavo fuori un coraggio da leone e mi determino come persona autonoma, indipendente da lui, dal suo esserci o meno, e l'autostima che ne deriva ha soppiantato quel ricordo, e tutta la nostalgia sterile che lo corredava.
Ci ho messo un diaframma tra il primo e il secondo momento. Un diaframma pieno di me, pieno di autentica, succosa, preziosa vita.
L'anno scorso Roma era meravigliosa, i suoi tramonti mozzafiato, perché vivevo in un miraggio, un'allucinazione.
Oggi Roma è meravigliosa, i tramonti mozzafiato, perché vivo.
Perché ci sto dentro io.
Perché sono io, che do colore e bellezza a tutte le cose.
Ed era così anche l'anno scorso, è sempre stato così.
Ora, però, lo so.

Kung fu Panda

Ieri è passato
domani è mistero
oggi è un dono.
Per questo si chiama presente!

martedì 6 novembre 2012

It takes a fool to remain sane

"Tanti pensano, credono, sperano, o temono, che la terapia serva a cambiare le persone. Ma non è così. In realtà le persone, noi tutti, siamo già stati cambiati. Ci hanno cambiato coattivamente dall'esterno. La terapia, al contrario, serve a chi vuole ritrovarsi, scoprire, incontrare il suo autentico sé, quello che era prima di essere cambiato."


Whatever happened to the funky race?
A generation lost in pace,
Wasn't life supposed to be more than this?
In this kiss I'll change your bore for my bliss
let go'f my hand and it will slip out in sand
if you don't give me the chance
to break down the walls of attitude,
I ask nothing of you
not even your gratitude
And if you think I'm corny
then it will not make me sorry
it's your right to laugh at me
and in turn, that's my opportunity
to feel brave
'Cause it takes a fool to remain sane
oh it takes a fool to remain sane
oh it takes a fool to remain sane
oh in this world all covered up in shame
Every morning I would see her
getting off the bus the
picture never drops it's like a
multicoloured snapshot
stuck in my brain
it kept me sane for a couple of years
as it drenched my fears
of becoming like the others
who become unhappy mothers
and fathers of unhappy kids
And why's that?
'Cause they've forgotten how to play
or maybe they're afraid to feel ashamed
to seem strange
to seem insane
to gain weight
to seem gay
I tell you this:
That it takes a fool to remain sane
oh it takes a fool to remain sane
oh it takes a fool to remain sane
oh in this world all covered up in shame
So, take it to the stage in a multicoloured jacket
take it jackpot, crackpot,
strutting like a peacock
nailvarnish Arkansas
shimmyshammy featherboah crackpot haircut
dye your hair in glowing red and blue,
Do, Do, Do! What you wanna do
Don't think twice to what you have to do,
Do, Do, Do, Do, let your heart decide what you have to do
that's all there is to find
'Cause it takes a fool to remain sane,
Oh, It takes a fool to remain sane
Oh, In this world all covered up in shame
Oh it takes a fool to remain sane,
Oh it takes a fool to remain sane
Oh it takes a fool to remain sane
Oh in this world all covered up in shame.
Oh it takes a fool
Oh it takes a fool

sabato 3 novembre 2012

L'odore della notte

Dormo tanto, in questo autunno morbido, umido e ovattato. Faccio lunghi, beati sonni ristoratori. Anche se magari al risveglio un coltellino svizzero piantato nel ventricolo sinistro un pochino ancora mi dà noia. E sogno anche parecchio, come da molto non mi capitava.
Stanotte, per dire, ho sognato di stare in una storia del commissario Montalbano. In un film, proprio, di quelli della TV. Ma non col commissario Montalbano come l'abbiamo conosciuto dai libri di Camilleri. No, con quello giovane, quello prima di quello arcinoto: quello che non ho mai visto, di cui non ho manco mai letto un ciufolo, ma che so, per essermene documentata sulle riviste, essere interpretato da Michele Riondino (attore che a me piace molto, in molti sensi). Cioè, stavo in una pellicola a colori insieme a Michele Riondino, con tutti i suoi riccetti neri, che però non era Michele Riondino ma il giovane Montalbano. Insomma, stavo in una scena in cui parlavo al telefono con Michele/Salvo che mi chiedeva se avevo fatto nonsoché che mi aveva ordinato per un'investigazione ma io ero svagata, lenta a capire e a rispondergli, e alla fine lui si spazientiva pure un po', e mi diceva cose tipo "vabbé, lasciamo perdere, accantoniamo quest'indagine che tanto non si viene a capo di nulla e poi tu sei troppo disattenta".

Due notti prima di questa invece ho sognato di essere tornata liceale. Di stare in una classe di liceo che però non era il mio vero liceo, visto che quello era esclusivamente femminile e invece io mi trovavo in mezzo a compagni di ambedue i sessi. C'era una discussione di quelle che ogni tanto si pigliano in certe mattinate soprattutto al classico: sull'amore, sull'esistenza, sui massimi sistemi; ciascuno diceva la sua, me compresa, anche se non ricordo cosa, il professore passava tra i banchi, e giunto da me mi faceva un cenno d'approvazione come a dire che stavo dicendo cose giuste, che ero idonea e pertinente ad essere una studentessa, che stavo al posto giusto nel mondo, che tutto andava bene.

E dire che prima d'ora il mio unico, costante, reiterato sogno sulla scuola aveva sempre riguardato l'esame di maturità, con me che arrivavo piena d'ansia perché erano passati decenni dall'ultima volta che avevo aperto i libri e non ricordavo assolutamente niente...

giovedì 1 novembre 2012

martedì 30 ottobre 2012

Diarios de motocicleta

"Una persona con un adeguato livello di intelligenza dovrebbe sempre avere un po' paura di te" mi disse a bruciapelo una volta, verso la fine della nostra bizzarra relazione, il mio casoumano.
Io lì per lì, tutta presa a contemplarlo sdilinquita mentre si sbafava un pezzo di pizza ungendosi dal naso al mento, non chiesi specifiche, mi limitai a restare a bocca aperta come un'idiota.
Solo al nostro successivo incontro, una decina di giorni dopo, ricollegando certi atti e fatti, gli replicai  un ansioso, pressante "perché?"
"Perché tu sei una che non lascia sospesi, che alla fine chiude sempre tutti i conti" mi rispose lui, rivelando un acume di giudizio nel quale un'anima ingenua come la mia credette di scorgere coinvolgente intuizione, commovente comprensione effetto di profondo vincolo affettivo, empatia, sintonia spirituale, dove invece c'era solo la mera straordinaria capacità di captare pensieri ed emozioni altrui, e di connettervisi mentalmente, tipica di uno psicotico.
Comunque sia, il casoumano aveva, come già altre volte, letto in me cose di cui io non avevo piena consapevolezza. Ci aveva preso. Ci prendeva spesso.
Ci ho ripensato perché in questi giorni sto regolando parecchi conti, in effetti. Uno ieri sera, bello grosso. Pratica espletata con pacata e lucida determinazione, con olimpica, efficace serenità.
Entro un paio di giorni ho intenzione di regolarne un altro, decisamente meno importante, anche se non è inusuale che contingenze che nella vita quotidiana sono poco più di mere sciocchezze abbiano un peso e un significato notevoli invece, stranamente, a livello psichico. Il mondo dell'inconscio segue buffi criteri, apparentemente assurdi rispetto all'ordinato e prevedibile sentire della coscienza.
Sto acquistando densità, contorni. Mi sto differenziando dall'indistinto caos nel quale ero immersa fino a poco tempo fa, una con-fusione emotiva che non mi dava modo di vedere delineati i confini che dovevo rispettare e che avrei dovuto esigere di tracciare.
Mi sto indurendo. E mi sento molto Che Guevara. Il quale affermava, in una frase gettonatissima su tutte le bacheche di FaceBook dove ciclicamente ricompare ad ondate: "Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza."
(Spero di essere proprio così, io. E di morire come lui, combattendo. Il più tardi possibile...)

domenica 28 ottobre 2012

Falling

Il buio e il freddo di questo primo pomeriggio di ora solare sembrano aver smorzato del tutto l'eccesso di calore dentro di me. Non brucio più, non mi consumo, non patisco più ustioni che mangino la mia carne viva. Invece di deprimermi, mi sento infusa di serenità. Mi godo il calduccio del mio nido domestico, il mio presente, il fugace attimo di tranquillità che mi viene donato dagli eventi a cavallo di giorni sempre frenetici, travagliati e forieri per me di prove di resistenza all'ansia sempre nuove. Ecco, ho digitato la parola "ansia" e mi viene in mente il post sulle venti cose da fare prima di morire che mi sono ripromessa di buttare giù da più di una settimana, ma rimando.Vorrei scrivere a profusione, ma mi sento troppo calma e riflessiva per farlo, adesso. Contemplo il mio groviglio interiore senza capo né coda assolutamente scevra da preoccupazioni o da autocritica. Anzi, più lo guardo e più mi pare di rara bellezza, una delicata, mirabile, irripetibile opera d'arte. Esisto, hic et nunc. Una sensazione assolutamente nuova.

Il momento che vivo e descrivo si inanella nel percorso che sto facendo da un po' di tempo. Spontaneamente, senza forzature, non intenzionalmente. Nello svolgersi del quale ho assorbito e assorbo con attenzione per me inusitata come possibile suggestione ogni avvenimento, ogni dettaglio, anche il più infimo, il meno importante. Per esempio, in questi ultimi giorni ho rivisto insieme a mio figlio, episodio dopo episodio, l'intera serie di Twin Peaks, che mi scosse non poco quando ero ancora quasi una ragazzina, e mi ha - piacevolmente - impressionato parecchio anche adesso. In modo molto diverso: allora mi attraeva contro la mia volontà, turbandomi alquanto, oggi mi affascina apertamente e mi provoca un curioso senso di pace, la pace che si ottiene con la comprensione e l'accettazione delle due facce opposte dell'esistenza contenute l'una nell'altra: il dolore nella gioia e viceversa, il bene nel male, senza possibilità di discernerli, di separarli.

Per cui eccola qua, la canzone che m'è venuta in mente oggi pomeriggio e che sto ascoltando con affetto intriso di dolcezza. Tenera, suadente, fluida, inquietante. Ipnotica, calda, inquietante, consolante. Triste. Placida. Sognante. Sensuale. Segreta, arcana. Odorosa di legna aromatica, di foglie secche, di erba umida. Pulsante di vita e di morte, di effimero e di eternità. Perfetta per questo primo scuro e gelido pomeriggio di autunno incipiente. Da riempirsene le orecchie e l'anima raggomitolate sul divano a meditare, magari con un ciocco in braccio.


Don't let yourself be hurt this time.
Don't let yourself be hurt this time.

Then I saw your face
Then I saw your smile

The sky is still blue
The clouds come and go
Yet something is different
Are we falling in love?

Don't let yourself be hurt this time.
Don't let yourself be hurt this time.

Then your kiss so soft
Then your touch so warm

The stars still shine bright
The mountains still high
Yet something is different
Are we falling in love?

Falling
Falling
Are we falling in love?

Improvvisamente l'estate scorsa


"Secondo una filosofia orientale, tutto quello che dai ti ritornerà indietro. Aspetto tir con trasporti eccezionali nei prossimi anni ;)"

" Ci credevo anch'io, finché il tir non m'ha investita XD"

sabato 27 ottobre 2012

The choice

Non possiamo scegliere chi siamo liberi di amare.
(sostiene Harold Bloom che l'ha detto Auden: io, che pure sono un'estimatrice abbastanza attenta di Auden, 'sta frase non la trovo. Ma siccome Harold Bloom c'ha una testa tanta gli credo. In ogni caso, la frase è psicologicamente, purtroppo, molto esatta)

mercoledì 24 ottobre 2012

Apologo sull'onestà nel paese dei corrotti

Cambio di mood.
Aiuti una figlia a cercare sul web un certo tipo di testo letterario, che tratti della corruzione della giustizia, perché l'insegnante con cui sta studiando I promessi sposi, giunta al brano di Renzo dall'Azzeccagarbugli, le ha parlato della Colonna Infame e le ha dato per compito a casa di cercare, appunto, un altro breve estratto di opera che affronti la questione.

E incappi in questo, scandalosamente mai letto prima, scritto dal genio di Calvino trentadue anni fa. E ammutolisci.

Da leggere con venerazione, in religioso silenzio.


Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti

di Italo Calvino*

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.

Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

* da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori

Al di là dei sogni


‏@pellescura
Si sta come sul baratro, un attimo prima di una spinta da dietro
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12:15 PM - 23 Ott 12 

17h ‏@crisolocri
@pellescura Lascia fa' che poi si vola!!!

16h ‏@pellescura
@crisolocri  non ci avevo pensato:-)

16h @crisolocri
@pellescura Nemmeno io, mai. Ma poi mi è successo davvero, stasera :D

Risvegli

Salvarsi la vita. Si può fare in mille modi, anche i più assurdi ed eccentrici. Ciascuno ha la sua strategia, magari maldestra, ma efficace.
L'importante è aver innescato il processo. E avere la percezione di averlo fatto.
Esser consapevoli che le cose si sono messe in un modo tale per cui indietro non si tornerà più. Che si andrà solo avanti, da oggi in poi. Senza sapere dove si sta andando, guardandosi intorno stupefatte e smarrite, talvolta anche rapite, non riconoscendo lo scenario.
Sapendo che, comunque, il meccanismo si è messo in moto, in maniera irreversibile.
E che oggi è il primo giorno di una nuova vita.

martedì 23 ottobre 2012

Può succedere anche a te

Quando, dopo aver opposto strenua e disperata resistenza, all'improvviso ti stappi,  il tuo mondo ruota di centoottanta gradi e ti accorgi che l'ansia, vista da un'altra prospettiva, è mera, autentica energia vitale disponibile.

sabato 20 ottobre 2012

Ricomincio da tre

Settimana caotica, dentro e fuori di me. Sto cercando di conoscermi, di capire quel che mi piace, quel che mi interessa, quel che vorrei, potrei, fare da grande. E mi sento un uccello che, entrato per caso in una stanza da una finestra aperta, non riesce più ad uscirne, e frullando le ali come un disperato sbatte il capo in tutte le pareti. Vado a tentoni, insomma. Sperando di trovare dei punti fermi a cui appigliarmi.

Continuando a ripensare a Suu mi è venuto istintivo adoperare la sua vicenda come un test: comparare la sua forza di volontà alla mia. Così mi sono messa a rovistare nel barattolo arrugginito della mia memoria alla ricerca di qualche mio atto che, compiuto magari per caso, senza aver idea di star facendo chissà che, nella più completa inconsapevolezza della sua portata, abbia finito per dare un'impronta, una sterzata importante, alla mia vita, in modo tale che, vedendolo ora retrospettivamente, io ne possa cogliere l'importanza, il significato, e gli effetti che ha indelebilmente determinato nella mia essenza di persona, nonché quanto abbia potuto influire e incidere sull'esistenza di coloro che mi circondano. Per avere un punto di partenza, o di ripartenza, da me stessa.

Non è servito manco rimestare tanto, alla fine, per tirarne fuori qualcuno.

Uno, come già ricordato, riguarda la storia della mia erre blesa corretta da me in prima elementare.

Il secondo è la mia autoterapia di guarigione dagli attacchi di panico che ho risolto con la fierezza di non esser mai ricorsa all'ausilio di farmaci. Manco mezza pasticca di ansiolitico ho mai preso. Dopo l'insorgenza di episodi violentissimi, continui e invalidanti intorno ai miei ventitrè anni - e lì sono stata aiutata e assistita, tanto, dalla sola amorevole attenzione di due uomini che avevo vicino, il mio allora fidanzato oggi marito e il mio datore di lavoro - ne ho avuti altri, anche a distanza di anni, ripetutamente. Stavo bene per un bel po', con il mio silente malessere che mi scorreva sottotraccia come un fiume carsico. Poi, improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, senza un motivo apparente, ecco che si riscatenava. L'ultima volta è stato il giorno del compleanno di mio figlio, un agosto di dieci anni fa. Si era in campagna, era prossimo il tramonto, io stavo andando in auto al paese vicino a ritirare la torta; e nel passare il ponte sul fiume ho sentito salirmi la solita, familiare, angosciosa sensazione di morte che pian piano prendeva ad invadermi tutta. Il panico che   mi saliva alla gola, irrefrenabile, ingestibile. La certezza di star varcando la soglia del mondo dell'aldilà, di non poter far niente per ancorarmi alla vita, agli affetti, ai miei figli che mi aspettavano a casa. Ma invece di irrigidirmi, come avevo sempre fatto, favorendo l'aumentare dell'intensità dei sintomi, mi sono abbandonata, dicendo tra me e me con serena curiosità: "Cri, forse è un attacco di panico, forse invece stai davvero morendo. E con ciò? Non avere paura. In fin dei conti, è un'esperienza anche questa. Vediamo che succede". Ebbene, sono tornata all'istante padrona di me stessa. L'attacco di panico si è arrestato, per non tornare mai più.

Il terzo è quando sono riuscita autonomamente, con una regime alimentare e fisico di mia invenzione e una costanza di cui mai mi ero scoperta capace, a dimagrire di dodici o tredici chili. Nell'autunno del 2005, in seguito ad un brutto malanno di mia madre, e alla sua conseguente degenza in vari ospedali, qualcosa mi è scattato dentro, e mi son detta che se non potevo ringiovanire potevo almeno dimagrire. Sull'età non avevo potere, sul peso sì. E dai settantuno, settantadue chili che ero arrivata a pesare, a giugno 2006 ero tornata ad averne addosso i miei cinquantasette di ragazza. Ora ne ho ripresi un paio, forse tre. Ma so di avere la potenzialità di disfarmene quando voglio.

Se ci metto pure il mio modo piratesco di guidare l'auto, il mio autocontrollo e la mia fulminea lucidità nel calcolare il pericolo guizzando a zigzag nel traffico impazzito e spaventoso di Roma senza aver paura di niente e di nessuno, beh, mi trovo una buona base su cui ancorare la mia rinascita di persona.

E ora esco di qui e comincio a darmi da fare.


lunedì 15 ottobre 2012

The lady

Week end intenso, passato variamente a vivere.
Bene, perlopiù.
Ieri sera, sfinita, mi sono ficcata a letto con una decina di DVD assortiti comperati nelle ultime settimane e non ancora liberati dal cellophane, estraendo dal mucchio, dopo breve esitazione, The lady, il film biografia che Luc Besson e Michelle Yeoh (quella de La tigre e il dragone e di Memorie di una geisha, qui splendida e devota interprete della protagonista) hanno tratto dalla parabola umana  di Aung San Suu Kyi.
Chi non conosce, almeno per sommi capi, la storia di questa piccola donna birmana? Tutti ne hanno sentito parlare, molti ricorderanno la cerimonia del Nobel per la pace che le fu conferito nel 1991: sul palco suo marito, professore inglese di storia ad Oxford, i suoi due giovani figli, e una sua gigantografia. Lei non c'era, costretta agli arresti domiciliari nella sua casa di Rangoon da un regime dittatoriale che cercava di cancellarla dal mondo, tanto che al momento della proclamazione nessuno, nemmeno la sua famiglia, sapeva nulla delle sue condizioni di salute; non si era nemmeno ragionevolmente sicuri che lei fosse ancora viva.
Eppure la visione di questa pellicola mi ha fatto scoprire quanto poco sapevo di lei. Quanto pochi strumenti di conoscenza avessi avuto fino ad allora per comprendere il dramma suo e della sua famiglia. Quanto straordinaria sia stata la coerenza della sua scelta di vita, così intensa perché così intimamente condivisa con suo marito. Quanto abbia perso di se stessa. Quanto abbia guadagnato in cambio. Che sacrificio immane abbia chiesto ai suoi cari. Ai suoi figli ragazzini, che hanno sicuramente sofferto in modo indicibile. Che strazio sia stato per lei esserne consapevole. Ed essere altresì consapevole di non poter fare altrimenti, semplicemente.

Tra le varie scene emozionalmente impegnative di questa pellicola, che sceglie di non approfondire più dello stretto indispensabile gli eventi della storia ufficiale per concentrarsi sulla vicenda privata di una donna che definire coraggiosa è molto più che riduttivo, due sono quelle che mi hanno particolarmente scosso. 

Una è quella, appunto, che descrive la cerimonia del Nobel. Suu, in completo isolamento, riesce a captare dalla radio, unico strumento di contatto col mondo esterno che le è rimasto, la cronaca dell'evento. Sa che lì ci sono suo marito, i suoi figli, con cui non può comunicare da tanto tempo; che parleranno di lei, che il mondo intero parlerà di lei: è una formidabile iniezione di fiducia, una sferzata potentissima di vita, in un momento così impossibile della sua esistenza. Ma i militari, con sadica crudeltà talmente chirurgica e gratuita da renderli grotteschi e ridicoli di fronte alla grandezza della sua umanità, le tagliano la corrente elettrica all'improvviso. La sua vecchia domestica non si perde d'animo: scova una radiolina a transistor sguarnita di batterie e ci infila a forza la pila della torcia elettrica. La radio funziona, riescono a sintonizzarla sulla stazione giusta, e Suu può così ascoltare le parole del comitato, gli applausi della gente, il discorso di suo figlio maggiore Alexander che parla in suo nome, presta la sua voce di ragazzo a lei, che il tiranno birmano vorrebbe rendere muta per sempre. Poi sente un'orchestra attaccare la sua musica preferita, quella che suo marito le ha sentito tante volte suonare: il Canone di Pachelbel. E allora, spontaneamente, si siede al pianoforte e trova il modo per essere lì con loro, colmando il baratro di tempo e spazio. I militari sono sconfitti, e con loro sconfitta è la protervia, la violenza, la brutalità. Vinta dalla sensibilità dello spirito di una piccola donna indomabile, impossibile da coercizzare o da imprigionare.


L'altra è quella, quasi insostenibile, dell'ultima drammatica telefonata tra lei e il marito morente di cancro. Ai dittatori non pare vero ritrovarsi tra le mani questa formidabile arma di cui profittare: dopo averle restituito una fittizia libertà di movimento con la revoca degli arresti domiciliari puntano sulla sua fragilità di donna toccata da una tragedia immensa nei suoi sentimenti più profondi, e negano perfidamente il visto d'ingresso all'uomo che vorrebbe ricongiungersi alla moglie che non vede da anni per un estremo saluto. Suu sa che questo è fatto per costringerla a partire: e che se uscisse dalla Birmania non le consentirebbero più di fare ritorno, vanificando il senso di anni di lotte, rendendo inutili anni di sofferenza sua e dei suoi cari. Ma senza salutare il suo uomo per l'ultima volta non sa stare. Lei, l'orchidea d'acciaio, per la prima volta davvero vacilla, e dice al marito che pensa di andare da lui in Inghilterra. Egli allora le si oppone fermamente: con indicibile generosità supporta Suu fino all'inverosimile, persino contro se stesso, spingendola così dove lei non si dà il diritto di arrivare. Sa che non la rivedrà mai più, che si spegnerà solo, lontano da lei. Ma proprio il dolore inaudito che entrambi provano a quel pensiero è misura della straordinaria condivisione d'intenti  tra loro due, uniti, nonostante il distacco, come pochi altri al mondo, dall'inizio dei tempi, sono stati. Rivedersi, abbandonando la strada che Suu sta percorrendo, vanificando tutto, sarebbe come rinnegarsi, e rinnegare qualcosa che sta alla radice del loro legame, su cui poggia l'autenticità e il significato del loro amore. Perché questo è il vero amore. Proprio perché si amano davvero Suu e suo marito Michael dovranno restare separati fino alla fine. Piange, Suu; e io, sdraiata sul letto accanto al mio, di marito, mi sono girata verso lo schermo, dandogli le spalle, perché mi vergognavo di fargli vedere che piangevo anch'io. O di fargli capire che sapevo che stava piangendo anche lui.

Quando ho spento mi è successo come quando i bambini piccoli vedono per la prima volta un documentario sui loro coetanei che muoiono in Africa e, per un po', i loro guai e dispiaceri scoloriscono in confronto ai veri travagli della vita. Aung San Suu Kyi oggi ha sessantasette anni: la sua esistenza volge al termine, e il rendiconto non è positivo. Si è persa la giovinezza dei suoi figli, costretti a crescere senza la madre e, dopo poco, assai prematuramente, anche senza il padre; si è persa la loro confidenza, se il figlio maggiore, oggi trentanovenne, si è rinchiuso in un monastero buddista negli USA e non ha inteso rivederla; si è persa gli ultimi anni di serenità accanto al suo uomo, morto il giorno del suo cinquantatreesimo compleanno; ha patito terribili segregazioni paragonabili alle più atroci torture, è stata oggetto di sopraffazioni inaudite, ha visto orrori incancellabili; e la situazione politica nel paese ch'ella lasciò ragazzina per tornarvi donna e madre con una vita ormai lontana da lì solo per una settimana o due - "il tempo necessario", dichiara ai soldati all'aereoporto - per assistere la sua, di madre, che aveva avuto un infarto - non è sostanzialmente mutata. Chi gliel'ha fatto fare?
Semplicemente, lei ha visto un orizzonte che gli altri non vedevano. Ha amato i suoi figli, il suo uomo. E siccome sapeva amare, ha naturalmente dilatato ed espanso questa sua capacità, questa tenerezza di madre, di donna, agli altri esseri umani, ai giovani universitari che ha incontrato, sanguinanti dopo gli scontri con i militari, nell'ospedale dove accudiva sua madre, e via via poi a tutti gli altri che si è trovata davanti nel cammino intrapreso, fatto di passi non preordinati, venuti spontaneamente, uno dopo l'altro, camminando. L'amore non è avaro, non si restringe, non si può circoscrivere. Può solo ampliarsi in cerchi concentrici via via sempre più larghi, come quelli di un sasso gettato nello stagno. E a sua volta ha tratto forza dal suo essere stata molto amata. Dai suoi figli, fino a dove le loro risorse emotive di ragazzi hanno consentito. E da suo marito, indissolubilmente legato a lei da un vincolo che li rendeva due in uno, anche a distanza, moltiplicando la loro forza e la loro capacità di incidere sul proprio e sull'altrui destino.
E mi sono detta: chissà come si sente, oggi, Suu. Questa donna minuta e indomabile, ostinata, piena di grazia e gentilezza. Chissà se ha mai provato le stigmate della depressione, del vuoto esistenziale, della mancanza di senso. Forse sì. Forse chissà quante volte. Però ce l'ha fatta. E' rimasta fedele a se stessa, senza perdersi mai.
E' una persona eccezionale, Suu. Quello che le è capitato è eccezionale. Per fortuna, anche, non è richiesto a tutti uno sforzo così sovrumano. Però, in fin dei conti, lei è invece, comunque, sempre e solo un essere umano. Una donna, solo una donna.
Se ce l'ha fatta lei, ce la posso fare anch'io. Ce la possiamo fare tutti.