Ieri sera sono andata a teatro con estrema diffidenza.
E mi sono difatti inflitta tre ore di sofferenza.
Tre ore faticose, farraginose.
Purtroppo l'abbonamento annuale al Quirino, accanto a opere di qualità messe in scena da solidi professionisti, comprende anche robe simili, e allora, per non sprecare il biglietto, ho tentato la sorte, pur sapendo di fare un azzardo. E invece! Mi ero concessa di lisciare Barbareschi col Discorso del re, mi sono sorbita ben di peggio con questo.
Lo spettacolo era un adattamento di Rain Man. Uno di quei filmacci hollywoodiani che affrontano storie improbabili con faciloneria frettolosa, ruffiani, scontati, scritti coi piedi, tutti mestiere, che si reggono unicamente sulle più retrive sollecitazioni alle viscere degli spettatori e sulle performance ai limiti dell'istrionico di gigionissimi protagonisti che sanno che ruoli siffatti (contrariamente a quanto immagina il volgo molto più semplici di tanti altri), al limite del numero da circo, così cesellabili e alieni, frutteranno loro un sicuro Oscar.
Robette divertenti, per carità, piacevoli. Ma nulla di più.
L'unica cosa che davvero mi era simpatica di quel film era la colonna sonora, opera dell'onesto artigiano Hans Zimmer, non un genio musicale ma un sicuro, dignitoso talento, autore di varie cose non eccezionali ma certo pregevoli, alcune delle quali - la colonna sonora di The vacancy, per esempio, o quella di The Lion King - mi sono, per la mia compulsiva attrazione per la melensaggine, care al cuore.
Son riusciti a farmi detestare pure quella, sparandola a tutto volume e poi sfumandola quasi simultaneamente ad ogni piè sospinto all'interno dell'indigesto polpettone, come alle recite parrocchiali.
Ché se già non è il massimo guardarsi il film, figuratevi vederselo replicato, sfrondato di ogni addobbo potenzialmente, se non abbellitivo, almeno decorativo quale scenografie, inquadrature e tagli di montaggio, nella scarna penuria di mezzi di un allestimento teatrale, senza il minimo sforzo creativo di rivisitare il testo e dargli un'impronta diversa e personale, damblé, con tutti i tempi morti di sceneggiatura, le stesse identiche precise battute precisamente scimmiottate, collo scialbo coprotagonista (distintosi esclusivamente nei dieci minuti recitati in canottiera e attillatissime mutande per la sua esposizione al maturo pubblico, in palese ossequio alla volontà della produzione di far cassetta con ogni mezzuccio, di un fisico palestrato e d'una pacchiana ostentata erezione) spedito a fare piattamente il verso a un Tom Cruise, già abbastanza insopportabile e imbarazzante di suo nell'originale, persino nel timbro di voce (del doppiatore, of course!) e ad enfaticamente caricare e appesantire, per eccesso di zelo e difetto di personalità, ogni battuta più di quanto già non la carichi ed appesantisca quello nella pellicola madre di cotanto abominio, e con l'attricetta comprimaria indotta a ricalcare pedissequamente tutti gli strilletti e le mossette di Valeria Golino fin nel modo di appizzare il culo. Gente che non si cala in un ruolo, non si immedesima in una parte, ma semplicemente svolge il suo compitino per di più ricopiandolo da altri, o sforzandosi alla meno peggio di farlo, con una calligrafia che non le è propria, qualcosa a cui si sovrappone rimanendone completamente avulsa.
Una mistificazione. Una parodia. Una finzione penosa, faticosa, che di scenico, di teatrale, non ha nulla.
Una cosa kitsch, di plastica, scadente, brutta, come le imitazioni delle borse griffate cinesi o napoletane.
Responsabile di siffatta prodezza è la Compagnia della Rancia, che oggi va per la maggiore, artefice di riedizioni di musical di grandissimo successo. Questo è il gusto artistico, oggi.
Che tedio, che noia. Conoscendo purtroppo bene i dialoghi del film (anche per il loro esser invero ridotti all'osso), mi sembrava di dover imboccare agli sciagurati interpreti ogni battuta. Ad ogni scambio concluso mi incoraggiavo con momentaneo sollievo: "e vai, anche questo dente ce lo siamo levato". E che imbarazzo, che disagio, dover applaudire, alla fine, quando invece avrei ritenuto più appropriato tirare pomodori, impossibilitata dalle mie inibizioni e dalla mia perniciosa tendenza all'accondiscendenza, nella circostanza giunta a livelli di ipocrisia elevatissimi.
Con questi, sul palco, stolidi e bamboleggianti, che non si accorgevano di niente. Che chissà quanto credevano di esser stati bravi.
Viviamo in tempi così.
E forse per contrasto, per ribellione interiore, stamane, svegliandomi, mi sono venuti in mente "i miei tempi". Quelli degli sceneggiati TV trasposti da illustri opere letterarie, recitati da autentici attori degni di questo nome. Senza arrivare a scomodare il pantheon dei Grandi, da Foà a Buazzelli, che so, i Corrado Pani, gli Ugo Pagliai, i Giuseppe Pambieri, i Gabriele Lavia. Per il quale mi presi una cotta stratosferica ai tempi del Marco Visconti. Il Gabriele Lavia di allora, innocente promessa delle scene, pre-sodalizio con la Guerritore. In perfetta coppia d'amor cortese con la Pamela Villoresi di allora, tenera e sensibile giovinetta nel cui seno ardeva il fuoco sacro dell'arte, non l'esaltata destrorsa di oggi.
La sigla finale, poi, quella ballata composta e cantata da Herbert Pagani, lui sì artista, morto prematuramente, non me la sono mai dimenticata, e me la risento spesso, assaporandomela come mia personale madeleine. Ah, il profumo delle cose buone di una volta.
Cavalli ricamati sull’arazzo del passato,
passato che ritorna su un accordo in si minore;
leggende dove guerra è sempre sposa dell’amore,
amore che tu insegui e non raggiungi quasi mai...
Io sono nato il giorno che ho veduto il tuo sorriso
e fui ferito a morte quando ti hanno rubata a me:
le acque dei torrenti sono lacrime d'amore
e ogni lacrima mi dice "meglio vivere infelice
che felice, senza averti vista mai"
Vivrò tutta la vita per cantare il nostro amore
ed ogni trovatore che il mio canto sentirà
lo porterà lontano, oltre monti ed oltre mare;
il tempo può passare, questo canto durerà...
E volerà leggero come polline di fiore,
per secoli d’amore altri amori sveglierà;
e immagino gli amanti che lo cantano a memoria,
e poiché saranno tanti sull'arazzo della storia,
qualche cosa
di noi due
resterà.