Tonino abitava nella seconda viuzza dopo il penitenziario: ma quel breve tratto di strada fu sufficiente perché Mara si bagnasse da capo a piedi. Lo sdrucciolo si era addirittura mutato in un torrente.
Salì di corsa gli scalini e arrivata al secondo pianerottolo spinse la porta ed entrò. Dalla cucina le venne subito incontro la moglie di Tonino:
"Misericordia Mara in che stato sei! Non potevi aspettare che spiovesse?"
"Sì, stai fresca prima che spiova. E poi è tardi, sennò non faccio in tempo alla corriera."
"Non vorrai mica andartene con questo tempo. E bagnata fradicia."
"Per forza Vilma bisogna che vada: domattina devo essere al lavoro."
"Ma appunto: che torni a fare a casa, se domattina devi essere di nuovo a Colle... E' meglio che ci vai direttamente da qui."
"Ma mamma, se non mi vede, sta in pena."
"Se non ti vede, capirà che ti sei fermata a dormire da noi. Con questa stagione, ad andare in giro, c'è da prendersi un malanno. E poi è tanto che ce lo prometti, che una volta ti fermi..."
Mara finì con l'acconsentire: Vilma le diede la sua vestaglia e un paio di ciabatte, e le mise il vestitino e le calze ad asciugare sopra la cucina a legna.
"Ora preparo il tè; così ti riscaldi lo stomaco."
"E Danilo?" domandò Mara.
"E' da questa famiglia di sopra."
"Da quei siciliani?"
"Sì, da loro. Buona gente, non dico mica: ma cosa vuoi, noi toscani non ce la diciamo troppo con quelli della Bassa. Però, meglio loro di quegli altri lassù." "Lassù", per Vilma, voleva dire Piacenza, dove s'era sempre trovata spaesata. "Credi, Mara, che anch'io contavo i giorni quando sapevo che dovevi venire. Almeno per un'ora avevo la compagnia di una delle mie parti..."
"E' stata una fortuna per me che ci foste voi a Piacenza" disse Mara. "Mamma mia! Se ripenso a quei viaggi... Ora almeno son vicina."
Vilma apparecchiò con una tovaglia di nylon e mise in tavola le tazze, lo zucchero e un piattino su cui erano già state disposte le fette di limone. Benché anche lei, come Tonino, fosse di umile famiglia, pure ci guardava a queste cose; e teneva la casa sempre in ordine, che era un piacere vederla.
"Tu Vilma la tua casina la tieni proprio come uno specchio." "Ma che dici!" Però si vedeva che era contenta. "Certo anche qui siamo un po' sacrificati... In camera a fatica ci si rigira... Ma cosa vuoi, con quello che prende Tonino non possiamo mica permetterci il lusso di pagare un affitto più alto."
Dopo aver bevuto il tè, Mara accese una sigaretta; e Vilma si affrettò a metterle davanti un portacenere.
"Te però non è mica tanto che fumi."
"No" rispose Mara sorridendo. "E' un vizio che ho preso in fabbrica." E le spiegò che alla mensa c'erano parecchie che dopo mangiato accendevano la sigaretta, e così, aveva finito con l'abituarcisi anche lei. "Ma ne fumo poche: una dopo la mensa, una dopo cena... A volte, la sera, anche due o tre: quando si va a vedere la televisione, fumo per tenermi sveglia."
"Perché? Ti ci annoi?"
"Non è che mi ci annoi; ma la sera sono stanca e mi fa fatica uscire. Preferirei andare a letto a leggere un libro. Ci vado tanto per far svagare un po' mamma... Lì nella bottega, si dà convegno tutto il paese... Perché anche a mamma, mica le faceva bene stare sempre sola."
"Tu sei proprio un angelo, Mara" disse Vilma con tono di profonda convinzione.
Mara rise, imbarazzata:
"Ma che dici? E' che, povera mamma, lo so soltanto io quello che ha sofferto. Anche per me, cosa credi? magari ne parla di rado, ma ci pensa sempre. Meno male che c'è Vinicio" aggiunse dopo un momento: "lui per lo meno le ha dato solo soddisfazioni" e si mise a ridere. Quando le veniva fatto di ridere così, all'improvviso, sembrava sempre la Mara di un tempo.
"Tua mamma non ha più avuto quei disturbi?" domandò di lì a poco Vilma.
"Per fortuna no. Perché mi ero spaventata proprio. Quella volta che la trovai svenuta... Ma ora s'è capito da che dipendeva: dal carbone. E' bastato che mettessimo anche noi la cucina a legna perché non avesse più capogiri. Ma certo, povera mammina, comincia ad avere i suoi anni."
"E tuo padre come sta?"
"Oh, lui sta bene. Sembra sempre un giovanotto, se lo vedessi! Di spirito, però, non è più lo stesso."
"Cosa intendi dire?"
"Da che non lavora più al Partito. Non credeva proprio che gli avrebbero fatto una parte simile. E cosa vuoi, di rimettersi a fare il boscaiolo o il manovale non se la sente mica più... a parte che il lavorare di braccia non è mai stato il suo forte" e di nuovo scoppiò in una delle sue risate da monella. "Povero babbo" aggiunse tornando seria "anche lui l'ha avuta la sua parte di delusioni nella vita..."
Non ci si vedeva più nella stanza: accesero la luce. Vilma andò a chiamare il bambino, che aveva ancora da fare le lezioni; e, mentre Vilma lavorava, "zia Mara" aiutò Danilo a far le somme e a imparare a memoria una poesia.
Tonino tornò dopo le sette, anche lui bagnato. "Brava, hai fatto bene a fermarti" le disse. "Bube, come lo hai trovato?"
"Bene" rispose Mara. "Non c'è confronto com'è sollevato di spirito da quando era lassù."
"Eh, che vuoi, qui a San Gimignano, soltanto le visite che riceve... Te l'ha detto che l'altra domenica è venuto Lidori?"
"Sì, me l'ha detto." E dopo un momento aggiunse: "Sono contenta che gli sia passato il risentimento che aveva contro di lui. Perché Lidori, per Bube, è stato più che un amico: è stato come un fratello. Per questo mi dispiaceva quando Bube faceva quei discorsi..."
"Tutti i detenuti si fissano in qualche idea" disse Tonino. "E così Bube si era fissato nell'idea che erano stati gli altri a rovinarlo... Ma poi gli è passata. Ha capito che non era giusto incolpare gli altri."
"La colpa, se lo vuoi sapere, non è di nessuno" disse Mara recisa. "Io figurati quante volte ho ripensato a quel giorno maledetto. Non ho fatto altro che ripensarci, in tutti questi anni. E mi sono convinta che la colpa non è stata di nessuno..."
"Certo, se il maresciallo non avesse sparato..." cominciò Tonino; ma lei lo interruppe:
"Io invece non accuso nemmeno il maresciallo. Nessuno ebbe colpa... fu solo un male. Ma cosa credono di aver fatto mettendo in galera Bube e Ivan? Giustizia, forse? No, hanno fatto dell'altro male: a Bube, a Ivan, alle loro famiglie; e a me... Tutto quello che ci hanno fatto soffrire, che ci faranno soffrire ancora, è servito forse a rimediare qualcosa? Io glielo vorrei proprio domandare, ai giudici: facendo soffrire noi, avete forse alleviato il dolore di qualche altro? Quel povero Ivan" aggiunse dopo un momento: "io me lo ricordo al processo, era un pezzo di giovanotto con due spalle così: e ora è tisico, e pare che stia per morire".
"Bube per fortuna di salute sta bene."
"Sì" disse Mara, rasserenata. "Di salute sta bene, e anche come morale, è molto più sollevato. Oggi s'è parlato del nostro avvenire. Abbiamo deciso che avremo due figli, un maschio e una femmina..." Si rivolse a Vilma che aveva smesso di lavorare e la guardava: "Non saremo mica così vecchi da non poter avere due figlioli. Io avrò trentadue anni e Bube trentasei... tanta gente si sposa anche più anziana." Vilma volle dir qualcosa, ma si trattenne o non ne fu capace. Mara se ne accorse: "Ti sembra stupido che si faccia dei progetti quando quel tempo è ancora tanto lontano?".
Vilma scosse energicamente il capo:
"No, ti capisco Mara... solo non so come fai ad avere tanto coraggio."
"E allora Bube, che è chiuso là dentro? Eppure anche lui si fa forza e sopporta con rassegnazione... Vero?" aggiunse rivolta a Tonino. "I primi tempi sono i più terribili" disse poi. "ma, in seguito, ci si fa quasi l'abitudine... Sono passati questi sette anni, passeranno anche questi altri sette. E poi, io cerco di non pensarci. Conto solo i giorni che mi separano dal colloquio. Perché è una tale gioia quando lo rivedo..."
"E anche lui fa così" disse Tonino. "Non pensa che al momento in cui ti potrà rivedere. La mattina del colloquio è agitato, non riesce a stare un momento fermo... Perché bisogna capirli come son fatti. Una piccola cosa che per noi non sarebbe nulla, per loro diventa un avvenimento. Il colloquio, la lettera, il pacco... non c'è mica altro nella loro vita."
Per alcuni minuti rimasero in silenzio. Poi Vilma si alzò e disse:
"Su, prepariamo cena. Domattina Mara si deve alzare presto."
"Oh, ci sono abituata" fece Mara. "La mattina l'autobus mi parte alle sette meno dieci, sicché vedi bene che la differenza è poca."
Insieme prepararono cena e apparecchiarono. Dopo che ebbero mangiato, Vilma rigovernò e Mara la aiutò ad asciugare. Tonino mise il bimbo a letto, e poi tornò in cucina.
Stettero un altro po' alzati. Il discorso a un certo punto cadde sul prete Ciolfi, che era morto poco dopo il processo; e i fascisti dicevano che era stato in conseguenza delle botte che gli aveva dato Bube, ma era una calunnia; perché era morto di cancro, invece.
"E ti dico di più" fece Tonino "per Bube fu un dispiacere quando seppe della morte di Ciolfi. Vedi un po' com'è cattiva la gente a dire certe cose."
"E' cattiva la gente che non ha provato il dolore" disse Mara. "Perché quando si prova il dolore, non si può più voler male a nessuno."
"E' proprio così" fece Tonino. "E noi che ci si vive accanto alla gente che soffre, lo sappiamo meglio di chiunque altro."
E venne l'ora di andare a dormire. Mara li salutò; e li ringraziò, anche.
"Ma non dirlo nemmeno per scherzo!" esclamò Vilma di rimando. "Tu dovresti fermarti tutte le volte. Perché per noi è un piacere..."
Mara era stata messa a dormire sul divano del salottino: ci stava comoda, ma non le riusciva di prender sonno. Il fatto di essere in un letto nuovo, e il tic tac della sveglia, e il rumore della pioggia, e il vento che s'ingolfava nel vicolo e scuoteva l'intelaiatura della finestra, tutto contribuiva a tenerla desta. Udì dieci rintocchi: venivano dal penitenziario. E l'angoscia la prese, al pensare che Bube era là tra quelle mura, e ci sarebbe rimasto altri sette anni.
Ma non fu che un momento: perché ancora una volta quella forza che l'aveva assistita in tutte le circostanze dolorose della vita, la sorresse e le ridiede animo. Mara rimase a lungo sveglia, con gli occhi aperti, e pensava che aveva fatto la metà del cammino, e che alla fine della lunga strada ci sarebbe stata la luce...
L'autorimessa era aperta, ma non avevano ancora tirato fuori la corriera. Anche il caffeuccio di fronte era aperto ma la macchina era sotto pressione: e Mara dovette aspettare una diecina di minuti per avere il suo caffé.
Poiché il locale era sempre vuoto, ne approfittò per fumare. Ma si affrettò a spegnere la sigaretta quando entrarono i primi avventori.
Erano operai, diretti come lei a Colle. Mentre aspettavano di essere serviti, parlavano e ridevano, e ogni tanto le lanciavano un'occhiata. Ognuno che sopravveniva, era salutato da un'esclamazione e da qualche botta amichevole sulla schiena. Poi arrivarono anche il fattorino, col berretto di traverso, e l'autista, con la giubba sulle spalle. Dopo aver preso il caffè, rimasero appoggiati al banco a discorrere con gli operai: finché uno di questi disse all'autista:
"Muoviti, vai a tirar fuori il macinino."
L'autista fece l'atto di tirargli un pugno, e quello, a sua volta, abbozzò la parata. Due minuti dopo la corriera usciva lentamente dall'autorimessa e si disponeva di traverso. I viaggiatori montarono senza fretta: Mara andò a mettersi nel primo sedile.
Finalmente montò anche il fattorino, sbatté lo sportello e disse all'autista: "Andiamo". La corriera si mosse, passò sotto la porta, percorse un tratto del viale alberato lungo le mura; poi affrontò la prima discesa.
Alla prima curva, si scoprì la Valdelsa. C'era un mare di nebbia, laggiù: da cui emergevano come isole le sommità delle collinette. Ma il sole, attraversando coi suoi raggi obliqui la nebbia, accendeva di luccichii il fondovalle. Mara non distoglieva un momento gli occhi dallo spettacolo della vallata che si andava svegliando nel fulgore nebbioso della mattina.