Qualche giorno fa sono stata al funerale del papà di una mia antica compagna di liceo.
E' stato il secondo di un conoscente defunto all'improvviso in meno di venti giorni.
Officiato, come l'altro, in una cittadina dei Castelli Romani.
Il primo, quello del collega deceduto in circostanze assurde dopo un mese e mezzo d'ospedale, l'avevo lisciato, adducendo problemi di salute fisica e psichica.
(Conseguenze del posto fisso: la vita lavorativa di un impiegato della pubblica amministrazione coincide per un così ampio tratto col percorso della sua vita privata, ufficializzato in ogni tappa - lauree, matrimoni, nascite di figli e così via fino alla pensione - dai certificati e permessi che vanno man mano ad ingrossare la scarna cartella personale degli inizi, che a volte, tra altri vari accidenti ed accadimenti, giunge ad includere l'esperienza della morte; anche se non abbastanza spesso quanto gioverebbe al risanamento delle casse dell'INPS.)
Questo collega era ancora relativamente giovane, e non affetto da alcuna patologia che facesse presagire la sua fine, prima di contrarre l'infezione che l'ha spento in sei settimane.
Ricordo l'ultima volta in cui ne ho sentito la voce - che già non era più quell'allegro latrato da cagnone con la lingua di fuori, e aveva invece assunto un irriconoscibile tono flebile e fesso che mi era subito parso foriero di malaugurio - quel sabato mattina di maggio in cui mi aveva chiamata al cellulare per avvertirmi che era uno straccio, che la febbre non gli passava, che stava cercando di farsi ricoverare e che pertanto il lunedì successivo non avrebbe potuto essere presente in ufficio.
Fino a quel momento, dagli ultimi tre anni, aveva lavorato gomito a gomito con me, che fungevo da suo supervisore, vari giorni a settimana, in principio urtandomi costantemente i nervi, abbondante, agitato, affettuoso, caciarone e pasticcione. Ma poiché apparteneva a quella variegata umanità di semplici senza eccelse potenzialità né aspirazioni che volontariamente non avrei mai approcciato e che invece il mio lavoro mi ha costretto a frequentare, avevo dovuto ritagliargli nella mia vita uno spazio dove non fosse troppo d'ingombro, sì da permettermi di non detestarlo e magari anche consentirmi di affezionarmici almeno un poco; e così, nonostante le impuntature ch'egli di frequente prendeva su risibili questioni circa lo svolgimento dei suoi modesti compiti e ch'erano causa di aspri battibecchi tra noi, lui in un baleno fuori dai gangheri, io oscillante tra pena ed irritazione - e che comunque non mi infastidivano quanto il fervore che metteva in certi suoi improvvidi tentativi di ostentarsi capace di gestire questioni di lavoro oltre le sue competenze o anticipare le mie decisioni senza la misura né il giudizio per riuscirvi - m'ero infine rassegnata a volergli il piccolo ma sincero bene che si vuole ad un familiare suppellettile compreso nel proprio orizzonte, parte del paesaggio esistenziale.
Eppure nell'apprendere l'incredibile notizia della sua dipartita, mentre gli altri vagavano palesemente sgomenti per i corridoi d'ufficio, scuotevano la testa, piangevano, non mi sono minimamente scomposta. Non sentivo alcunché tranne un senso di nausea, certo dovuto alla mia ipocondriaca somatizzazione di sintomi della malattia che l'aveva ucciso piuttosto che all'effetto del dispiacere per la sua scomparsa. E a distanza di qualche settimana la straordinaria assenza di reazioni appropriate - nessun dolore, nessun senso di mancanza - persiste, accompagnata da bizzarre considerazioni piene di cinismo, del genere "beh, perlomeno ora gli altri suoi pari grado faranno meno storie, visto che potranno spartirsi quindici ore in più di straordinario al mese" che mi frullano in testa con serena noncuranza.
(1 - continua)
Ricordo l'ultima volta in cui ne ho sentito la voce - che già non era più quell'allegro latrato da cagnone con la lingua di fuori, e aveva invece assunto un irriconoscibile tono flebile e fesso che mi era subito parso foriero di malaugurio - quel sabato mattina di maggio in cui mi aveva chiamata al cellulare per avvertirmi che era uno straccio, che la febbre non gli passava, che stava cercando di farsi ricoverare e che pertanto il lunedì successivo non avrebbe potuto essere presente in ufficio.
Fino a quel momento, dagli ultimi tre anni, aveva lavorato gomito a gomito con me, che fungevo da suo supervisore, vari giorni a settimana, in principio urtandomi costantemente i nervi, abbondante, agitato, affettuoso, caciarone e pasticcione. Ma poiché apparteneva a quella variegata umanità di semplici senza eccelse potenzialità né aspirazioni che volontariamente non avrei mai approcciato e che invece il mio lavoro mi ha costretto a frequentare, avevo dovuto ritagliargli nella mia vita uno spazio dove non fosse troppo d'ingombro, sì da permettermi di non detestarlo e magari anche consentirmi di affezionarmici almeno un poco; e così, nonostante le impuntature ch'egli di frequente prendeva su risibili questioni circa lo svolgimento dei suoi modesti compiti e ch'erano causa di aspri battibecchi tra noi, lui in un baleno fuori dai gangheri, io oscillante tra pena ed irritazione - e che comunque non mi infastidivano quanto il fervore che metteva in certi suoi improvvidi tentativi di ostentarsi capace di gestire questioni di lavoro oltre le sue competenze o anticipare le mie decisioni senza la misura né il giudizio per riuscirvi - m'ero infine rassegnata a volergli il piccolo ma sincero bene che si vuole ad un familiare suppellettile compreso nel proprio orizzonte, parte del paesaggio esistenziale.
Eppure nell'apprendere l'incredibile notizia della sua dipartita, mentre gli altri vagavano palesemente sgomenti per i corridoi d'ufficio, scuotevano la testa, piangevano, non mi sono minimamente scomposta. Non sentivo alcunché tranne un senso di nausea, certo dovuto alla mia ipocondriaca somatizzazione di sintomi della malattia che l'aveva ucciso piuttosto che all'effetto del dispiacere per la sua scomparsa. E a distanza di qualche settimana la straordinaria assenza di reazioni appropriate - nessun dolore, nessun senso di mancanza - persiste, accompagnata da bizzarre considerazioni piene di cinismo, del genere "beh, perlomeno ora gli altri suoi pari grado faranno meno storie, visto che potranno spartirsi quindici ore in più di straordinario al mese" che mi frullano in testa con serena noncuranza.
(1 - continua)
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