sabato 28 maggio 2011
venerdì 27 maggio 2011
Il gorilla albino
Nello zoo di Barcellona esiste l'unico esemplare che si conosca al mondo di scimmione albino, un gorilla dell'Africa equatoriale. Il signor Palomar si fa largo tra la folla che s'assiepa nel suo padiglione. Al di là di una vetrata, "Copito de Nieve" ("Fiocco di neve", così lo chiamano) è una montagna di carne e pelo bianco. Seduto contro una parete sta prendendo il sole. La maschera facciale è d'un roseo umano, lavorata dalle rughe; anche il petto mostra una pelle glabra e rosea, come quella degli uomini di razza bianca. Quel viso dalle fattezze enormi, da gigante triste, ogni tanto si volta verso la folla dei visitatori oltre il vetro, a meno d'un metro da lui; un lento sguardo carico di desolazione e pazienza e noia, uno sguardo che che esprime tutta la rassegnazione a essere come si è, unico esemplare al mondo d'una forma non scelta, non amata, tutta la fatica di portarsi addosso la propria singolarità, tutta la pena d'occupare lo spazio e il tempo con la propria presenza così ingombrante e vistosa.
La vetrata apre la vista su un recinto circondato d'alte pareti in muratura che gli dànno un aspetto di cortile di prigione ma che è in realtà il "giardino" della casa-gabbia dei gorilla, dal cui suolo s'elevano un basso albero senza foglie e una scala di ferro da palestra di ginnastica.
Più in là nel cortiletto c'è la femmina, una grande gorilla nera con un piccolo pure nero in braccio; "Copito de Nieve" resta l'unico albino di tutti i gorilla.
Canuto ed immobile, lo scimmione evoca alla mente del signor Palomar un'antichità immemoriale, come le montagne o le piramidi. In realtà è un animale ancora giovane e solo il contrasto tra il volto roseo e il corto pelo candido che lo incornicia e soprattutto le rughe tutt'intorno agli occhi gli dànno l'apparenza d'un vegliardo. Per il resto, l'aspetto di "Copito de Nieve" presenta meno somiglianze con l'uomo di quello d'altri Primati: al posto del naso le narici scavano una doppia voragine; le mani, pelose e - si direbbe - poco articolate, all'estremità di braccia molto lunghe e rigide, sono ancora in realtà delle zampe, e come tali il gorilla le usa per camminare, appoggiandole al suolo come un quadrupede.
Ora queste braccia-zampe stringono contro il petto un copertone di pneumatico d'auto. Nell'enorme vuoto delle sue ore, "Copito de Nieve" non abbandona mai il suo copertone. Cosa sarà questo oggetto per lui? Un giocattolo? Un feticcio? Un talismano? A Palomar sembra quasi di capire perfettamente il gorilla, il suo bisogno d'una cosa da tener stretta mentre tutto gli sfugge, una cosa in cui placare l'angoscia dell'isolamento, della diversità, della condanna a essere sempre considerato un fenomeno vivente, dalle sue femmine e dai suoi figli come dai visitatori dello zoo.
Anche la femmina possiede un copertone d'auto, ma questo per lei è un oggetto d'uso, con cui ha un rapporto pratico e senza problemi: ci sta seduta dentro come in una poltrona, a prendere il sole spulciando il figlioletto.
Per "Copito de Nieve" invece il contatto col pneumatico sembra essere qualcosa d'affettivo, di possessivo e in qualche modo simbolico. Di lì gli si può aprire uno spiraglio verso quella che per l'uomo è la ricerca d'una via d'uscita dallo sgomento di vivere: l'investire se stesso nelle cose, il riconoscersi nei segni, il trasformare il mondo in un insieme di simboli; quasi un primo albeggiare della cultura nella lunga notte biologica. Per far questo il gorilla albino dispone solo d'un copertone d'auto, un artefatto della produzione umana, estraneo a lui, privo d'ogni potenzialità simbolica, nudo di significati, astratto. Non si direbbe che a contemplarlo se ne possa cavare molto. Eppure, che cosa meglio d'un cerchio vuoto è in grado d'assumere tutti i significati che si vuole attribuirgli? Forse immedesimandosi in esso il gorilla è sul punto di raggiungere al fondo del silenzio le sorgenti da cui scaturisce il linguaggio, di stabilire un flusso di rapporti tra i suoi pensieri e l'irreducibile sorda evidenza dei fatti che determinano la sua vita...
Uscito dallo zoo il signor Palomar non può togliersi dalla mente l'immagine del gorilla albino. Prova a parlarne con chi incontra, ma non riesce a farsi ascoltare da nessuno. La notte, tanto nelle ore d'insonnia quanto nei brevi sogni, continua ad apparirgli lo scimmione. "Come il gorilla ha il pneumatico che gli serve da supporto tangibile per un farneticante discorso senza parole, - egli pensa ,- così io ho quest'immagine d'uno scimmione bianco. Tutti rigiriamo tra le mani un vecchio copertone vuoto mediante il quale vorremmo raggiungere il senso ultimo a cui le parole non giungono."
Ora queste braccia-zampe stringono contro il petto un copertone di pneumatico d'auto. Nell'enorme vuoto delle sue ore, "Copito de Nieve" non abbandona mai il suo copertone. Cosa sarà questo oggetto per lui? Un giocattolo? Un feticcio? Un talismano? A Palomar sembra quasi di capire perfettamente il gorilla, il suo bisogno d'una cosa da tener stretta mentre tutto gli sfugge, una cosa in cui placare l'angoscia dell'isolamento, della diversità, della condanna a essere sempre considerato un fenomeno vivente, dalle sue femmine e dai suoi figli come dai visitatori dello zoo.
Anche la femmina possiede un copertone d'auto, ma questo per lei è un oggetto d'uso, con cui ha un rapporto pratico e senza problemi: ci sta seduta dentro come in una poltrona, a prendere il sole spulciando il figlioletto.
Per "Copito de Nieve" invece il contatto col pneumatico sembra essere qualcosa d'affettivo, di possessivo e in qualche modo simbolico. Di lì gli si può aprire uno spiraglio verso quella che per l'uomo è la ricerca d'una via d'uscita dallo sgomento di vivere: l'investire se stesso nelle cose, il riconoscersi nei segni, il trasformare il mondo in un insieme di simboli; quasi un primo albeggiare della cultura nella lunga notte biologica. Per far questo il gorilla albino dispone solo d'un copertone d'auto, un artefatto della produzione umana, estraneo a lui, privo d'ogni potenzialità simbolica, nudo di significati, astratto. Non si direbbe che a contemplarlo se ne possa cavare molto. Eppure, che cosa meglio d'un cerchio vuoto è in grado d'assumere tutti i significati che si vuole attribuirgli? Forse immedesimandosi in esso il gorilla è sul punto di raggiungere al fondo del silenzio le sorgenti da cui scaturisce il linguaggio, di stabilire un flusso di rapporti tra i suoi pensieri e l'irreducibile sorda evidenza dei fatti che determinano la sua vita...
Uscito dallo zoo il signor Palomar non può togliersi dalla mente l'immagine del gorilla albino. Prova a parlarne con chi incontra, ma non riesce a farsi ascoltare da nessuno. La notte, tanto nelle ore d'insonnia quanto nei brevi sogni, continua ad apparirgli lo scimmione. "Come il gorilla ha il pneumatico che gli serve da supporto tangibile per un farneticante discorso senza parole, - egli pensa ,- così io ho quest'immagine d'uno scimmione bianco. Tutti rigiriamo tra le mani un vecchio copertone vuoto mediante il quale vorremmo raggiungere il senso ultimo a cui le parole non giungono."
mercoledì 25 maggio 2011
Piccole confessioni di una malandrina
In ufficio si è perso un documento importante pervenuto da un'altra amministrazione. E' arrivato, l'ho protocollato, il mio capo lo ha assegnato e puf, si è dissolto nell'aria.
Mi sono offerta di andare a reperire la copia conforme che una gentile dipendente dell'altra amministrazione si era detta disponibile a rilasciarci immediatamente.
Così sono stata spedita in servizio esterno al centro di Roma alle undici e mezza di mattina, sotto il sole caldo e luminoso di queste giornate di estate anticipata.
Sono andata con l'autista, ma non con la macchina di servizio, perché, dopo oltre un anno dalla richiesta formale, pare che il Comune non abbia ancora provveduto a rilasciare alla mia amministrazione (una pubblica amministrazione) il permesso per la ZTL per quella macchina. O forse il permesso è stato rilasciato, ma si è perso anche quello nei meandri di chi sa quale ufficio della mia amministrazione (stavolta non il mio).
Così, con il placet del mio capo, sono andata con la mia macchina, provvista di permesso ZTL per trasporto dell'invalida di famiglia. La quale, però, non era nella macchina ma a casa sua, ignara del fatto. In compenso in macchina c'era appunto l'autista, che però fungeva da passeggero, perché guidavo io, non volendo renderlo correo delle mie malefatte.
All'andata, tutto liscio. Per evitare di incappare in pattuglie di vigili ho circumnavigato la zona in modo da sbucare in una piazza usualmente abbastanza tranquilla, posta proprio di fronte alla sede della mia destinazione, dove avrei potuto sostare in doppia fila lasciando l'autista a far da palo.
Ho trovato la piazza transennata e presidiata dai vigili per una manifestazione di sordi che rivendicavano il diritto all'insegnamento del linguaggio dei segni a scuola e nelle università.
Facendo con aria svagata un calmo dietrofront ho abbandonato macchina ed autista in mezzo ad un parcheggino retrostante e mi sono avviata a piedi, fendendo la folla dei manifestanti.
Tra andata, permanenza in situ e ritorno (con in mano la preziosa copia conforme) ci avrò messo un quarto d'ora.
Ci ho messo un'ora abbondante, invece, per farmi i trecento metri di strada che mi separavano dall'uscita del labirinto di stradine. Più che incolonnata, inchiodata nel centro di Roma, sotto un sole cocente, al centro di un serpente di macchine e motorini senza capo né coda. L'autista, più che altro, immagino, per dare un senso alla sua inutile presenza, ogni tanto azzardava un commento del genere ma sarà successo qualcosa, non è normale questo imbottigliamento, e poi guardava le lancette dell'orologio che avanzavano verso l'orario di pranzo (fatale ed immutabile per il delicatissimo metabolismo degli impiegati pubblici).
Invece non era successo niente. L'ho scoperto quando, facendo l'ennesima effrazione - una svolta a sinistra - mi sono immessa sulla stradona più famosa della città e ho visto davanti a me piazza Venezia e il Vittoriano sonnolenti, incorniciati dal solito casino. Un tranquillo mercoledì di maggio nel centro di Roma.
Sono rientrata in ufficio stralunata, e ho pensato a quanto avrei voluto doverla cantare io, la canzoncina che oggi ho suggerito a Volpe.
Mi sono offerta di andare a reperire la copia conforme che una gentile dipendente dell'altra amministrazione si era detta disponibile a rilasciarci immediatamente.
Così sono stata spedita in servizio esterno al centro di Roma alle undici e mezza di mattina, sotto il sole caldo e luminoso di queste giornate di estate anticipata.
Sono andata con l'autista, ma non con la macchina di servizio, perché, dopo oltre un anno dalla richiesta formale, pare che il Comune non abbia ancora provveduto a rilasciare alla mia amministrazione (una pubblica amministrazione) il permesso per la ZTL per quella macchina. O forse il permesso è stato rilasciato, ma si è perso anche quello nei meandri di chi sa quale ufficio della mia amministrazione (stavolta non il mio).
Così, con il placet del mio capo, sono andata con la mia macchina, provvista di permesso ZTL per trasporto dell'invalida di famiglia. La quale, però, non era nella macchina ma a casa sua, ignara del fatto. In compenso in macchina c'era appunto l'autista, che però fungeva da passeggero, perché guidavo io, non volendo renderlo correo delle mie malefatte.
All'andata, tutto liscio. Per evitare di incappare in pattuglie di vigili ho circumnavigato la zona in modo da sbucare in una piazza usualmente abbastanza tranquilla, posta proprio di fronte alla sede della mia destinazione, dove avrei potuto sostare in doppia fila lasciando l'autista a far da palo.
Ho trovato la piazza transennata e presidiata dai vigili per una manifestazione di sordi che rivendicavano il diritto all'insegnamento del linguaggio dei segni a scuola e nelle università.
Facendo con aria svagata un calmo dietrofront ho abbandonato macchina ed autista in mezzo ad un parcheggino retrostante e mi sono avviata a piedi, fendendo la folla dei manifestanti.
Tra andata, permanenza in situ e ritorno (con in mano la preziosa copia conforme) ci avrò messo un quarto d'ora.
Ci ho messo un'ora abbondante, invece, per farmi i trecento metri di strada che mi separavano dall'uscita del labirinto di stradine. Più che incolonnata, inchiodata nel centro di Roma, sotto un sole cocente, al centro di un serpente di macchine e motorini senza capo né coda. L'autista, più che altro, immagino, per dare un senso alla sua inutile presenza, ogni tanto azzardava un commento del genere ma sarà successo qualcosa, non è normale questo imbottigliamento, e poi guardava le lancette dell'orologio che avanzavano verso l'orario di pranzo (fatale ed immutabile per il delicatissimo metabolismo degli impiegati pubblici).
Invece non era successo niente. L'ho scoperto quando, facendo l'ennesima effrazione - una svolta a sinistra - mi sono immessa sulla stradona più famosa della città e ho visto davanti a me piazza Venezia e il Vittoriano sonnolenti, incorniciati dal solito casino. Un tranquillo mercoledì di maggio nel centro di Roma.
Sono rientrata in ufficio stralunata, e ho pensato a quanto avrei voluto doverla cantare io, la canzoncina che oggi ho suggerito a Volpe.
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Un uomo oscuro
Allora il tempo cessò di esistere. Era come se fossero state cancellate le cifre di un quadrante e il quadrante stesso impallidisse come la luna nel cielo in pieno giorno. Senza pendola (quella della casetta non funzionava più), senza orologio (non ne aveva mai avuti), senza calendario appeso al muro, il tempo passava come un lampo o durava eterno. Il sole si alzava, poi tramontava in un punto appena diverso dal giorno prima, un po' più presto ogni sera, un po' più tardi ogni mattina. L'alba e il crepuscolo erano gli unici avvenimenti ad avere importanza. Fra loro, scorreva qualcosa che non era il tempo, ma la vita. Non avevano più importanza le fasi della luna, salvo che, quando era piena, di notte la sabbia splendeva bianca. Non ricordava più bene i nomi e le figure delle costellazioni che conosceva a memoria al tempo in cui il pilota della Téthys puntava su Aldebaran o sulle Pleiadi, ma importava poco: si trattava dunque di fuochi incomprensibili che bruciavano nel cielo. Delle nuvole o dei banchi di nebbia ne nascondevano quasi sempre una parte; oppure riapparivano come amiche perdute. Prima che l'aggravarsi della malattia gli togliesse a poco a poco la forza di appassionarsi a qualcosa, continuava ad amare appassionatamente la notte. Qui sembrava illimitata, onnipontente: la notte sul mare prolungava da ogni parte la notte sull'isola. Certe volte, uscito di casa, nell'oscurità in cui indistintamente si scorgeva solo la massa morbida delle due e, di scorcio, il bianco incresparsi del mare, si toglieva gli abiti e si lasciava penetrare da quel buio e dal vento quasi tiepido. Non era allora che una cosa tra le cose. Non avrebbe saputo spiegare perché il contatto della sua pelle con l'oscurità lo commuovesse, come in altri tempi l'amore. Altre volte il vuoto notturno era terribile.
(...)
Viveva senza libri, non avendo trovato nella casetta che una Bibbia che bruciò senza risparmio un giorno che la stufa prendeva male. Ma gli sembrava ora che i libri che gli era capitato di leggere (poteva da questi giudicare tutti i libri?), gli avessero dato poco, meno forse dell'entusiasmo o della riflessione che vi aveva messo lui stesso; pensava comunque che sarebbe stato male non immergersi interamente nella lettura del mondo che, adesso e per così poco tempo, aveva sotto gli occhi e che gli era come toccato in sorte. Leggere dei libri, come tracannare acquavite, sarebbe stato un modo di stordirsi per non essere là. E d'altra parte, che cosa erano i libri? Aveva lavorato anche troppo, da Elia, su quelle file di piombo spalmate di inchiostro. Più le sue sensazioni corporee gli divenivano penose, più gli sembrava necessario cercare piuttosto di seguire, se non di comprendere, a forza di attenzione, ciò che si faceva o si disfaceva dentro di lui.
Uno o due volte, come aveva sentito consigliare dal pulpito da dei signori in collarina e lunghe maniche nere, cercò di valutare come meglio poteva il proprio passato. Non ci riuscì. Per cominciare, non si trattava particolarmente del suo passato, ma solamente delle persone e delle cose incontrate strada facendo; le rivedeva, o almeno alcune tra di esse; non vedeva se stesso. Tutto considerato, gli sembrava che gli uomini e le circostanze gli avessero fatto più bene che male, di aver goduto, giorno dopo giorno, più di quanto non avesse sofferto, ma certo delle felicità di cui molti non avrebbero saputo che farsene. Aveva conosciuto delle gioie che nessuno sembrava tenere in considerazione, come masticare un filo d'erba. Non era mai stato ricco né famoso; non aveva mai desiderato essere una cosa o l'altra. Gli sembrava anche di non avere mai fatto del male, foss'anche solo una pietra lanciata contro un uccello, o una parola crudele, che poteva incancrenire nella memoria di qualcuno. Se era andata così, era stato anche per caso. Avrebbe potuto uccidere il grosso uomo di Greenwich, non l'aveva fatto per pura combinazione. Se Sarai gli avesse proposto apertamente di andare a vendere per lei una refurtiva, forse, vile e appassionato, avrebbe detto di sì.
Ma intanto, chi era questa persona che designava come se stesso? Da dove veniva? Dal grosso carpentiere gioviale dei cantieri dell'Ammiragliato, che amava fiutare il tabacco e distribuire schiaffoni, e dalla puritana moglie di lui? Ma no: era solamente passato attraverso di loro. Non si sentiva, come si sentono tanti, uomo in opposizione agli animali e agli alberi; piuttosto fratello dei primi e lontano cugino dei secondi. Né si sentiva particolarmente maschio davanti al dolce popolo delle femmine; aveva ardentemente posseduto alcune donne, ma fuori dal letto, le sue preoccupazioni, i suoi bisogni, la sua dipendenza dalla paga, dalla malattia, dai doveri quotidiani che si compiono per vivere, non gli erano sembrati tanto diversi dai loro. Aveva, raramente, è vero, gustato la fraternità carnale che gli recavano altri uomini; non si era sentito per questo meno uomo. Si falsava tutto, pensava, riflettendo così poco sulla flessibilità e sulle risorse dell'essere umano, così simile alla pianta che cerca il sole e l'acqua, e bene o male si nutre dei terreni dove il vento l'ha seminata. Gli sembrava che la consuetudine, più che la natura, segnasse le differenze che noi stabiliamo tra i ceti, le abitudini e le conoscenze acquisite sin dall'infanzia, o i diversi modi di pregare ciò che chiamiamo Dio. Anche le età, i sessi, e persino le razze, gli sembravano più vicini di quel che non si creda gli uni degli altri: bambino o vecchio, uomo o donna, animale o bipede che parla e lavora con le sue mani, tutti comunicavano nella sventura e nella dolcezza dell'esistenza. Malgrado la differenza di colore, si era inteso bene con il meticcio; malgrado la sua religione, che del resto non praticava quasi, Sarai era stata una donna come un'altra; e c'erano anche ladre battezzate. Nonostante il fossato che separa un domestico da un borgomastro, aveva provato affetto per il signor Van Herzog, che certamente non aveva per il suo domestico che un briciolo di benevolenza; nonostante le poche cognizioni acquisite alla scuola del maestro e, in seguito, nei libri sfogliati da Elia, non credeva di saperne di più di Markus, o, un tempo, del meticcio, che era stato cuoco. Nonostante la sottana, e la Francia da cui proveniva, il giovane gesuita gli era parso un fratello.
(...)
Ogni notte, avvolto in una delle belle coperte del signor Van Herzog, che asciugavano meglio di un lenzuolo i sudori della febbre, pensava che non avrebbe rivisto il mattino. Era molto semplice: quanti animali selvatici quella notte non avrebbero rivisto l'alba? Lo prendeva un'immensa pietà per le creature, ognuna separata da tutte le altre, per le quali vivere e morire è quasi ugualmente difficile. Allo spuntare del giorno l'aria fresca ma dolce che veniva dall'oceano gli portava una specie di tregua. Per un attimo, il suo corpo, ben lavato, gli sembrava intatto, persino bello, partecipe con tutte le sue fibre alla felicità del mattino.
martedì 24 maggio 2011
La vigna
Ariadne, abbandonata da Teseo dopo l'avventura del labirinto, venne raccolta sull'isola di Nasso da Dioniso di ritorno dall'India, e finì in cielo tra le costellazioni.
(Parlano Leucotea ed Ariadne)
LEUCOTEA Piangerai per molto tempo ancora, Ariadne?
ARIADNE E tu di dove vieni?
LEUCOTEA Dal mare, come te. Dunque, hai smesso di piangere?
ARIADNE Non sono più sola.
LEUCOTEA Credevo che voi donne mortali piangeste soltanto quando qualcuno vi ascolta.
ARIADNE Per una ninfa, sei cattiva.
LEUCOTEA Così, se n'è andato anche lui? Perché credi che ti abbia lasciata?
ARIADNE Non mi hai detto chi sei.
LEUCOTEA Una donna che ha fatto quel che tu non hai fatto. Ho tentato di uccidermi in mare. Mi chiamavano Ino. Una dea mi ha salvata. Ora sono la ninfa dell'isola.
ARIADNE Che vuoi da me?
LEUCOTEA Se parli così, già lo sai. Vengo a dirti che il tuo caro ragazzo dalle belle parole e dai ricci violetti, se n'è andato per sempre. Ti ha piantata. La vela nera che è scomparsa sarà l'ultimo ricordo che ti lascia. Corri, strilla, dibattiti, è fatta.
ARIADNE Anche te hanno piantato, ché hai cercato di ucciderti?
LEUCOTEA Non si tratta di me. Ma non meriti il discorso che ti faccio. Sei sciocca e testarda.
ARIADNE Senti, ninfa del mare, che tu deva parlarmi, non so. Quello che dici è poco o troppo. Se vorrò uccidermi, saprò farlo da sola.
LEUCOTEA Credi a me, scioccherella. Il tuo dolore non è nulla.
ARIADNE E perché vieni a dirmelo?
LEUCOTEA Perché credi ti abbia lasciata?
ARIADNE O ninfa, smettila...
LEUCOTEA Ecco, piangi. Così almeno è più facile. Non parlare, non serve. Così se ne vanno sciocchezza e superbia. Così il tuo dolore compare per quello che è. Ma finché il cuore non ti scoppierà, finché non latrerai come una cagna e vorrai spegnerti nel mare come un tizzo, non potrai dire di conoscere il dolore.
ARIADNE M'è già scoppiato... il cuore...
LEUCOTEA Piangi soltanto, non parlare... Tu non sai nulla. Altro ti attende.
ARIADNE Come ti chiami adesso, ninfa?
LEUCOTEA Leucotea. Capiscimi, Ariadne. La vela nera se n'è andata per sempre. Questa storia è finita.
ARIADNE E' la mia vita che finisce.
LEUCOTEA Altro ti attende. Tu sei sciocca. Non veneravi nessun dio nella tua terra?
ARIADNE Quale dio può ridarmi la nave?
LEUCOTEA Ti domando che dio conoscevi.
ARIADNE C'è un monte in patria che incuteva spavento anche a quelli della nave. Là sono nati grandi dèi. Li adoriamo. Li ho già tutti invocati, ma nessuno mi aiuta. Che farò? dimmi tu.
LEUCOTEA Che cosa attendi dagli dei?
ARIADNE Non attendo più nulla.
LEUCOTEA E allora ascolta. Qualcuno si è mosso.
ARIADNE Che vuol dire?
LEUCOTEA Se ti parlo, qualcuno si è mosso.
ARIADNE Tu sei solo una ninfa.
LEUCOTEA Può darsi che una ninfa annunci un gran dio.
ARIADNE Chi, Leucotea, chi mai?
LEUCOTEA Pensi al dio o al bel ragazzo?
ARIADNE Non lo so. Come dici? Io mi prostro agli dèi.
LEUCOTEA Dunque hai capito. E' un nuovo dio. E' il più giovane di tutti gli dèi. Ti ha veduta e gli piaci. Lo chiamano Dioniso.
ARIADNE Non lo conosco.
LEUCOTEA E' nato a Tebe e corre il mondo. E' un dio di gioia. Tutti lo seguono e lo acclamano.
ARIADNE E' potente?
LEUCOTEA Uccide ridendo. Lo accompagnano i tori e le tigri. La sua vita è una festa e tu gli piaci.
ARIADNE Ma come mi ha vista?
LEUCOTEA Chi può dirlo. Tu sei mai stata in un vigneto in costa a un colle lungo il mare, nell'ora lenta che la terra dà il suo odore? Un odore rasposo e tenace, tra di fico e di pino? Quando l'uva matura, e l'aria pesa di mosto? O hai mai guardato un melograno, frutto e fiore? Qui regna Dioniso, e nel fresco dell'edera, nei pineti e sulle aie.
ARIADNE Non c'è un luogo solitario abbastanza che gli dèi non ci vedano?
LEUCOTEA Cara mia, ma gli dèi sono il luogo, sono la solitudine, sono il tempo che passa. Verrà Dioniso, e ti parrà di esser rapita da un gran vento, come quei turbini che passano sulle aie e nei vigneti.
ARIADNE Quando verrà?
LEUCOTEA Cara, io lo annuncio. Per questo la nave è fuggita.
ARIADNE E a te chi l'ha detto?
LEUCOTEA Sono di Tebe, Ariadne. Sono sorella di sua madre.
ARIADNE Nella mia patria si racconta che sull'Ida nascevano dèi. Nessun mortale è mai salito oltre gli ultimi boschi. Noi temiamo anche l'ombra che cade dal monte. Come posso accettare le cose che dici?
LEUCOTEA Tu hai molto osato, piccola. Non era per te come un dio anche colui dai ricci viola?
ARIADNE Gli ho salvata la vita, a questo dio. Che ne ho avuto?
LEUCOTEA Molte cose. Hai tremato e sofferto. Hai pensato a morire. Hai saputo che cosa è un risveglio. Ora sei sola e aspetti un dio.
ARIADNE E lui com'è? molto crudele?
LEUCOTEA Tutti gli dèi sono crudeli. Che vuol dire? Ogni cosa divina è crudele. Distrugge l'essere caduco che resiste. Per svegliarti più forte, devi cedere al sonno. Nessun dio sa rimpiangere nulla.
ARIADNE Il dio tebano... questo tuo... hai detto che uccide ridendo?
LEUCOTEA Chi gli resiste. Chi gli resiste s'annienta. Ma non è più spietato degli altri. Sorridere è come il respiro per lui.
ARIADNE Non è diverso da un mortale.
LEUCOTEA Anche questo è un risveglio, bambina. Sarà come amare un luogo, un corso d'acqua, un'ora del giorno. Nessuno uomo val tanto. Gli dèi durano finché durano le cose che li fanno. Fin che le capre salteranno tra i pini e i vigneti, ti piacerà e gli piacerai.
ARIADNE Morirò come tutte le capre.
LEUCOTEA Sulle vigne, di notte, ci sono anche stelle. E' un dio notturno che ti aspetta. Non temere.
(Parlano Leucotea ed Ariadne)
LEUCOTEA Piangerai per molto tempo ancora, Ariadne?
ARIADNE E tu di dove vieni?
LEUCOTEA Dal mare, come te. Dunque, hai smesso di piangere?
ARIADNE Non sono più sola.
LEUCOTEA Credevo che voi donne mortali piangeste soltanto quando qualcuno vi ascolta.
ARIADNE Per una ninfa, sei cattiva.
LEUCOTEA Così, se n'è andato anche lui? Perché credi che ti abbia lasciata?
ARIADNE Non mi hai detto chi sei.
LEUCOTEA Una donna che ha fatto quel che tu non hai fatto. Ho tentato di uccidermi in mare. Mi chiamavano Ino. Una dea mi ha salvata. Ora sono la ninfa dell'isola.
ARIADNE Che vuoi da me?
LEUCOTEA Se parli così, già lo sai. Vengo a dirti che il tuo caro ragazzo dalle belle parole e dai ricci violetti, se n'è andato per sempre. Ti ha piantata. La vela nera che è scomparsa sarà l'ultimo ricordo che ti lascia. Corri, strilla, dibattiti, è fatta.
ARIADNE Anche te hanno piantato, ché hai cercato di ucciderti?
LEUCOTEA Non si tratta di me. Ma non meriti il discorso che ti faccio. Sei sciocca e testarda.
ARIADNE Senti, ninfa del mare, che tu deva parlarmi, non so. Quello che dici è poco o troppo. Se vorrò uccidermi, saprò farlo da sola.
LEUCOTEA Credi a me, scioccherella. Il tuo dolore non è nulla.
ARIADNE E perché vieni a dirmelo?
LEUCOTEA Perché credi ti abbia lasciata?
ARIADNE O ninfa, smettila...
LEUCOTEA Ecco, piangi. Così almeno è più facile. Non parlare, non serve. Così se ne vanno sciocchezza e superbia. Così il tuo dolore compare per quello che è. Ma finché il cuore non ti scoppierà, finché non latrerai come una cagna e vorrai spegnerti nel mare come un tizzo, non potrai dire di conoscere il dolore.
ARIADNE M'è già scoppiato... il cuore...
LEUCOTEA Piangi soltanto, non parlare... Tu non sai nulla. Altro ti attende.
ARIADNE Come ti chiami adesso, ninfa?
LEUCOTEA Leucotea. Capiscimi, Ariadne. La vela nera se n'è andata per sempre. Questa storia è finita.
ARIADNE E' la mia vita che finisce.
LEUCOTEA Altro ti attende. Tu sei sciocca. Non veneravi nessun dio nella tua terra?
ARIADNE Quale dio può ridarmi la nave?
LEUCOTEA Ti domando che dio conoscevi.
ARIADNE C'è un monte in patria che incuteva spavento anche a quelli della nave. Là sono nati grandi dèi. Li adoriamo. Li ho già tutti invocati, ma nessuno mi aiuta. Che farò? dimmi tu.
LEUCOTEA Che cosa attendi dagli dei?
ARIADNE Non attendo più nulla.
LEUCOTEA E allora ascolta. Qualcuno si è mosso.
ARIADNE Che vuol dire?
LEUCOTEA Se ti parlo, qualcuno si è mosso.
ARIADNE Tu sei solo una ninfa.
LEUCOTEA Può darsi che una ninfa annunci un gran dio.
ARIADNE Chi, Leucotea, chi mai?
LEUCOTEA Pensi al dio o al bel ragazzo?
ARIADNE Non lo so. Come dici? Io mi prostro agli dèi.
LEUCOTEA Dunque hai capito. E' un nuovo dio. E' il più giovane di tutti gli dèi. Ti ha veduta e gli piaci. Lo chiamano Dioniso.
ARIADNE Non lo conosco.
LEUCOTEA E' nato a Tebe e corre il mondo. E' un dio di gioia. Tutti lo seguono e lo acclamano.
ARIADNE E' potente?
LEUCOTEA Uccide ridendo. Lo accompagnano i tori e le tigri. La sua vita è una festa e tu gli piaci.
ARIADNE Ma come mi ha vista?
LEUCOTEA Chi può dirlo. Tu sei mai stata in un vigneto in costa a un colle lungo il mare, nell'ora lenta che la terra dà il suo odore? Un odore rasposo e tenace, tra di fico e di pino? Quando l'uva matura, e l'aria pesa di mosto? O hai mai guardato un melograno, frutto e fiore? Qui regna Dioniso, e nel fresco dell'edera, nei pineti e sulle aie.
ARIADNE Non c'è un luogo solitario abbastanza che gli dèi non ci vedano?
LEUCOTEA Cara mia, ma gli dèi sono il luogo, sono la solitudine, sono il tempo che passa. Verrà Dioniso, e ti parrà di esser rapita da un gran vento, come quei turbini che passano sulle aie e nei vigneti.
ARIADNE Quando verrà?
LEUCOTEA Cara, io lo annuncio. Per questo la nave è fuggita.
ARIADNE E a te chi l'ha detto?
LEUCOTEA Sono di Tebe, Ariadne. Sono sorella di sua madre.
ARIADNE Nella mia patria si racconta che sull'Ida nascevano dèi. Nessun mortale è mai salito oltre gli ultimi boschi. Noi temiamo anche l'ombra che cade dal monte. Come posso accettare le cose che dici?
LEUCOTEA Tu hai molto osato, piccola. Non era per te come un dio anche colui dai ricci viola?
ARIADNE Gli ho salvata la vita, a questo dio. Che ne ho avuto?
LEUCOTEA Molte cose. Hai tremato e sofferto. Hai pensato a morire. Hai saputo che cosa è un risveglio. Ora sei sola e aspetti un dio.
ARIADNE E lui com'è? molto crudele?
LEUCOTEA Tutti gli dèi sono crudeli. Che vuol dire? Ogni cosa divina è crudele. Distrugge l'essere caduco che resiste. Per svegliarti più forte, devi cedere al sonno. Nessun dio sa rimpiangere nulla.
ARIADNE Il dio tebano... questo tuo... hai detto che uccide ridendo?
LEUCOTEA Chi gli resiste. Chi gli resiste s'annienta. Ma non è più spietato degli altri. Sorridere è come il respiro per lui.
ARIADNE Non è diverso da un mortale.
LEUCOTEA Anche questo è un risveglio, bambina. Sarà come amare un luogo, un corso d'acqua, un'ora del giorno. Nessuno uomo val tanto. Gli dèi durano finché durano le cose che li fanno. Fin che le capre salteranno tra i pini e i vigneti, ti piacerà e gli piacerai.
ARIADNE Morirò come tutte le capre.
LEUCOTEA Sulle vigne, di notte, ci sono anche stelle. E' un dio notturno che ti aspetta. Non temere.
domenica 22 maggio 2011
Cry
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Mettersi a nudo
"Lasciatemi sola" dissi al valletto.
Questa volta non ebbe bisogno di chiudere a chiave la porta. Mi infilai gli orecchini: erano molto pesanti. Poi mi tolsi il completo da equitazione e lo lasciai cadere a terra. Quando, però, fu la volta della camiciola, le mie braccia si abbandonarono sui fianchi, Non ero avvezza alla mia nudità, tanto poco abituata al mio corpo che togliermi tutti i vestiti era come scuoiarmi. Pensai che La Bestia aveva voluto assai poco in confronto a quanto ero pronta ad offrirgli; ma per l'uomo non è naturale vivere nudo, sin da quel primo momento in cui si coprì i lombi con foglie di fico. La Bestia aveva chiesto l'abominevole. Provai un acuto dolore, come se mi stessi liberando della pelle addirittura, mentre la bambola sorridente se ne stava lì ferma dimentica della propria impossibile imitazione di vita, e mi guardava spogliarmi nel freddo, fino a mostrare la bianca carne tenendo fede al mio patto. Sembrava però non vedermi, come quando al mercato si incontrano occhi che non riconoscono la nostra esistenza.
E mi sembrò che la mia vita intera, da quando avevo lasciato il Nord, fosse trascorsa sotto lo sguardo incurante di occhi così.
Poi mi ero tirata indietro con grande fermezza, sensibile solo alle sue nobili lacrime.
Mi avvolsi nelle pellicce che dovevo restituirgli, per proteggermi dai gelidi venti che turbinavano nei corridoi. Conoscevo la strada per raggiungere la sua tana senza bisogno che mi ci scortasse il valletto.
Il mio bussare incerto alla porta non ebbe risposta.
Ma ecco arrivare il valletto in un vortice di corrente. Doveva aver stabilito che, se uno di noi era nudo, tutti gli altri avrebbero dovuto imitarlo; senza livrea si rivelò per quello che io avevo già immaginato che fosse: un esserino minuto, coperto di morbido pelo colore grigio topo, dotato di dita scure e flessibili come il cuoio e un musetto color cioccolato, insomma la creatura più mite del mondo. Farfugliò un poco, vedendomi avvolta nella pelliccia e carica di gioielli come se fossi pronta per l'opera e, pieno di una tenerezza cerimoniosa, mi tolse il mantello di zibellino. La pelliccia cadendo a terra si trasformò in un mucchietto di topi che si allontanarono squittendo giù per le scale sulle zampette robuste, sino a sparire.
Il valletto mi invitò con un inchino ad entrare nella stanza della Bestia.
Su una sedia, la veste violacea, la maschera e la parrucca, un guanto infilato su ciascun bracciolo. La vuota dimora del suo aspetto forzato era pronta, ma lui l'aveva abbandonata per sempre. C'era un forte fetore di pelo e di piscio, l'incensiera giaceva a terra in frantumi. Ciocchi mezzo bruciati erano sparsi nel fuoco ormai spento. Una candela, bloccata dalla sua stessa cera alla mensola, accendeva due piccole fiamme negli occhi della Tigre.
Questi percorreva a passi nervosi la stanza; la coda pesante in preda a sussulti mentre lui misurava in lungo ed in largo la sua prigionia lorda di ossa rosicchiate e sanguinolente.
Farò di te un solo boccone.
Le paure dell'infanzia divenute realtà; la prima e più arcaica delle paure, quella di esser divorati. La Bestia nel suo giaciglio carnivoro pieno di ossa e poi io, pallida, tremante, acerba che mi avvicinavo come ad offrirgli, con me, la chiave di un regno di pace in cui il desiderio poteva non aver bisogno di soddisfazione.
Si paralizzò. Era più lui ad aver paura di me, che non il contrario.
Mi accovacciai nella paglia bagnata e tesi la mano. Mi trovavo ormai nel campo di forza dei suoi occhi dorati. Gli uscì dalla gola un ruggito. La Bestia abbassò il capo e lo affondò tra le zampe, ringhiò, mostrandomi la gola scarlatta e i denti giallastri. Io non mi muovevo. Odorava l'aria come per cogliere la mia paura, ma gli fu impossibile.
Con infinita lentezza prese a strisciare il corpo pesante verso di me.
Un palpito tremendo riempì la stanza. Sembrava quello del motore del mondo; aveva iniziato a fare le fusa.
Quel suo dolce suono scosse le vecchie mura, fece sbattere gli scuri finché non si spalancarono e la luce bianca di quella luna di neve entrò nella stanza. Le tegole precipitavano dal tetto; le sentivo schiantarsi in cortile. L'eco delle sue fusa scrollò la casa alle fondamenta, i muri presero a vacillare. Pensai: "Crollerà tutto e si disintegrerà."
Si faceva sempre più vicino, finché sentii la sua testa irsuta contro la mia mano e la sua lingua rasposa come la carta vetrata. "Mi leccherà via la pelle!"
Ad ogni leccata, la pelle si lacerava a brandelli, ogni strato di pelle della mia vita mondana lasciava spazio ad un nuovo vello di pelo lucente. I diamanti dei miei orecchini tornarono ad essere acqua e mi scesero giù per le spalle. Ne scossi le gocce lontano dalla mia pelliccia incantevole.
sabato 21 maggio 2011
Finisce così (talvolta, nei libri)
Più tardi, quel giorno, fecero una lunga passeggiata sulla spiaggia. Mentre sedevano sulla sabbia contemplando le tinte del porto intensificate dal crepuscolo, John fu pervaso dall'intima convinzione che non avrebbe mai dimenticato nulla di quanto stava accadendo. Le fibre sottili, quasi piumose dei pezzi di legno argentati dal sole che raccolsero per accendere il fuoco entrarono a far parte dei suoi ricordi, per esservi conservati durante decenni dopo che la legna sarebbe divenuta cenere, ed anche i richiami dei gabbiani, quella sera, si incisero per sempre nella sua mente.
Questa sensazione che tutto ciò che provava fosse in qualche modo definitivo, persistette. V'era, ad esempio, l'immagine di Molly energica massaia, una giovane donna con un fazzoletto sul capo, che impiegò la seconda mattinata della loro luna di miele strofinando i pavimenti sulle mani e sulle ginocchia, pulendo l'appartamento sopra il garage, lasciato da Bart in un disordine indescrivibile. V'era il viso serio di Molly, l'implume intellettuale, che insisteva per non essere interrotta mentre scriveva versi. E un'ora dopo vi fu la sensuale immagine di Molly, ritta con studiata noncuranza sul pontile, come una fanciulla di Bali, senz'altro indosso all'infuori di un rosso asciugamano da spiaggia intorno alla vita, e intenta a gustare una banana.
Alle tre della seconda notte che passarono all'isola, un temporale si abbatté sul vecchio albergo. Mezzo addormentato, John si rizzò a sedere sul letto, improvvisamente, con gli ululati del vento nelle orecchie. La pioggia crepitava contro i vetri delle finestre e frustava il fogliame. Nell'attimo del risveglio egli rimase confuso, e gli parve quasi di essere tornato di nuovo ragazzo, con Bart che giaceva malato e ubriaco nella stanza vicina. I suoni della solitudine, nitidi nel ricordo, lo circondavano da ogni parte, i tonfi di un'imposta rimasta aperta, le sferzate dei rami degli alberi, e il ritmo sempre più affrettato della risacca. Una sensazione mortale, familiare, si impadronì di lui finché un lampo non squarciò le tenebre. Nel suo bagliore vide Molly giacere accanto a lui, con i capelli sciolti sul cuscino e una spalla abbronzata che emergeva dal vortice bianco del lenzuolo. Poi furono di nuovo le tenebre. Il colpo di tuono che seguì la destò. "Johnny?" disse. "Sei qui?"
"Sì" egli rispose.
Molly sospirò, si voltò rannicchiandoglisi contro, e si riaddormentò. Per molto tempo egli giacque desto ascoltando il temporale. L'incessante scroscio della pioggia era sereno e piacevole.
Ciao, Angie!
:* ad Angela. Si potrà fare? Io lo faccio.
venerdì 20 maggio 2011
Dichiarazione d'intenti
Così mio zio Medardo ritornò uomo intero, né cattivo né buono, un miscuglio di cattiveria e bontà, cioè apparentemente non dissimile da quello ch'era prima di esser dimezzato. Ma aveva esperienza dell'una e l'altra metà rifuse insieme, perciò doveva essere ben saggio. Ebbe vita felice, molti figli e un giusto governo. Anche la nostra vita mutò in meglio. Forse ci s'aspettava che, tornato intero il visconte, s'aprisse un'epoca di felicità meravigliosa; ma è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo.
Intanto Pietrochiodo non costruì più forche ma mulini; e Trelawney trascurò i fuochi fatui per i morbilli e le risipole. Io invece, in mezzo a tanto fervore d'interezza, mi sentivo sempre più triste e manchevole. Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane.
Beh, son qua
E ora che ci faccio di questo blog? Boh, vedrò col tempo.
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