"Lasciatemi sola" dissi al valletto.
Questa volta non ebbe bisogno di chiudere a chiave la porta. Mi infilai gli orecchini: erano molto pesanti. Poi mi tolsi il completo da equitazione e lo lasciai cadere a terra. Quando, però, fu la volta della camiciola, le mie braccia si abbandonarono sui fianchi, Non ero avvezza alla mia nudità, tanto poco abituata al mio corpo che togliermi tutti i vestiti era come scuoiarmi. Pensai che La Bestia aveva voluto assai poco in confronto a quanto ero pronta ad offrirgli; ma per l'uomo non è naturale vivere nudo, sin da quel primo momento in cui si coprì i lombi con foglie di fico. La Bestia aveva chiesto l'abominevole. Provai un acuto dolore, come se mi stessi liberando della pelle addirittura, mentre la bambola sorridente se ne stava lì ferma dimentica della propria impossibile imitazione di vita, e mi guardava spogliarmi nel freddo, fino a mostrare la bianca carne tenendo fede al mio patto. Sembrava però non vedermi, come quando al mercato si incontrano occhi che non riconoscono la nostra esistenza.
E mi sembrò che la mia vita intera, da quando avevo lasciato il Nord, fosse trascorsa sotto lo sguardo incurante di occhi così.
Poi mi ero tirata indietro con grande fermezza, sensibile solo alle sue nobili lacrime.
Mi avvolsi nelle pellicce che dovevo restituirgli, per proteggermi dai gelidi venti che turbinavano nei corridoi. Conoscevo la strada per raggiungere la sua tana senza bisogno che mi ci scortasse il valletto.
Il mio bussare incerto alla porta non ebbe risposta.
Ma ecco arrivare il valletto in un vortice di corrente. Doveva aver stabilito che, se uno di noi era nudo, tutti gli altri avrebbero dovuto imitarlo; senza livrea si rivelò per quello che io avevo già immaginato che fosse: un esserino minuto, coperto di morbido pelo colore grigio topo, dotato di dita scure e flessibili come il cuoio e un musetto color cioccolato, insomma la creatura più mite del mondo. Farfugliò un poco, vedendomi avvolta nella pelliccia e carica di gioielli come se fossi pronta per l'opera e, pieno di una tenerezza cerimoniosa, mi tolse il mantello di zibellino. La pelliccia cadendo a terra si trasformò in un mucchietto di topi che si allontanarono squittendo giù per le scale sulle zampette robuste, sino a sparire.
Il valletto mi invitò con un inchino ad entrare nella stanza della Bestia.
Su una sedia, la veste violacea, la maschera e la parrucca, un guanto infilato su ciascun bracciolo. La vuota dimora del suo aspetto forzato era pronta, ma lui l'aveva abbandonata per sempre. C'era un forte fetore di pelo e di piscio, l'incensiera giaceva a terra in frantumi. Ciocchi mezzo bruciati erano sparsi nel fuoco ormai spento. Una candela, bloccata dalla sua stessa cera alla mensola, accendeva due piccole fiamme negli occhi della Tigre.
Questi percorreva a passi nervosi la stanza; la coda pesante in preda a sussulti mentre lui misurava in lungo ed in largo la sua prigionia lorda di ossa rosicchiate e sanguinolente.
Farò di te un solo boccone.
Le paure dell'infanzia divenute realtà; la prima e più arcaica delle paure, quella di esser divorati. La Bestia nel suo giaciglio carnivoro pieno di ossa e poi io, pallida, tremante, acerba che mi avvicinavo come ad offrirgli, con me, la chiave di un regno di pace in cui il desiderio poteva non aver bisogno di soddisfazione.
Si paralizzò. Era più lui ad aver paura di me, che non il contrario.
Mi accovacciai nella paglia bagnata e tesi la mano. Mi trovavo ormai nel campo di forza dei suoi occhi dorati. Gli uscì dalla gola un ruggito. La Bestia abbassò il capo e lo affondò tra le zampe, ringhiò, mostrandomi la gola scarlatta e i denti giallastri. Io non mi muovevo. Odorava l'aria come per cogliere la mia paura, ma gli fu impossibile.
Con infinita lentezza prese a strisciare il corpo pesante verso di me.
Un palpito tremendo riempì la stanza. Sembrava quello del motore del mondo; aveva iniziato a fare le fusa.
Quel suo dolce suono scosse le vecchie mura, fece sbattere gli scuri finché non si spalancarono e la luce bianca di quella luna di neve entrò nella stanza. Le tegole precipitavano dal tetto; le sentivo schiantarsi in cortile. L'eco delle sue fusa scrollò la casa alle fondamenta, i muri presero a vacillare. Pensai: "Crollerà tutto e si disintegrerà."
Si faceva sempre più vicino, finché sentii la sua testa irsuta contro la mia mano e la sua lingua rasposa come la carta vetrata. "Mi leccherà via la pelle!"
Ad ogni leccata, la pelle si lacerava a brandelli, ogni strato di pelle della mia vita mondana lasciava spazio ad un nuovo vello di pelo lucente. I diamanti dei miei orecchini tornarono ad essere acqua e mi scesero giù per le spalle. Ne scossi le gocce lontano dalla mia pelliccia incantevole.
Bello! *-*
RispondiEliminaDavvero, Angie. :)
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