Il mese d'agosto termina così, in un tripudio di trollate, cazzate e vigliaccheria. Erano mesi che non mi divertivo così tanto su FaceBook. Peccato che questi figuri spariranno, in un giorno non troppo lontano. Erano pupazzi con cui potevi giocarci in tutti i modi e fargli fare tutte le mosse che volevi...
mercoledì 31 agosto 2011
martedì 30 agosto 2011
A bug's life
E proprio il giorno dopo a quello in cui siamo rientrati alla base di città, a mia suocera viene in mente che tutti questi calabroni, la sera, sul portico, al primo accendersi delle luci, sono una faccenda strana. E così scopre in solaio, sopra le nostre teste, un nido gigantesco dei medesimi.
Hanno chiamato, lei e mio suocero, la Protezione Civile per la disinfestazione. Pare che sia compito loro anche questo. La Protezione Civile, rendiamoci conto. Che ha detto "arriviamo in serata, a meno di urgenze gravi". E avrei pure voluto vedere!
Per dire la pericolosità della faccenda.
M'immagino lo sgomento retrospettivo di Angie all'apprendere la notizia. Angie, non preoccuparti! Uomini scafandrati come astronauti li hanno sterminati, hanno individuato e ucciso il calabrone "regina", hanno distrutto liquido mieloso ed un mare di uova e hanno portato via l'osceno immenso pignone. Ora puoi stare tranquilla e tornare quando vuoi!
Però è singolare constatare come io viva praticamente circondata da insetti. Per dire, anche su FaceBook me ne han dato noia un paio, in questi giorni. Fortunatamente quelli non hanno pungiglioni pericolosi. Son solo fastidiosi, e un tantino schifosi. Come le larve che sono, poveretti.
lunedì 29 agosto 2011
Friends/2
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When Harry met Sally
sabato 27 agosto 2011
Fredbaby
Proprio ad agosto, il mese che nell'anno sopporto di meno (se la batte con novembre, ma è una bella lotta), son nate alcune delle persone più significative della mia vita. Di sesso maschile: mio padre, mio figlio e te.
Domani è il tuo compleanno.
Ci dividono dieci anni di età quasi esatti, ci uniscono lo stesso segno zodiacale e alcune tendenze comportamentali, oltre ad un tipo di sensibilità e ad un modo di concepire la vita che depongono a favore di una nostra indiscutibile affinità.
Pensando retrospettivamente a quando ci siamo conosciuti mi viene da dire che ci siamo capiti subito, a naso, tu, uomo d'affari già affermato ed esperto e io, ragazzina alla prima esperienza lavorativa che non era mai uscita di casa prima d'allora: la nostra è stata una simpatia immediata, rafforzatasi giorno dopo giorno con la consuetudine l'uno dell'altra.
E' superfluo enumerare anche una minima parte di tutte le piccole esperienze quotidiane che abbiamo condiviso e che costituiscono i fili di un rapporto che, per quanto tenue e sottile, e rimasto sottotraccia per anni, non si è mai interrotto.
Io ero smarrita e selvaggia, ma tu hai posato su di me uno sguardo benevolo che mi ha riscaldata. Poi mi hai guidato, educato, sgridandomi quando dovevo esser sgridata, elogiandomi quando dovevo esser elogiata, come un padre degno di questo nome, come i miei non avevano mai fatto, e dire che non eri tanto più adulto di me. Io ti adoravo, questo tu lo sai, ma tu provavi una grande tenerezza per me, e questo lo so io.
Io ero smarrita e selvaggia, ma tu hai posato su di me uno sguardo benevolo che mi ha riscaldata. Poi mi hai guidato, educato, sgridandomi quando dovevo esser sgridata, elogiandomi quando dovevo esser elogiata, come un padre degno di questo nome, come i miei non avevano mai fatto, e dire che non eri tanto più adulto di me. Io ti adoravo, questo tu lo sai, ma tu provavi una grande tenerezza per me, e questo lo so io.
Dai tempi in cui abbiamo smesso di esserci familiari, non c'è mai stata una volta in cui io sia passata nei posti da te frequentati senza cercarti con lo sguardo.
E son state molte quelle in cui, girando per Roma, ho sperato nell'assurdità di vederti in sella al tuo scooter. Sul quale probabilmente non ti sposterai più da anni.
Poi, quando qualche mese fa ci siamo rivisti, l'affetto sopito tra noi è sgorgato alla superficie come un fiume carsico. Tu hai fiutato, ancora una volta, che avevo bisogno del tuo sostegno, del tuo mezzo sorriso amorevole, delle tue parole pacate, pronunciate nel solito tono scanzonato, appena mitigato dal peso della saggezza della maturità che ti ho visto sul viso e nei gesti con più evidenza per non averla colta impercettibilmente nel suo divenire, abituandomici, giorno dopo giorno - e che pure non ti ha affatto cambiato, perché la tua essenza è sempre la stessa, e si effonde all'esterno, nel tuo aspetto, in un modo che mi fa dire che sei sempre tu, sei sempre l'uomo bello, bellissimo per me, che tu sei sempre stato, e che sempre io ti riconoscerei tra mille ad occhi chiusi.
Tu hai sentito il mio smarrimento nuovo, diverso da quello della mia giovinezza, più profondo, più straziante, e me lo hai curato riversando su di me in una mezza giornata un concentrato di bontà e affetto e attenzione quali io non mi sarei mai aspettata, pur conoscendoti.
E mi hai donato quello di cui più avevo bisogno: la sicurezza nella percezione dei tuoi sentimenti per me. La certezza che un affetto reciproco può durare anche dopo decenni in cui ci si è persi di vista. Che se ci rivedessimo tra altri vent'anni ci riconosceremmo lo stesso, e scopriremmo di provare ancora gli stessi sentimenti l'una per l'altro.
Buon compleanno, allora. Ti auguro ogni bene. E te ne voglio tanto.
E tutto questo non lo scriverò nel biglietto d'auguri che ti manderò. Non serve.
Poi, quando qualche mese fa ci siamo rivisti, l'affetto sopito tra noi è sgorgato alla superficie come un fiume carsico. Tu hai fiutato, ancora una volta, che avevo bisogno del tuo sostegno, del tuo mezzo sorriso amorevole, delle tue parole pacate, pronunciate nel solito tono scanzonato, appena mitigato dal peso della saggezza della maturità che ti ho visto sul viso e nei gesti con più evidenza per non averla colta impercettibilmente nel suo divenire, abituandomici, giorno dopo giorno - e che pure non ti ha affatto cambiato, perché la tua essenza è sempre la stessa, e si effonde all'esterno, nel tuo aspetto, in un modo che mi fa dire che sei sempre tu, sei sempre l'uomo bello, bellissimo per me, che tu sei sempre stato, e che sempre io ti riconoscerei tra mille ad occhi chiusi.
Tu hai sentito il mio smarrimento nuovo, diverso da quello della mia giovinezza, più profondo, più straziante, e me lo hai curato riversando su di me in una mezza giornata un concentrato di bontà e affetto e attenzione quali io non mi sarei mai aspettata, pur conoscendoti.
E mi hai donato quello di cui più avevo bisogno: la sicurezza nella percezione dei tuoi sentimenti per me. La certezza che un affetto reciproco può durare anche dopo decenni in cui ci si è persi di vista. Che se ci rivedessimo tra altri vent'anni ci riconosceremmo lo stesso, e scopriremmo di provare ancora gli stessi sentimenti l'una per l'altro.
Buon compleanno, allora. Ti auguro ogni bene. E te ne voglio tanto.
E tutto questo non lo scriverò nel biglietto d'auguri che ti manderò. Non serve.
venerdì 26 agosto 2011
La mia Africa
Ieri notte, risalendo in macchina la collinetta boscosa dove è ubicata la casetta campagnola, mi son trovata davanti la forma di un grande animale bianco. Già al pensare che fosse un cane randagio mi ero spaventata.
E invece no: era un cinghiale.
No, dico, un cinghiale. Che mi ha guardata fissa con uno sguardo semi umano e poi, senza fretta, si è infilato con passo ineffabile nella macchia al lato della strada.
E' stata come l'apparizione di un dio.
Un'esperienza mistica, aliena.
Mi son sentita la principessa Mononoke del cartone di Miyazaki.
martedì 23 agosto 2011
Light and day
Da oggi puoi fare le tue scelte, e forse incidere sul tuo destino e su quello dei tuoi connazionali.
Io ti ho accompagnato fin qui, e mi sento fiera ed emozionata di lasciarti andare, adesso, almeno metaforicamente.
Buon compleanno, Matteo.
lunedì 22 agosto 2011
Parole, parole, parole
Non sono una ragazza d'azione, io. Sono una seguace della parola.
Chiacchierona enfatica, come tutte le persone timide, perché non reggo i silenzi, non solo parlo a raffica, mangiandomi le sillabe, ma pure grido. Mi accaloro talmente tanto nel parlare che la mia voce sale sempre di più di tono e volume. Gesticolo anche parecchio, in modo piuttosto scomposto, rischiando di urtare cose e persone, farmi schizzar via le cose di mano, rovesciare eventuali bevande o buttarmi addosso il gelato.
Mi piace ascoltare il suono della mia voce, che so essere udita dall'esterno stridula e un poco roca, con un retrogusto di impercettibile melodiosa mitezza.
Sono un'aspirante affabulatrice, mi diletto a seguire i fili dei miei processi logici, a narrare episodi drammatizzandoli come fossero miti archetipici, risalendo alle origini della notte dei tempi, facendo sospensioni, digressioni, parafrasi.
E, a parte le sofferte circostanze in cui divengo afasica per la vergogna o lo scoramento, di solito in una discussione non mollo mai.
Mi piace ascoltare il suono della mia voce, che so essere udita dall'esterno stridula e un poco roca, con un retrogusto di impercettibile melodiosa mitezza.
Sono un'aspirante affabulatrice, mi diletto a seguire i fili dei miei processi logici, a narrare episodi drammatizzandoli come fossero miti archetipici, risalendo alle origini della notte dei tempi, facendo sospensioni, digressioni, parafrasi.
E, a parte le sofferte circostanze in cui divengo afasica per la vergogna o lo scoramento, di solito in una discussione non mollo mai.
Ma non è solo questo, non è tutto qui.
Non so bene perché, per me la verità raccontata dalle parole assume concretezza con una forza che sopravanza, potenzialmente, quella della realtà fattuale. Forse l'essere stata in contatto simbiotico dalla nascita e per tutti i lunghi anni dell'infanzia e della giovinezza con una persona priva di vista, che mi costringeva a relazionare costantemente su ogni immagine che vedevo, ogni atto a cui mi accingevo, ogni evento a cui assistevo, perché dovevo portarle il mondo sulle ali della parola acciocché esso acquisisse per lei validità e significato, mi ha modificata, rendendo diversa la mia concezione della comunicazione negli approcci e nei rapporti con le cose e con gli individui.
In me la parola proferita può arrivare a sostituire il comportamento, nel bene e nel male. Per cui spesso mi illudo di aver espletato doveri sociali o familiari semplicemente per averne ragionato a voce, demandandone il compimento ad altri. Oppure che un'accalorata discussione speculativa possa efficacemente surrogare un'intera serie di gesti, di movimenti, di cui non riesco a sobbarcarmi la troppo semplice ed ordinaria fatica. Ma me ne servo anche per gestire i miei impulsi ad atti di violenza, gli scatti di rabbia che in me sono frequenti. Mi sfogo a parole, vomito minacce ed insulti terribili, descrivo nei dettagli intenzioni di crimini efferati e depotenzio così la mia carica aggressiva. Certo non è bello, ma è meno dannoso e socialmente più accettabile del mettersi a spaccare tutto e tutti caricando a testa bassa senza discriminazioni o riguardi per chicchessia.
Ma se mi appassiono alla parola detta, vengo letteralmente folgorata dalla parola scritta.
L'ho sempre amata, è stata nelle prime decadi della mia vita un'amica, la più fedele, sovente l'unica. Ho letto e scritto in sovrabbondanza, ricavandone il più grande conforto e piacere dell'esistenza.
Poi, col passare del tempo, le occupazioni materiali dell'età adulta hanno preso il sopravvento dentro di me, ed io mi sono come intorpidita. Sono entrata in letargo.
Vivo da molti anni con persone che alle parole preferiscono i fatti, ritenendo le prime un inutile orpello dei secondi.
Sul lavoro, poi, sono assediata da una semplicità culturale ed intellettuale che arriva nei non rari casi estremi alla povertà di spirito, alla grossolanità e rozzezza. Il livello di comunicazione orale è per lo più elementare, per cui è un continuo dover tarare al ribasso la complessità e vastità dei miei ragionamenti per entrare in rapporto con i miei simili. La produzione di documentazione scritta rispecchia ovviamente questa attitudine mentale, limitandosi ad un inanellamento di formule precodificate e nemmeno ben comprese, al confezionamento di una sorta di patchwork verbale fatto con ritagli raffazzonati. E per fortuna, ché in mancanza di una falsariga molti si producono in interpretazioni lessicali e sintattiche della lingua italiana a dir poco sconsolanti.
Però negli ultimi dodici mesi, sbarcando nel mondo virtuale che è mondo di parole, ho riscoperto qualcosa che era già, ma di cui non riuscivo più a rendermi pienamente conto.
Di come le parole scritte, certe parole scritte, hanno il potere di suscitarmi emozioni come poche altre cose al mondo.
Qualcuno potrebbe credere che l'espressione verbale, mancando del riscontro dei sensi, sia improntata ad una rassicurante asetticità. Un modo per esporsi mantenendo un diaframma protettivo tra il trasmettitore ed il recettore.
Invece per me è proprio il contrario: quando leggo qualcosa di intelligente, di profondo od arguto, di speciale per me, mi si attiva una potentissima carica d'affetto. Proprio nel senso dell'affezione. Come se mi ammalassi della più dolce delle malattie.
Si avverano in me, in maniera profana, le parole di Isaia: "come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto".
Sono parole di cui mi nutro alla maniera di Ezechiele, a cui Dio dice "mangia questo rotolo" e lui lo mangia, "ed in bocca mi fu dolce come il miele".
Sono parole che danno senso alle cose, perché le nominano, le chiamano con un nome che forse nemmeno sempre è lo stesso che ho dato loro io, ma fa comunque parte di un linguaggio che io comprendo, che mi è familiare.
Sono parole che uniscono, una sorta di rewind della Torre di Babele, dove gli uomini tornano indietro al tempo primigenio in cui si capivano. O almeno ci provavano.
Per cui scrittori e bloggers vari sono avvertiti.
Poi, col passare del tempo, le occupazioni materiali dell'età adulta hanno preso il sopravvento dentro di me, ed io mi sono come intorpidita. Sono entrata in letargo.
Vivo da molti anni con persone che alle parole preferiscono i fatti, ritenendo le prime un inutile orpello dei secondi.
Sul lavoro, poi, sono assediata da una semplicità culturale ed intellettuale che arriva nei non rari casi estremi alla povertà di spirito, alla grossolanità e rozzezza. Il livello di comunicazione orale è per lo più elementare, per cui è un continuo dover tarare al ribasso la complessità e vastità dei miei ragionamenti per entrare in rapporto con i miei simili. La produzione di documentazione scritta rispecchia ovviamente questa attitudine mentale, limitandosi ad un inanellamento di formule precodificate e nemmeno ben comprese, al confezionamento di una sorta di patchwork verbale fatto con ritagli raffazzonati. E per fortuna, ché in mancanza di una falsariga molti si producono in interpretazioni lessicali e sintattiche della lingua italiana a dir poco sconsolanti.
Però negli ultimi dodici mesi, sbarcando nel mondo virtuale che è mondo di parole, ho riscoperto qualcosa che era già, ma di cui non riuscivo più a rendermi pienamente conto.
Di come le parole scritte, certe parole scritte, hanno il potere di suscitarmi emozioni come poche altre cose al mondo.
Qualcuno potrebbe credere che l'espressione verbale, mancando del riscontro dei sensi, sia improntata ad una rassicurante asetticità. Un modo per esporsi mantenendo un diaframma protettivo tra il trasmettitore ed il recettore.
Invece per me è proprio il contrario: quando leggo qualcosa di intelligente, di profondo od arguto, di speciale per me, mi si attiva una potentissima carica d'affetto. Proprio nel senso dell'affezione. Come se mi ammalassi della più dolce delle malattie.
Si avverano in me, in maniera profana, le parole di Isaia: "come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto".
Sono parole di cui mi nutro alla maniera di Ezechiele, a cui Dio dice "mangia questo rotolo" e lui lo mangia, "ed in bocca mi fu dolce come il miele".
Sono parole che danno senso alle cose, perché le nominano, le chiamano con un nome che forse nemmeno sempre è lo stesso che ho dato loro io, ma fa comunque parte di un linguaggio che io comprendo, che mi è familiare.
Sono parole che uniscono, una sorta di rewind della Torre di Babele, dove gli uomini tornano indietro al tempo primigenio in cui si capivano. O almeno ci provavano.
Per cui scrittori e bloggers vari sono avvertiti.
venerdì 19 agosto 2011
Feria d'agosto
Sono in ferie dal 12 agosto. Il 13 mi si è rotto il pc. Schermo bianco lattiginoso, dapprima permeabile e riavviabile al terzo, poi al decimo, poi al ventesimo tentativo. Ora definitivamente andato.
Il mio medico di fiducia dei pc ovviamente è in ferie pure lui.
Per fortuna ho avuto il tempo di accorgermi del progredire della malattia e la forza di scuotermi dalla mia pigrizia per salvarmi le cose a cui tenevo di più: conversazioni di skype, racconti, lettere e altri pezzi di scritti miei e di amici amati, fotografie.
Ora giro con una pennetta al collo come la sveglia dei matti, e mi bisticcio con la prole e con il consorte per l'uso degli altri due pc .trasbordati nel bagaglio familiare fino a questi ameni luoghi.
Perché oltretutto sono nella casetta di campagna ciociara in mezzo al nulla, in precario collegamento con chiavette internet e schede a cento ore di traffico prepagato, con una connessione che gira a manovella (oddio, non è che l'ADSL di casa vada sempre come una scheggia, eh).
Non sono ancora riuscita a riprendermi le cose che ho perso in una mezza settimana di ferie e di vacanza forzata da questo mondo virtuale. Ogni volta che entro mi sento un poco stralunata, non so dove mettermi le mani, mi guardo intorno come se non sapessi bene cosa fare, da dove cominciare.
Vorrei fare almeno tre o quattro post su argomenti e toni i più disparati possibile, dalla narrazione di aneddoti cretini alle riflessioni sui massimi sistemi, che poi son sempre quelli: la vita, l'amore, il dolore. Ma non riesco a prendere il via, mi sento un po' come se il cervello avesse preso l'iniziativa di fare le valigie ed andarsene in vacanza, dato che non era aria che ci andassi io tutta intera.
Il cuore, invece, che aveva deciso di pigliarsi una vacanza pure lui, ché ne aveva bisogno molto più del cervello che più o meno vive in gioioso relax tutto l'anno, è tornato precipitosamente ed entusiasticamente sui suoi passi, tuffandosi gloriosamente in un nuovo scombussolo di emozioni e sentimenti.
E' che proprio non ce la faccio a stare senza effondermi, senza abbracciare idealmente, con l'anima, persone che ho sempre nei miei pensieri. E' che è troppo esaltante questa sensazione di dissipazione, di parcellizzazione di me stessa in migliaia di atomi di gioia e di bene e di affetto, puro e trasparente come diamanti, forgiato nella sofferenza delle mie ansie ed insicurezze. Ogni volta ne pago il prezzo, alla fine. Ma ogni volta torno a ripetere l'esperienza, perché ancora sento che ne vale ogni volta, ancora, la pena.
Fin che reggo.
Ho ripreso a parlare con persone amate, familiari, strettamente familiari e non familiari. In sfuriate torrenziali, in due o tre casi, come un fuoco che improvvisamente si ridesta sotto la cenere e poi, forse, si spegnerà di nuovo. Speriamo mai del tutto. Ma chissà.
Ho anche vissuto con persone amate, familiari e non familiari, per una manciata di giorni intorno a ferragosto. Con una in particolare ho condiviso molte, moltissime parole e riflessioni, tante confidenze, tanto affetto, commozioni, turbamenti. Ci ho anche pianto, e ci ho passato una notte intera sul portico della mia casetta agreste - da una certa ora in poi a tremare di freddo - a parlare fitto fitto di un mare di cose che ci accomunano, che ci distinguono, a cui teniamo, in cui crediamo, che detestiamo, che fanno soffrire, che rendono felici. Abbiamo visto il buio schiarirsi a mano a mano, e poi il cielo tingersi di rosa dalla parte degli appennini, e poi il sole irrompere e restituire i colori allo scenario che ci circondava e che era rimasto ad ascoltarci per tutta la notte.
Una cosa che mi è mancata del tutto quando ero davvero diciassettenne, e che lei mi ha regalato. Un ricordo che ha colmato una lacuna e che ora correderà la mia vita per sempre.
Altre persone care sono ancora distanti per quella legge spietata dell'estate. Vespero, tutto riporti quanto disperse la lucente Aurora, scrive Saffo, ma in agosto molti vesperi si susseguono l'un l'altro senza rispettare questa norma, e bisogna attendere l'avvento di settembre per avere il conforto di veder ricomposto il proprio quadro di riferimento affettivo. Ogni anno è così.
E c'è anche sempre qualcuno lontano di cui si patisce l'assenza comunque.
Agosto per me è sempre il tempo metaforico della nostalgia.
Però scrivo in mezzo ai grilli, alle farfalle, alle cavallette, a qualche calabrone dispettoso. Mi circonda un cielo stellato punteggiato di mille luci, mi accarezza una freschezza ristoratrice, e sembra quasi che all'aperto questa tastiera si espanda come si espandono i miei pensieri. Ogni tanto una civetta fa il suo verso, e la notte scorsa verso le due, mentre con la psiche ero a più di duemila chilometri da qui ma col corpo ero sola sul portico sotto le stelle, una creatura invisibile ha camminato lungo il perimetro della recinzione, facendomi trattenere il respiro, non solo per l'apprensione.
Probabilmente era un comunissimo gatto. O forse, dopotutto, era davvero una volpe.
Chissà.
Intanto, ecco, ho ricominciato di nuovo, da qui.
mercoledì 10 agosto 2011
“Peter Pan mi sta sul cazzo*…”
L’aria è fresca e profuma di pino marittimo. Prima sigaretta della giornata e Ceres. Il giardino pare reduce da una mareggiata. Anche io. Nottata incredibile e i miei finalmente fuori dalle balle. Vacanza. Cos’altro desiderare? Ah, sì , che mi passi il mal di testa.
Toh! Inaspettato diversivo: anziani di corsa alle 7:00 del mattino! Roba da matti! Uhauhuahuauahuauha! Che buzza! Tende la microfibra come il libeccio le vele. E ha pure l’aria di sufficienza, il tipo.
“Corri Forrest!”
Se la sarà presa? Sicuro. Sempre poco sportivi questi che sgambettano per sentirsi giovani.
Di una cosa sono certo: il giorno che divento così ammazzatemi!
Syrys85
*cit. Bobo Rondelli
Sogno di una notte di mezz'estate
Qualche sera fa, per arginare la sconfortante malinconia agostana che puntuale ogni anno mi si ripropone e che si accentua al calar delle tenebre, invece di consumarmi gli occhi a srotolare vecchie conversazioni di skype od obnubilarmi il cervello guardando lo scorrere del rullo della home di FaceBook m'è venuto in testa di tuffarmi nella notte di Roma. Antica.
Così, verso le undici, ho cominciato a far le feste al consorte: "Usciamo? Mi porti al Campidoglio? Andiamo a vedere la rupe Tarpea?"
Il grande lavoratore, rincasato da poco, col boccone ancora sullo stomaco e il peso di mesi di lavoro sulle spalle, nicchiava sbuffando. Non gli andava, non gli andava proprio. Invece di rovine bimillenarie avrebbe voluto guardare, come ogni sera, gli specchi dell'armadio della camera da letto: in penombra, da supino, per quei trenta secondi necessari a chiudere gli occhi e sprofondare, da giusto qual è, nel solito sonno di piombo.
Io però non demordevo, presa dall'urgenza di sottrarmi, per una sera, al dibattermi in quella sottile e familiarissima angoscia che sentivo già salirmi come l'acqua alla gola.
Dopo più di una mezz'oretta di tiraemolla, lo streaming di Profondo Rosso sulla TV del salotto davanti alla quale si erano spaparanzati i figli con gli amici ("mamma" avevano detto "possiamo far venire a dormire da noi Simone e Carlo?" che tradotto s'intendeva "possiamo fare tutta la notte a pistolettate sulla PS3, a scorpacciate di film su TV e pc, a pancakes con sciroppo d'acero e zucchero vanigliato e Nutella e poi, in quest'ordine, a spaghettate ajo ojo e peperoncino zozzando tutta la cucina che in seguito TU pulirai, a chiacchiere sulla veranda fino a mattina inoltrata, per quindi, dopo esserci gettati di nuovo su altri generi commestibili intorno all'ora di pranzo, cadere stecchiti tutti, noi e loro, su letti e divani random oltre le cinque del pomeriggio seguente?") ha convinto il coniuge recalcitrante che era preferibile mettersi semi incosciente alla guida di uno scooterone a mezzanotte meno venti piuttosto che restare a rigirarsi nel letto sorbendosi urla da thriller ultratrentennale con il sottofondo della musichetta allucinante dei Goblin. Così siamo partiti.
Alla prima curva, sentendo l'arietta umida che mi solleticava l'artrosi cervicale nell'impatto tra le mie scapole scoperte dalla canottiera di cotone indiano e maledicendo l'adolescenziale imprevidenza di non essermi portata il giacchettino (atavica sventatezza per cui già ai tempi mi rimproverava sempre mia nonna), constatavo al contempo sulla mia pelle l'anomalia climatica di questa estate insolitamente fresca, non scontata come molte altre della mia vita passata e allora, forse, chissà, davvero potenzialmente foriera di novità atmosferiche - in senso proprio e metaforico, le quali io sto sempre protesa a fiutare come una mambo vudù - che mi ha allertata e spinta ad aprire al massimo i canali sensuali e psichici.
In un baleno, percorrendo le strade semideserte, siamo arrivati a piazza Venezia, che il mio centauro ha costeggiato parcheggiando sull'adiacente piazzetta antistante la chiesa di San Marco, di fronte allo slargo di giorno più ingolfato di Roma, che a quell'ora, vuoto e tranquillo, tra i sampietrini lustri che riflettevano le luci dei semafori e lo squarcio di cielo scuro e barocco, pareva la porta d'accesso a un'altra dimensione, incastonata tra la mole bianca del Vittoriano e, giù all'orizzonte, la sagoma del teatro di Marcello. Uno scenario che ho brevemente contemplato in compagnia di madama Lucrezia, una vecchia amica di pietra con la quale non conversavo più da parecchi anni e che mi ha fatto piacere ritrovare.
Quindi io ed il centauro, appiedati, ci siamo avviati verso il Campidoglio: superata l'Ara Coeli, abbiamo salito la scalinata tra i leoni di pietra, oltrepassando Cola di Rienzo, fino ad arrivare ai Dioscuri e al palcoscenico di una delle piazze più belle del mondo.
Davanti a tanta magnificenza il centauro ha sospirato.
"Che pena, pensare che ora qui c'è Alemanno."
"Ma chissenefrega" ho replicato io beata. "Guarda qua: a questa piazza, a Roma, Alemanno je fa un baffo."
E mentre lo dico mi avviene qualcosa dentro: sento che è vero; e che è vero anche per me, che m'accorgo improvvisamente di esser stanca, tediata, di soffrire, e di volermene un po' fare un baffo anch'io della mia angoscia; e così, improvvisamente, lì, al suono di quelle parole, tra le logge del palazzo dei Conservatori e la felice geometria delle losanghe dello splendido cortile di Michelangelo, mi cade dal petto una parte del peso che vi grava da un po' di tempo.
Per un attimo mi brillano gli occhi, il cuore mi canta.
Prendo per mano il mio ragazzone, lo tiro. "Vieni, dai, su, andiamo a vedere come sta la rupe, che fine ha fatto" e ci infiliamo nel vicoletto di fianco al Palazzo Senatorio, costeggiando le impalcature che lo cingono e che, insieme alle luci giallognole, creano un irresistibile effetto di sottosuolo riemerso da ricordi di vecchi sceneggiati TV ambientati in una Roma misteriosa e paranormale sepolti nella mia mente dalla prima infanzia. E io sempre coi sensi amplificati scruto, osservo e annoto tutto, godendomi fin dentro i pori della pelle la percezione di essere finita in Geminus, o ne Il segno del comando.
Finito il budello, usciamo sulla balconata e ci scontriamo col panorama più mozzafiato dell'universo.
Sotto di noi, deserta, immota, e tanto vicina che pare di poter stendere una mano ed arrivare a toccarla, si offre all'abbraccio dei nostri sguardi la distesa del Foro Romano in tutta la sua secolare maestosità.
L'enorme frammento delle otto colonne del tempio di Saturno, drammaticamente e fatalmente innalzate in una vertiginosa tensione ultraterrena. E intorno, a corona, il biancore del tempio di Vespasiano e dell'arco di Settimio Severo, Più in là la basilica Giulia, il tempio dei Dioscuri, il lapis niger. Sull'estrema destra la macchia scura, mistica, del bosco sacro del Palatino.
E ovunque punteggiato di chiese: San Pietro in carcere, San Giuseppe dei falegnami, la sagoma appena percepibile di quella dei Santi Cosma e Damiano. E in lontananza, verso il Colosseo, il costone su cui si erge la basilica di Santa Francesca Romana, col suo campanile medioevale.
Per un istante mi blocco e davvero trattengo il fiato, avvinta dalla sensazione di essere immersa in un oceano primordiale, fuori dal tempo e dallo spazio.
Ma poi la mia irrequietezza riprende il sopravvento, e, non appagata nemmeno da tanta meraviglia, trascino frenetica il mio compagno di scorribande su per la salita di Monte Caprino, verso l'obiettivo ultimo del mio viaggio della memoria: il giardino della rupe Tarpea, mitico sito di sommarie esecuzioni di traditori e storica meta di coppiette in fregola amorosa. Anche della nostra, ere geologiche addietro.
Lo troviamo, come ormai da molti anni, chiuso, e in più occupato da casotti prefabbricati, camion e materiale per costruzioni. Però c'è ancora, e tra i lembi dei teli verdi che ce lo occultano alla vista cogliamo scorci che ne testimoniano l'incorrotta magia, nonostante tutto.
Ridiscendiamo fino ad una panchina alle pendici della rupe, incastonata in una nicchia di freschezza immersa nel buio.
C'è una grande pace, ed un'atmosfera arcana, densa, brulicante dell'invisibile vita che per centinaia, migliaia di anni è passata su questo colle.
Restiamo a lungo seduti sul freddo marmo, sereni, ad ascoltare il silenzio gravido di vibrazioni. Parliamo anche un poco, ci viene facile in un luogo dove ogni cosa concorre a farci sentire esseri umani in armonia, legati dalle medesime intuizioni dell'inconoscibile e dall'emozione di esser sospesi insieme sul limite dell'ignoto.
Sono momenti, questi, in cui mi sento una privilegiata, per conoscere questo familiare respiro dei secoli come può solo chi nasce e cresce nell'unicità di Roma. Dolori, angosce, tutto si lenisce, davanti alla religiosa potenza del passato che è giunto sino ai miei piedi e che ora, teso come un immenso arco, mi tiene saldamente unita alle esistenze di individui lontanissimi nel tempo, antichi e favolosi. E io respiro rinfrancata una fierezza che mi dilata i polmoni e mi rimette a posto il cuore e le viscere, ricollocando me al giusto posto nel mondo.
Tornati sulla terra e nel ventunesimo secolo ridiscendiamo ancora lentamente il colle.
Davanti al panorama del Foro esito di nuovo. Sarebbe un delitto voltargli le spalle senza sostare ancora un ultimo istante. Non posso andarmene se non me ne riempio ancora un poco gli occhi.
Così di nuovo lascio errare lo sguardo, e vagare la mente. E mi viene da pensare a come il tempo ha eroso queste costruzioni monumentali. Guerre, saccheggi, accidenti atmosferici, ne hanno devastato la grandezza e compattezza, lasciando queste vestigia quale suggestiva impronta di un solenne e bellicoso splendore ineguagliabile nella storia dell'umanità.
Ma nessun cambiamento è intervenuto nel breve intervallo della mia piccola storia personale. Le otto colonne del tempio di Saturno, e tutto ciò che le circonda, sono le medesime, identiche al periodo della mia infanzia. Non una pietra si è persa. Son passati gli anni, tanti, io sono cambiata, cresciuta, invecchiata: mi sono mossa, ho agito, sperimentato, e porto il carico di ognuno dei miei movimenti, delle mie azioni, delle mie esperienze, impresso su di me.
Invece loro sono rimaste sempre lì, e, rispetto a quel breve soffio di esistenza, immutate, immutabili.
Quest'idea esaltante mi fa girare la testa. Il formidabile tuffo in questo mare di significato mi rassicura talmente da spaventarmi e farmi sentire il bisogno di ancorarmi a qualcosa di concreto. Mi chino in avanti e appoggio il mento ad un ceppo della balaustra. E mi giro verso il mio accompagnatore: ma per un attimo accanto a me non c'è più mio marito, c'è mio padre.
Sgrano le pupille. E' avvenuto davvero. Quarant'anni sono stati cancellati, azzerati in un lampo, e adesso l'immagine attuale combacia alla perfezione con un bianco e nero di allora. Non avrei mai chiesto tanto ad una notte romana. Eppure è accaduto l'insperabile, l'inconcepibile. Il tempo ha volato a ritroso, e io sono tornata bambina.
(Però poi, azz', l'attacco di artrosi cervicale m'è venuto lo stesso...)
Alla prima curva, sentendo l'arietta umida che mi solleticava l'artrosi cervicale nell'impatto tra le mie scapole scoperte dalla canottiera di cotone indiano e maledicendo l'adolescenziale imprevidenza di non essermi portata il giacchettino (atavica sventatezza per cui già ai tempi mi rimproverava sempre mia nonna), constatavo al contempo sulla mia pelle l'anomalia climatica di questa estate insolitamente fresca, non scontata come molte altre della mia vita passata e allora, forse, chissà, davvero potenzialmente foriera di novità atmosferiche - in senso proprio e metaforico, le quali io sto sempre protesa a fiutare come una mambo vudù - che mi ha allertata e spinta ad aprire al massimo i canali sensuali e psichici.
In un baleno, percorrendo le strade semideserte, siamo arrivati a piazza Venezia, che il mio centauro ha costeggiato parcheggiando sull'adiacente piazzetta antistante la chiesa di San Marco, di fronte allo slargo di giorno più ingolfato di Roma, che a quell'ora, vuoto e tranquillo, tra i sampietrini lustri che riflettevano le luci dei semafori e lo squarcio di cielo scuro e barocco, pareva la porta d'accesso a un'altra dimensione, incastonata tra la mole bianca del Vittoriano e, giù all'orizzonte, la sagoma del teatro di Marcello. Uno scenario che ho brevemente contemplato in compagnia di madama Lucrezia, una vecchia amica di pietra con la quale non conversavo più da parecchi anni e che mi ha fatto piacere ritrovare.
Quindi io ed il centauro, appiedati, ci siamo avviati verso il Campidoglio: superata l'Ara Coeli, abbiamo salito la scalinata tra i leoni di pietra, oltrepassando Cola di Rienzo, fino ad arrivare ai Dioscuri e al palcoscenico di una delle piazze più belle del mondo.
Davanti a tanta magnificenza il centauro ha sospirato.
"Che pena, pensare che ora qui c'è Alemanno."
"Ma chissenefrega" ho replicato io beata. "Guarda qua: a questa piazza, a Roma, Alemanno je fa un baffo."
E mentre lo dico mi avviene qualcosa dentro: sento che è vero; e che è vero anche per me, che m'accorgo improvvisamente di esser stanca, tediata, di soffrire, e di volermene un po' fare un baffo anch'io della mia angoscia; e così, improvvisamente, lì, al suono di quelle parole, tra le logge del palazzo dei Conservatori e la felice geometria delle losanghe dello splendido cortile di Michelangelo, mi cade dal petto una parte del peso che vi grava da un po' di tempo.
Per un attimo mi brillano gli occhi, il cuore mi canta.
Prendo per mano il mio ragazzone, lo tiro. "Vieni, dai, su, andiamo a vedere come sta la rupe, che fine ha fatto" e ci infiliamo nel vicoletto di fianco al Palazzo Senatorio, costeggiando le impalcature che lo cingono e che, insieme alle luci giallognole, creano un irresistibile effetto di sottosuolo riemerso da ricordi di vecchi sceneggiati TV ambientati in una Roma misteriosa e paranormale sepolti nella mia mente dalla prima infanzia. E io sempre coi sensi amplificati scruto, osservo e annoto tutto, godendomi fin dentro i pori della pelle la percezione di essere finita in Geminus, o ne Il segno del comando.
Finito il budello, usciamo sulla balconata e ci scontriamo col panorama più mozzafiato dell'universo.
Sotto di noi, deserta, immota, e tanto vicina che pare di poter stendere una mano ed arrivare a toccarla, si offre all'abbraccio dei nostri sguardi la distesa del Foro Romano in tutta la sua secolare maestosità.
L'enorme frammento delle otto colonne del tempio di Saturno, drammaticamente e fatalmente innalzate in una vertiginosa tensione ultraterrena. E intorno, a corona, il biancore del tempio di Vespasiano e dell'arco di Settimio Severo, Più in là la basilica Giulia, il tempio dei Dioscuri, il lapis niger. Sull'estrema destra la macchia scura, mistica, del bosco sacro del Palatino.
E ovunque punteggiato di chiese: San Pietro in carcere, San Giuseppe dei falegnami, la sagoma appena percepibile di quella dei Santi Cosma e Damiano. E in lontananza, verso il Colosseo, il costone su cui si erge la basilica di Santa Francesca Romana, col suo campanile medioevale.
Per un istante mi blocco e davvero trattengo il fiato, avvinta dalla sensazione di essere immersa in un oceano primordiale, fuori dal tempo e dallo spazio.
Ma poi la mia irrequietezza riprende il sopravvento, e, non appagata nemmeno da tanta meraviglia, trascino frenetica il mio compagno di scorribande su per la salita di Monte Caprino, verso l'obiettivo ultimo del mio viaggio della memoria: il giardino della rupe Tarpea, mitico sito di sommarie esecuzioni di traditori e storica meta di coppiette in fregola amorosa. Anche della nostra, ere geologiche addietro.
Lo troviamo, come ormai da molti anni, chiuso, e in più occupato da casotti prefabbricati, camion e materiale per costruzioni. Però c'è ancora, e tra i lembi dei teli verdi che ce lo occultano alla vista cogliamo scorci che ne testimoniano l'incorrotta magia, nonostante tutto.
Ridiscendiamo fino ad una panchina alle pendici della rupe, incastonata in una nicchia di freschezza immersa nel buio.
C'è una grande pace, ed un'atmosfera arcana, densa, brulicante dell'invisibile vita che per centinaia, migliaia di anni è passata su questo colle.
Restiamo a lungo seduti sul freddo marmo, sereni, ad ascoltare il silenzio gravido di vibrazioni. Parliamo anche un poco, ci viene facile in un luogo dove ogni cosa concorre a farci sentire esseri umani in armonia, legati dalle medesime intuizioni dell'inconoscibile e dall'emozione di esser sospesi insieme sul limite dell'ignoto.
Sono momenti, questi, in cui mi sento una privilegiata, per conoscere questo familiare respiro dei secoli come può solo chi nasce e cresce nell'unicità di Roma. Dolori, angosce, tutto si lenisce, davanti alla religiosa potenza del passato che è giunto sino ai miei piedi e che ora, teso come un immenso arco, mi tiene saldamente unita alle esistenze di individui lontanissimi nel tempo, antichi e favolosi. E io respiro rinfrancata una fierezza che mi dilata i polmoni e mi rimette a posto il cuore e le viscere, ricollocando me al giusto posto nel mondo.
Tornati sulla terra e nel ventunesimo secolo ridiscendiamo ancora lentamente il colle.
Davanti al panorama del Foro esito di nuovo. Sarebbe un delitto voltargli le spalle senza sostare ancora un ultimo istante. Non posso andarmene se non me ne riempio ancora un poco gli occhi.
Così di nuovo lascio errare lo sguardo, e vagare la mente. E mi viene da pensare a come il tempo ha eroso queste costruzioni monumentali. Guerre, saccheggi, accidenti atmosferici, ne hanno devastato la grandezza e compattezza, lasciando queste vestigia quale suggestiva impronta di un solenne e bellicoso splendore ineguagliabile nella storia dell'umanità.
Ma nessun cambiamento è intervenuto nel breve intervallo della mia piccola storia personale. Le otto colonne del tempio di Saturno, e tutto ciò che le circonda, sono le medesime, identiche al periodo della mia infanzia. Non una pietra si è persa. Son passati gli anni, tanti, io sono cambiata, cresciuta, invecchiata: mi sono mossa, ho agito, sperimentato, e porto il carico di ognuno dei miei movimenti, delle mie azioni, delle mie esperienze, impresso su di me.
Invece loro sono rimaste sempre lì, e, rispetto a quel breve soffio di esistenza, immutate, immutabili.
Quest'idea esaltante mi fa girare la testa. Il formidabile tuffo in questo mare di significato mi rassicura talmente da spaventarmi e farmi sentire il bisogno di ancorarmi a qualcosa di concreto. Mi chino in avanti e appoggio il mento ad un ceppo della balaustra. E mi giro verso il mio accompagnatore: ma per un attimo accanto a me non c'è più mio marito, c'è mio padre.
Sgrano le pupille. E' avvenuto davvero. Quarant'anni sono stati cancellati, azzerati in un lampo, e adesso l'immagine attuale combacia alla perfezione con un bianco e nero di allora. Non avrei mai chiesto tanto ad una notte romana. Eppure è accaduto l'insperabile, l'inconcepibile. Il tempo ha volato a ritroso, e io sono tornata bambina.
(Però poi, azz', l'attacco di artrosi cervicale m'è venuto lo stesso...)
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domenica 7 agosto 2011
Riflessioni di una mente pericolosa/2
Forse la gente si spaventa di essere amata, ancor più di quanto non si spaventi di amare. E' che non ci sono abituati, tutto qua.
sabato 6 agosto 2011
Gorilla nella nebbia
Mezzatazza m'ha invitata su Google+.
Fico!
Ora ho un altro spazio virtuale dove muovermi a tentoni senza capirci una mazza.
Fico!
Ora ho un altro spazio virtuale dove muovermi a tentoni senza capirci una mazza.
giovedì 4 agosto 2011
Camminare insieme
"Mi vuoi accompagnare a casa?"
Lo bisbigliò quasi, con la voce di un bambino che ha paura del buio.
Misi il piede sul primo scalino e mi fermai. Gli avrei fatto attraversare la nostra casa, ma non lo avrei potuto condurre a casa sua.
"Signor Arthur, pieghi il suo braccio, qui, così: ecco, così, signore."
Infilai la mano nel cavo del suo braccio.
Lui dovette curvarsi un pochino, per poter camminare con me, ma se miss Stephanie Crawford fosse stata a guardare dalla finestra del piano di sopra, avrebbe visto Arthur Radley che mi scortava sul marciapiede come avrebbe fatto qualsiasi gentiluomo.
Giungemmo al lampione, all'angolo: quante volte Dill e io eravamo stati fermi là, abbracciando il grosso palo, osservando, aspettando, sperando? Quante volte Jem e io avevamo fatto quel percorso? Entrai nel giardino dei Radley per la seconda volta in vita mia. Boo e io salimmo gli scalini che conducevano al portico. Le sue dita trovarono la maniglia della porta; lui lasciò andare dolcemente la mia mano, aprì la porta, entrò e la richiuse. Non lo vidi mai più.
I vicini portano dei cibi quando qualcuno muore, fiori quando siamo malati e piccoli doni nelle occasioni intermedie. Boo era nostro vicino. Ci aveva regalato due figurine di sapone, un orologio rotto con la catena, un paio di monetine portafortuna, e le nostre vite. Ma i vicini ricambiano i doni. Noi, invece, non avevamo mai rimesso nel tronco dell'albero quel che vi avevamo preso: non gli avevamo regalato niente, e questo mi rendeva triste.
(...)
Atticus aveva ragione. Una volta aveva detto che non si conosce realmente un uomo se non ci si mette nei suoi panni e non ci si va a spasso.
mercoledì 3 agosto 2011
Perché?
Quando la musica è la tua voce, e parla parole, canta domande, chiede risposte che si sa che non verranno.
martedì 2 agosto 2011
C'era una volta
Venerdì notte scorso, scesa per prima dalla macchina nel buio fitto della verzura ciociara brandendo una torcia accesa onde evitare di finire a faccia avanti sui gradoni del portico, la figlia giacobina prima borbotta qualcosa a proposito di roba viva addossata al bordo del portoncino d'ingresso e poi caccia un urlo che dalle pendici della mezza collina dove la nostra casetta rosa sta abbarbicata lambisce le cime degli appennini lontani all'orizzonte e ci fa accapponare la pelle.
Che è? Vociamo noi a nostra volta con i capelli ritti.
"Un topo" bercia lei inquieta e irritata "o piuttosto un rospo. Sì, è troppo lento, è troppo tondo: dev'essere un rospo."
Ferma restando la nostra meraviglia sulla capacità di un rospo non tanto di saltellare dal fiume, un paio di chilometri a valle, sino alla nostra proprietà, quanto di riuscire a salire la veranda centrando gli scalini, ci avviciniamo e constatiamo che sì, effettivamente, c'è un rospo davanti alla porta.
Un grosso rospo. Grigio, livido sotto la luce della luna, e gonfio.
E' la prima volta che, in più di vent'anni di frequentazione del luogo, ci imbattiamo in un rospo appoggiato al muro di casa.
Mi viene da vomitare al solo buttarci un'occhiata. Se fosse una palla morta, non mi farebbe tanta impressione. Ma è vivo. Devo girare la testa, perché se lo vedessi muoversi mi sembrerebbe di sentirmelo addosso, viscido, repellente. Bleah.
Grido anch'io un po', tanto per fare scena, e per richiamare i prodi maschi di casa, soprattutto perché è passata mezzanotte, saranno quindici gradi, è umido e voglio entrare dentro per evitare di morire congelata nella mia scamiciata con le bretelline.
Arriva prima il figlio naturalista, che con placido interesse ed estrema attenzione lo esamina, affascinato.
"Sbrigati!" strilliamo noi parte femminile della famiglia. "Fa' qualcosa, portalo via!"
Il giovane non trova di meglio da fare che provare a stimolare la motilità del rospo mediante una lieve pressione di spinta effettuata sul corpo del medesimo con una scopa trovata nei pressi. La qual cosa per fortuna non sortisce effetti, ma fa lo stesso intensificare i nostri strilli, al pensiero che l'animale, così sollecitato, faccia un paio di zompi nella nostra direzione.
La giostra continua così per una decina di minuti. Il tempo, per il plantigrado capofamiglia, di andare con la massima calma ad aprire la sottostante cantina e riemergerne brandendo una pala. Con la quale raccoglie il rospo come se fosse un mucchio di letame, e lo lancia al di là della rete di recinzione.
Noi tutti rabbrividiamo, attendendo uno "splash" che per fortuna non arriva.
"Ma papà, che cavolo, l'hai spiaccicato" protesta vibrante il naturalista.
"Macché" replica sereno il genitore. "Quello sta meglio di me. Sarà già tornato al fiume."
Fine dell'interludio, si può accedere alla dimora senza ostacoli.
E mentre mi avvio veloce verso l'entrata, storcendomi una caviglia nell'erba rugiadosa, penso che una come me, se le fanno tanto schifo i rospi, non può poi lamentarsi di non aver mai incontrato un principe.
lunedì 1 agosto 2011
Per te, Eli
Ho una bella fanciulla
simile nell'aspetto ai fiori d'oro,
la mia Cleide diletta.
Io non la darei né per tutta la Lidia
né per l'amata...
Mystic pizza
Dopo un inizio sfolgorante, il luglio appena finito mi ha portato tante inquietudini e troppi rimescolamenti emotivi: tempeste in un bicchier d'acqua che hanno sollevato il mio fondale psichico come uno tsunami, ottovolanti su cui sono andata su e giù senza riuscire a fermarmi, provando nausea e paura.
Sono passata attraverso un mutamento violento e rapido, come stessi attraversando un deserto sotto il sole cocente sballottata sul dorso di un cammello con l'andatura di un destriero.
Avessi dovuto affrontare tutto questo in solitudine, non so se ce l'avrei fatta.
E invece ho fatto il guado in compagnia di molte presenze che, giorno dopo giorno, in varie circostanze, per lo più inaspettatamente, a partire dall'inizio di quei giorni belli, mi hanno teso la mano.
Per ottimi motivi, se ho amato sempre appassionatamente, di amore struggente, la metà maschile dell'universo, ho sempre diffidato del genere femminile. Ho avuto fin da giovanissima, ed ho tuttora, grosse remore e timori persino con la parte femminile di me stessa.
Eppure, se ho attraversato questo tratto di fuoco uscendone quasi del tutto indenne, lo devo ad una piccola frotta di donne che in questo mese mi è venuta incontro e ha condiviso dei momenti di vita con me.
Donne che mi hanno vista, guardata, scrutata con sguardo amorevole e complice.
Che mi hanno ascoltata, confortata, capita. Che mi hanno fatto riflettere, emozionare, e, a volte, ridere tra le lacrime. Che mi hanno aperto il cuore, rivelando con pudore, semplicità, delicatezza, le loro affinità con la mia esperienza, e non mi hanno fatto sentire più sola, alleggerendomi il giogo.
E' stato così che, in questo riappropriarmi di me stessa, in questo doloroso riversare dentro e fuori il groviglio di bene e male che ho tenuto compresso e celato per i lunghi anni in cui sono stata come morta, ho finalmente scoperto l'arcana e magica forza della sorellanza.
Per ottimi motivi, se ho amato sempre appassionatamente, di amore struggente, la metà maschile dell'universo, ho sempre diffidato del genere femminile. Ho avuto fin da giovanissima, ed ho tuttora, grosse remore e timori persino con la parte femminile di me stessa.
Eppure, se ho attraversato questo tratto di fuoco uscendone quasi del tutto indenne, lo devo ad una piccola frotta di donne che in questo mese mi è venuta incontro e ha condiviso dei momenti di vita con me.
Donne che mi hanno vista, guardata, scrutata con sguardo amorevole e complice.
Che mi hanno ascoltata, confortata, capita. Che mi hanno fatto riflettere, emozionare, e, a volte, ridere tra le lacrime. Che mi hanno aperto il cuore, rivelando con pudore, semplicità, delicatezza, le loro affinità con la mia esperienza, e non mi hanno fatto sentire più sola, alleggerendomi il giogo.
E' stato così che, in questo riappropriarmi di me stessa, in questo doloroso riversare dentro e fuori il groviglio di bene e male che ho tenuto compresso e celato per i lunghi anni in cui sono stata come morta, ho finalmente scoperto l'arcana e magica forza della sorellanza.
Tenera nemica
E' dura, con una giacobina per casa.
Figlia, mia cara
come sabbia al sole
sei d'oro
Tu, figlia
piccola mia luna
misteriosa per me
Sorrisi
ed improvvise lacrime
Silenzi
e sguardi ostinati e allegria
Mia cara,
prendi le mie ali e vola
lontano da me.
Figlia, mia cara
prepotente e fragile
sei mia
Tu, figlia
tenera nemica
sconosciuta per me
Mi parli
Fiumi di parole e poi
segreti
e sogni speranze e timori
Mia cara,
prendi le mie ali e vola
lontano da me.
Ti guardo
Come mi assomigli,
la rabbia
la mia stessa malinconia
Mia cara,
prendi le mie ali e vola
lontano da me.
Figlia, mia cara
come sabbia al sole
sei d'oro
Tu, figlia
piccola mia luna
misteriosa per me
Sorrisi
ed improvvise lacrime
Silenzi
e sguardi ostinati e allegria
Mia cara,
prendi le mie ali e vola
lontano da me.
Figlia, mia cara
prepotente e fragile
sei mia
Tu, figlia
tenera nemica
sconosciuta per me
Mi parli
Fiumi di parole e poi
segreti
e sogni speranze e timori
Mia cara,
prendi le mie ali e vola
lontano da me.
Ti guardo
Come mi assomigli,
la rabbia
la mia stessa malinconia
Mia cara,
prendi le mie ali e vola
lontano da me.
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