mercoledì 10 agosto 2011

Sogno di una notte di mezz'estate

Qualche sera fa, per arginare la sconfortante malinconia agostana che puntuale ogni anno mi si ripropone e che si accentua al calar delle tenebre, invece di consumarmi gli occhi a srotolare vecchie conversazioni di skype od obnubilarmi il cervello guardando lo scorrere del rullo della home di FaceBook m'è venuto in testa di tuffarmi nella notte di Roma. Antica.
Così, verso le undici, ho cominciato a far le feste al consorte: "Usciamo? Mi porti al Campidoglio? Andiamo a vedere la rupe Tarpea?"
Il grande lavoratore, rincasato da poco, col boccone ancora sullo stomaco e il peso di mesi di lavoro sulle spalle, nicchiava sbuffando. Non gli andava, non gli andava proprio. Invece di rovine bimillenarie avrebbe voluto guardare, come ogni sera, gli specchi dell'armadio della camera da letto: in penombra, da supino, per quei trenta secondi necessari a chiudere gli occhi e sprofondare, da giusto qual è, nel solito sonno di piombo.
Io però non demordevo, presa dall'urgenza di sottrarmi, per una sera, al dibattermi in quella sottile e familiarissima angoscia che sentivo già salirmi come l'acqua alla gola.
Dopo più di una mezz'oretta di tiraemolla, lo streaming di Profondo Rosso sulla TV del salotto davanti alla quale si erano spaparanzati i figli con gli amici ("mamma" avevano detto "possiamo far venire a dormire da noi Simone e Carlo?" che tradotto s'intendeva "possiamo fare tutta la notte a pistolettate sulla PS3, a scorpacciate di film su TV e pc, a pancakes con sciroppo d'acero e zucchero vanigliato e Nutella e poi, in quest'ordine, a spaghettate ajo ojo e peperoncino zozzando tutta la cucina che in seguito TU pulirai, a chiacchiere sulla veranda fino a mattina inoltrata, per quindi, dopo esserci gettati di nuovo su altri generi commestibili intorno all'ora di pranzo, cadere stecchiti tutti, noi e loro, su letti e divani random oltre le cinque del pomeriggio seguente?") ha convinto il coniuge recalcitrante che era preferibile mettersi semi incosciente alla guida di uno scooterone a mezzanotte meno venti piuttosto che restare a rigirarsi nel letto sorbendosi urla da thriller ultratrentennale con il sottofondo della musichetta allucinante dei Goblin. Così siamo partiti.
Alla prima curva, sentendo l'arietta umida che mi solleticava l'artrosi cervicale nell'impatto tra le mie scapole scoperte dalla canottiera di cotone indiano e maledicendo l'adolescenziale imprevidenza di non essermi portata il giacchettino (atavica sventatezza per cui già ai tempi mi rimproverava sempre mia nonna), constatavo al contempo sulla mia pelle l'anomalia climatica di questa estate insolitamente fresca, non scontata come molte altre della mia vita passata e allora, forse, chissà, davvero potenzialmente foriera di novità atmosferiche - in senso proprio e metaforico, le quali io sto sempre protesa a fiutare come una mambo vudù  - che mi ha allertata e spinta ad aprire al massimo i canali sensuali e psichici.
In un baleno, percorrendo le strade semideserte, siamo arrivati a piazza Venezia, che il mio centauro ha costeggiato parcheggiando sull'adiacente piazzetta antistante la chiesa di San Marco, di fronte allo slargo di giorno più ingolfato di Roma, che a quell'ora, vuoto e tranquillo, tra i sampietrini lustri che riflettevano le luci dei semafori e lo squarcio di cielo scuro e barocco, pareva la porta d'accesso a un'altra dimensione, incastonata tra la mole bianca del Vittoriano e, giù all'orizzonte, la sagoma del teatro di Marcello. Uno scenario che ho brevemente contemplato in compagnia di madama Lucrezia, una vecchia amica di pietra con la quale non conversavo più da parecchi anni e che mi ha fatto piacere ritrovare.
Quindi io ed il centauro, appiedati, ci siamo avviati verso il Campidoglio: superata l'Ara Coeli, abbiamo salito la scalinata tra i leoni di pietra, oltrepassando Cola di Rienzo, fino ad arrivare ai Dioscuri e al palcoscenico di una delle piazze più belle del mondo.
Davanti a tanta magnificenza il centauro ha sospirato.
"Che pena, pensare che ora qui c'è Alemanno."
"Ma chissenefrega" ho replicato io beata. "Guarda qua: a questa piazza, a Roma, Alemanno je fa un baffo."
E mentre lo dico mi avviene qualcosa dentro: sento che è vero; e che è vero anche per me, che m'accorgo improvvisamente di esser stanca, tediata, di soffrire, e di volermene un po' fare un baffo anch'io della mia angoscia; e così, improvvisamente, lì, al suono di quelle parole, tra le logge del palazzo dei Conservatori e la felice geometria delle losanghe dello splendido cortile di Michelangelo, mi cade dal petto una parte del peso che vi grava da un po' di tempo.
Per un attimo mi brillano gli occhi, il cuore mi canta.
Prendo per mano il mio ragazzone, lo tiro. "Vieni, dai, su, andiamo a vedere come sta la rupe, che fine ha fatto" e ci infiliamo nel vicoletto di fianco al Palazzo Senatorio, costeggiando le impalcature che lo cingono e che, insieme alle luci giallognole, creano un irresistibile effetto di sottosuolo riemerso da ricordi di vecchi sceneggiati TV ambientati in una Roma misteriosa e paranormale sepolti nella mia mente dalla prima infanzia. E io sempre coi sensi amplificati scruto, osservo e annoto tutto, godendomi fin dentro i pori della pelle la percezione di essere finita in Geminus, o ne Il segno del comando.
Finito il budello, usciamo sulla balconata e ci scontriamo col panorama più mozzafiato dell'universo.
Sotto di noi, deserta, immota, e tanto vicina che pare di poter stendere una mano ed arrivare a toccarla, si offre all'abbraccio dei nostri sguardi la distesa del Foro Romano in tutta la sua secolare maestosità.
L'enorme frammento delle otto colonne del tempio di Saturno, drammaticamente e fatalmente innalzate in una vertiginosa tensione ultraterrena. E intorno, a corona, il biancore del tempio di Vespasiano e dell'arco di Settimio Severo, Più in là la basilica Giulia, il tempio dei Dioscuri, il lapis niger. Sull'estrema destra la macchia scura, mistica, del bosco sacro del Palatino.
E ovunque punteggiato di chiese: San Pietro in carcere, San Giuseppe dei falegnami, la sagoma appena percepibile di quella dei Santi Cosma e Damiano. E in lontananza, verso il Colosseo, il costone su cui si erge la basilica di Santa Francesca Romana, col suo campanile medioevale.
Per un istante mi blocco e davvero trattengo il fiato, avvinta dalla sensazione di essere immersa in un oceano primordiale, fuori dal tempo e dallo spazio.
Ma poi la mia irrequietezza riprende il sopravvento, e, non appagata nemmeno da tanta meraviglia, trascino frenetica il mio compagno di scorribande su per la salita di Monte Caprino, verso l'obiettivo ultimo del mio viaggio della memoria: il giardino della rupe Tarpea, mitico sito di sommarie esecuzioni di traditori e storica meta di coppiette in fregola amorosa. Anche della nostra, ere geologiche addietro.
Lo troviamo, come ormai da molti anni, chiuso, e in più occupato da casotti prefabbricati, camion e materiale per costruzioni. Però c'è ancora, e tra i lembi dei teli verdi che ce lo occultano alla vista cogliamo scorci che ne testimoniano l'incorrotta magia, nonostante tutto.
Ridiscendiamo fino ad una panchina alle pendici della rupe, incastonata in una nicchia di freschezza immersa nel buio.
C'è una grande pace, ed un'atmosfera arcana, densa, brulicante dell'invisibile vita che per centinaia, migliaia di anni è passata su questo colle.
Restiamo a lungo seduti sul freddo marmo, sereni, ad ascoltare il silenzio gravido di vibrazioni. Parliamo anche un poco, ci viene facile in un luogo dove ogni cosa concorre a farci sentire esseri umani in armonia, legati dalle medesime intuizioni dell'inconoscibile e dall'emozione di esser sospesi insieme sul limite dell'ignoto.
Sono momenti, questi, in cui mi sento una privilegiata, per conoscere questo familiare respiro dei secoli come può solo chi nasce e cresce nell'unicità di Roma. Dolori, angosce, tutto si lenisce, davanti alla religiosa potenza del passato che è giunto sino ai miei piedi e che ora, teso come un immenso arco, mi tiene saldamente unita alle esistenze di individui lontanissimi nel tempo, antichi e favolosi. E io respiro rinfrancata una fierezza che mi dilata i polmoni e mi rimette a posto il cuore e le viscere, ricollocando me al giusto posto nel mondo.

Tornati sulla terra e nel ventunesimo secolo ridiscendiamo ancora lentamente il colle.
Davanti al panorama del Foro esito di nuovo. Sarebbe un delitto voltargli le spalle senza sostare ancora un ultimo istante. Non posso andarmene se non me ne riempio ancora un poco gli occhi.

Così di nuovo lascio errare lo sguardo, e vagare la mente. E mi viene da pensare a come il tempo ha eroso queste costruzioni monumentali. Guerre, saccheggi, accidenti atmosferici, ne hanno devastato la grandezza e compattezza, lasciando queste vestigia quale suggestiva impronta di un solenne e bellicoso splendore ineguagliabile nella storia dell'umanità.
Ma nessun cambiamento è intervenuto nel breve intervallo della mia piccola storia personale. Le otto colonne del tempio di Saturno, e tutto ciò che le circonda, sono le medesime, identiche al periodo della mia infanzia. Non una pietra si è persa. Son passati gli anni, tanti, io sono cambiata, cresciuta, invecchiata: mi sono mossa, ho agito, sperimentato, e porto il carico di ognuno dei miei movimenti, delle mie azioni, delle mie esperienze, impresso su di me.
Invece loro sono rimaste sempre lì, e, rispetto a quel breve soffio di esistenza, immutate, immutabili.

Quest'idea esaltante mi fa girare la testa. Il formidabile tuffo in questo mare di significato mi rassicura talmente da spaventarmi e farmi sentire il bisogno di ancorarmi a qualcosa di concreto. Mi chino in avanti e appoggio il mento ad un ceppo della balaustra. E mi giro verso il mio accompagnatore: ma per un attimo accanto a me non c'è più mio marito, c'è mio padre.
Sgrano le pupille. E' avvenuto davvero. Quarant'anni sono stati cancellati, azzerati in un lampo, e adesso l'immagine attuale combacia alla perfezione con un bianco e nero di allora. Non avrei mai chiesto tanto ad una notte romana. Eppure è accaduto l'insperabile, l'inconcepibile. Il tempo ha volato a ritroso, e io sono tornata bambina.




(Però poi, azz', l'attacco di artrosi cervicale m'è venuto lo stesso...)

3 commenti:

  1. Che bella, Roma di notte. Che belli voi, l'altra notte. Trascinalo fuori più spesso (e fai pulire la cucina ai figli).

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  2. Ha ragione Eli! Chi zozza pulisce e voi due andate più spesso a spasso! :D

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  3. Avete ragione tutt'e due! Su tutto! :D
    Lo farò. Promesso.
    Però almeno una volta voglio tornarci lì, di nuovo, insieme a voi, tutte/i insieme. Incrocio le dita, chiudo gli occhi ed esprimo un desiderio... ^^

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