Questo post è tutto diverso da quello che avrei voluto scrivere stamane.
Stamane, quando mi sono svegliata dopo una notte di sogni agitati in cui ne dicevo di tutti i colori al mio capo e alla mia capa del personale - una sfilza di improperi, una vomitata di ingiurie che manco mi ricordo tutte, tranne l'ultima, che mi è rimasta impressa perché nel sogno a sfuriata ormai chiusa ci sono tornata indietro apposta per lanciarla alla (s)coordinatrice in questione a mo' di colpo di grazia: "ah, dimenticavo: sei una leccaculo!" - e ho visto il malcapitato consorte all'udire i miei mugolii lamentosi aprire la bocca e poi richiuderla immediatamente ricordando come gliene è mal incolto ieri mattina quando ha avuto l'ardire di esclamare per consolarmi "dai, oggi è già mercoledì" beccandosi in risposta una mia abbaiata da mastino: "cosa vuol dire, è già mercoledì? Che facciamo, aspettiamo di cominciare a vivere nel week end, che poi sono sempre i due giorni della settimana peggiori, quelli in cui proprio ti verrebbe da spararti, e in quelli feriali tratteniamo il respiro e restiamo in apnea per sopportare l'insoddisfazione? Che aspettiamo per cominciare ad esistere, che ci piova qualcosa dal cielo, e intanto il tempo passa e l'unica cosa che ci pioverà dal cielo è il sicuro trapasso? Io non voglio aspettare, non voglio trascinarmi pensando che è già mercoledì, fuori un altro, avanti il prossimo, e intanto i giorni passano e non tornano più! Io voglio vivere adesso! Voglio svegliarmi pensando: è mercoledì, che piacere, ho aperto gli occhi e ora mi metto a vivermelo tutto!"; stamane, quando poi il malumore mi è gradatamente passato dopo aver deposto come una chioccia la sua covata rispettivamente la figlia giacobina sul sagrato di Santa Maria Maggiore, da dove ad ampie falcate ha raggiunto il suo liceo, e il figlio rompiballe ("Vuoi guidare tu, Matteo?" "Nonnò, guida tu"; per poi, cancellando in un sol colpo le buone abitudini di anni in cui ha presenziato ad ogni genere di mie imprese banditesche stradali senza battere ciglio, mettersi oggi a sbracare ogni tre minuti: "Mamma, sbrina 'sto vetro! Guarda che se non accendi prima l'aria fredda col cazzo che si sbrina! Mamma, guarda dove vai! Mamma, stai attenta! Teoricamente ora questa macchina è mia, dunque vedi di non distruggermela! Mamma, non ci vedi? Mamma, che cazzo fai?" finché non gli è riuscito di farmi fare il pelo ad un'incosciente Smart sbucata da un parcheggio senza guardare dietro; manco male, io non l'avevo vista per niente) tra le aiuole striminzite di Piazzale Aldo Moro, da dove a passi svagati ha raggiunto la sua facoltà - ambedue oggi impegnati con la matematica, la giacobina alle prese con l'ultimo compito in classe del quadrimestre, l'universitario col secondo esonero dell'esame -, esser rimasta in splendida solitudine, aver acceso la radio nella vecchia Astra di famiglia che sostituisce momentaneamente la Pandina, aver incocciato in "What is love (baby don't hurt me)" di Haddaway e aver visto come tutto pareva pigliare a muoversi prodigiosamente in sincrono con quel ritmo incalzante, compreso il vecchietto che mi stava attraversando davanti, sulle strisce all'uscita di Piazza Indipendenza, talmente a tempo da produrre un bizzarro effetto ottico parecchio divertente, a ricomporsi in un quadro armonico, sinfonico, quasi, e a prendere vita, colore, energia, vigore, voglia, entusiasmo per affrontare la giornata, e allora ho pensato giubilante "vai, anche oggi mi sono rimessa in piedi. E adesso andiamo a vivere!"
No, questo post invece parla di stasera, di quando, uscita dal lavoro, filando nella notte già un po' placida e stanca del trambusto giornaliero e lenta e lustra e scintillante dei sampietrini di Via Carlo Alberto, nascosta nello scuro, confortevole utero dell'auto, sospesa in un breve segmento di tempo tra la fine di un impegno e l'inizio di un altro, un interstizio tutto mio dove ripormi, invisibile e non necessaria ad alcuno, ho sentito uscire dalla radio queste note.
E mentre le ascoltavo mi si è aperto il cuore, e ho cominciato spontaneamente a passare in rassegna nella mia mente, come per associazione di idee, volti di persone a cui rivolgere quel "you're beautiful": per primo quello di Claudio, i suoi occhi ridenti, i suoi capelli dritti sparati sulla testa; poi quello di Robi, la mia bellissima collega impegnata a lottare; poi quello di Edoardo, il mio maestro jedi; poi quello di Angie, e di Martina, e di Aldo, e di Ambra, e di Minerva, e di Mattia, e di Eli, tutti coi loro sorrisi che conosco, che mi hanno regalato nei nostri incontri, che ho respirato in una telefonata... E poi, via via, tutti quelli delle persone che compongono il disegno variopinto della mia anima, amici, figli, gente che mi ha sfiorato la vita senza voltarsi indietro, gente che è tornata, gente che nemmeno ancora conosco, se non da una foto sulle pagine di un blog o di FaceBook, anche quella sorridente, gente, come endi o Bruno, che posso solo immaginare, pure quella munita di uno splendido sorriso; mi pareva che sorrideste tutti, persino i più burberi, come Gap o la Tazza, e allora anche sulla mia faccia si è allargato un sorriso, replica esteriore di quello che mi si era spalancato nel cuore. E ho pensato che niente vale la pena, al mondo, quanto di sentire di amare, di amare le persone, e non le persone in modo generico: proprio quelle persone lì, tante o poche che siano, vere, concrete, definite, quelle e non altre. E non importa se non vivremo mai assieme, come dice la canzone; o, come nel caso dei figli, non vivremo più assieme. Voi siete belli, e tali per me resterete, per sempre.
(Buonanotte)