giovedì 14 luglio 2011

Funeral party/2

Del secondo funerale si è occupata di darmi notizia e puntuali informazioni (evento luttuoso scatenante, chiesa, orario et cetera) quella che tra noi è storica factotum e trait d'union, organizzatrice di rimpatriate per ogni occasione lieta o dolente, truccatrice della mia faccia al mio matrimonio, madrina di battesimo di mia figlia. La quale (madrina, non figlia) non vedevo da un paio d'anni, e non sentivo dall'SMS di auguri di Pasqua. Mandato da lei.
Invece l'amica colpita dal lutto l'avevo incontrata l'ultima volta una sera di gennaio di otto anni or sono proprio ad uno dei raduni allestiti dalla nostra infaticabile event planner a casa sua.
(Il tempo vola. Ed il rassicurante luogo comune non basta ad alleviare il senso di vertigine che mi dà il suono di queste parole.) 
Dunque, pur sapendo che stavolta, placcata dall'organizzatrice, non avrei avuto lo spirito di cercare una scusa per esimermi dall'intervenire, d'altro canto mi ero fatta l'idea che se ero rimasta indifferente alla morte di venti giorni prima, figurarsi con che assoluta atarassia avrei assistito alle esequie funebri di un tizio a cui avevo parlato meno di dieci volte nel corso della mia adolescenza e con cui non avevo contatti da decenni.
Così nelle prime ore di una lustra mattinata di fine settimana, con un congruo anticipo sull'ora fissata per la cerimonia e nonostante questo già tampinata al cellulare dalla manager che voleva sapere dov'ero, se non m'ero persa, e anche quale delle letture avrei preferito leggere in chiesa (e io, presa in contropiede, figurandomi atterrita la visione delle mie morbide carni, scoperte dalla microgonna bianca, esposte sul pulpito davanti a tutti i convenuti e al morto nella bara, la sfangavo balbettando impedimenti nella vista per la mia presbiopia), ho parcheggiato l'auto in prossimità di un ampio ed ameno belvedere, e poi via a piedi per quella che mi si presentava come una passeggiata tra suoni e colori vivaci e una brezza carezzevole che avrebbe spazzato via il malumore accumulato nei giorni precedenti.
E invece non avevo fatto cento metri che già m'era salito un groppo in gola. E ho capito che questo s'avviava a diventare un funerale diverso da molti altri.
Sono arrivata davanti alla chiesa in orario perfetto, accolta dall'organizzatrice mestamente sorridente. L'ultima volta che l'avevo vista m'era parsa stanca, invecchiata, e invece ora la ritrovavo smagliante, ringiovanita, i bei capelli curati, i bellissimi occhi verdi che mi scrutavano affettuosi e un poco preoccupati.
Un minuto dopo sono arrivati il carro funebre e l'auto della famiglia del defunto, da cui è scesa l'altra mia compagna.
E' stato come se uscisse dalla fotografia che ne serbavo nella memoria: la stessa aria pulita ed ordinata, e tenera ed efficiente, le stesse labbra strette in quella tipica espressione di disapprovazione che tanto spesso mi aveva rivolto da ragazza, serrate, in quel momento, per non cedere al pianto, le stesse grandi pupille celesti chiarissime, spalancate come di candida meraviglia, gli stessi capelli biondi e fini appena spolverati di grigio, la stessa buffa vocetta cantilenante, un poco incrinata, che ripeteva "non bisogna piangere, non bisogna piangere", in un modo che scoprivo tanto familiare e perciò straziante, tanto da disubbidirle coscienziosamente, ora come allora, quando mi reputava una sorta di piccola selvaggia che la faceva stizzire con comportamenti inappropriati, e scoppiare in lacrime non appena arrivavo a toccarla.
Da lì mi sono abbandonata a braccia aperte, appassionatamente, allo spleen. Trascinata al secondo banco dalla premurosa organizzatrice, incuneata tra quella al fianco e l'altra davanti, in pieno déjà vu, mentre una dopo l'altra mi fluivano alle labbra, dopo un decennio in cui m'ero disabituata al loro suono, tutte le parole della liturgia, ho versato un delirio di lacrime, soffocando i singhiozzi, guardando la bara. Parevo affranta, inconsolabile, più dei familiari e dei parenti stretti.
E lo ero, in effetti.
Perché mi ero arresa, e mi accingevo a celebrare con tutti gli onori il funerale della mia giovinezza, e aprire lo spiraglio all'accoglienza della vecchiaia e alla rassegnazione della morte. O perlomeno all'idea di essa. E mi si schiantava il cuore.
Guardavo la bara, e in quella bara c'era il cadavere del tempo passato in un soffio, un salto fulmineo di vita che mi spauriva, l'ebbrezza della discrasia tra la percezione di uno ieri così lontano, perduto, e la sensazione che eppure fosse così ancora tanto vicino, circolante tra noi tre, che bastasse stendere una mano per toccarlo e riappropriarsene, e la disperazione della consapevolezza dell'illusione di tutto questo. 
Piangevo di dolcezza, e di dolore e di rabbia per l'ingiustizia di essere così drammaticamente scissa tra la me stessa concreta, con la mia età terrestre, e l'essenza di me, immutata, fresca, bella, piena di vita e di speranza e di fiducia nell'avvenire come in un attimo sfolgorante di infinito ed eterno presente.

Pian piano mi sono acquietata, e il parossismo di sofferenza s'è spento in una tristezza che mi s'è posata sul petto come un coltello, tanto da farmi male a respirare.

Poi finalmente, fuori dalla chiesa, abbiamo trovato un momento per ritrovarci insieme. Le mie amiche, quasi dimentiche della tragica circostanza, mi fissavano attente, incuriosite. 
Io ho chiesto scusa per i miei eccessi, ho spiegato che già da qualche tempo ero malinconica, che non sapevo che caspita m'era preso, che dovevano essere gli ormoni, o i figli cresciuti, o l'incapacità di accettare l'idea del tempo che era passato, dei trent'anni che erano caduti addosso alla nostra gioventù come un macigno staccatosi dal costone di una montagna.

E nello spiegare m'animavo, gesticolando, come al mio solito. Finché la compagna colpita dal lutto ha sorriso di un sorriso grande, carnivoro, e ha detto con forza, e con una sorta di gioiosa ferocia nella voce, come se con quelle parole avesse voluto azzerare il tempo e, almeno per un istante, tornare indietro, riavvolgere il nastro del film a quando eravamo insieme a scuola, e il nostro futuro era tutto da scrivere, e niente di doloroso e faticoso ci era ancora stato calato sulle spalle, e il suo papà era ancora un papà vivo, giovane, infaticabile, e aveva cura delle sue figlie ancora spensierate: "Cri è sempre la nostra Cri: un'adolescente. La stessa di trent'anni fa."

E' stato un colpo di fulmine che lì per lì mi ha lasciato a bocca aperta. Poi ho sorriso anch'io, e mi sono lasciata trasportare dal magico auspicio di quelle parole, e dalla richiesta che a quelle parole era sottesa: "Tu che puoi crederci ancora, tu che ce la fai, torna ad essere quella che eri, e, ti prego, portaci con te."

Così, piena di gratitudine, l'ho accontentata. Ho annuito, ho chiuso gli occhi e, abbracciandole forte, le ho portate con me.  


Da ultimo ci siamo ritrovate sole, io e la madrina organizzatrice, sotto il sole del belvedere.


"Davvero, Cri, sei sempre uguale a quando eravamo al liceo" ha detto carezzandomi con lo sguardo. Il pensiero peregrino di vivere circondata da glaucopidi senza mai essermene resa conto mi ha attraversato in un lampo la mente. Anche questa era glaucopide, come l'altra. Lo era sempre stata, lo era ancora. E aveva davvero degli occhi meravigliosi. 


"E tu sei bellissima, Pà" mi sono emozionata. "Sei la stessa bellissima ragazza di allora."


Lei ha abbassato appena la testa, nascondendo un sorrisetto malizioso e un po' commosso.


"Tutta pittura."

2 commenti:

  1. Scrivi proprio bene, te lo hanno detto?
    E per quell'unica sera in cui ci siamo incontrate non ho stentato un attimo a capire il groviglio di sentimenti che ti ha attanagliato.
    Commovente, ma pieno anche di un magnifico sorriso ( che poi è la vita).
    Luz

    RispondiElimina
  2. Grazie, Luz, mi commuovo (davvero :) )

    Non so se è scritto bene, a me pareva piuttosto intorcinato... Ma dentro c'è la verità di quello che sento.

    :*

    RispondiElimina