Vent'anni fa passai la notte sprofondata in un sonno saporosissimo; la prima dopo molte notti difficili e molti giorni ansiogeni e pieni di rovelli.
La mattina dopo mi sarei pazientemente sottoposta a torture assortite da parte di un parrucchiere e della mia truccatrice di fiducia, la mia amica organizzatrice di eventi; poi mi sarei infilata tutta vestita di bianco in una macchina e da lì nella Basilica di Santa Maria Maggiore gremita di turisti.
Sarei finita, tra l'altro, nei ricordi di Roma di una coppia di giapponesi che mi avrebbero scattato un intero rullino di foto.
Insieme ad uno che sopporta ogni mia stramberia, che mi consola, mi protegge, che alle volte si incazza pure, ma poi, quando mi vede tornare in me, sorride. Quasi sempre. Ma sempre mi aspetta, paziente.
Perché io parto per le mie circumnavigazioni terracquee, mi inoltro in selve inesplorate, mi ficco in pozzi profondi, mi sporgo sull'orlo di burroni perigliosi, ma poi, finito il giro, un po' acciaccata, sempre lì ritorno.
Da uno che non disdegnerebbe di cantarla, una canzone così.
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