Una grande dolcezza, una pacata soavità, rallentavano ogni gesto di Anna Carla. Ne era lei stessa consapevole, e felice in un modo anch'esso attutito, ovattato, come se le fosse appena nevicato dentro. Attraverso quel suo filtro di segreto silenzio fluivano i suoni, le parole, del mondo di fuori, lasciando scorie preziose, tintinnii di posate d'argento, freschezze d'acqua versate in un bicchiere di cristallo, la voce di Vittorio che parlava di Francoforte.
- Ma è proprio tanto brutta, Francoforte? - gli chiese, pensando a Corso Belgio. Le pareva impossibile che ci fossero città brutte, uomini cattivi, guerre, rivoluzioni.
- E' un posto dove nessuno andrebbe se non dovesse farci degli affari.
Ma anche gli affari, pensò Anna Carla, erano poi così intrinsecamente squallidi? Grandi pittori veneti, toscani, olandesi, avevano pur saputo strappare colori e luci e volti e mani memorabili al passaggio da paese a paese, da uomo a uomo, di merci e di ricchezze. Che c'era di "brutto" in un libretto di assegni? In una riunione nella hall di un albergo di Francoforte o di New York? Tutto dipendeva da te, da come guardavi le cose, e molti filosofi l'avevano detto e dimostrato. Si propose di risfogliare una storia della filosofia, in biblioteca qualcosa doveva esserci.
- E quand'è che ci vai?
- Martedì, - rispose Vittorio. - Starò via tre o quattro giorni.
Se aveva una ragazza (era bello, era simpatico, che le si fosse presentata spontaneamente quella parola - notò - anziché l'altra, "amante"), se aveva una ragazza ne avrebbe approfittato per portarsela dietro. Forse in tutti i suoi viaggi, meno quelli che faceva con Fontana e, qualche volta, con lei, Vittorio prenotava ansiosamente la cabina-letto accanto, il posto in aereo due file dopo, per questa occulta compagna che gli dava qualcosa che sua moglie non gli dava. Anna Carla non provò alcuna ostilità; neppure curiosità; solo un senso di calda, traboccante misericordia da riversare sulla ragazza, su Vittorio, su Massimo, su Zavattaro, sul Garrone, su tutti gli esseri umani impegnati a tessere e ritessere le loro tremule, fortuite ragnatele da uno spigolo all'altro della vita.
- Quindi anche domani ho paura che passerò la giornata con Fontana, - sospirò Vittorio. - Abbiamo ancora parecchie cose da preparare.
- Bella noia.
- Ti secca? Volevi andare a Stresa?
- No, era solo un mezzo impegno, telefono alla Pucci che semmai andiamo il week -end prossimo. Del resto anch'io non potrei, domani: avrò sul gobbo l'americana di Federico.
- La porti a colazione qui?
- No; ricorrerò all'inevitabile collina.
Non erano bugie, erano "aggiustamenti", colpi di pollice all'abbozzo del sabato. Forse era domani che Vittorio doveva vedere la sua ragazza; a Francoforte ci sarebbe davvero andato solo. E così stavano uno di fronte all'altra, sui lati opposti della scacchiera di lino, ciascuno muovendo le sue caute pedine. - Siamo due ignobili, due ipocriti? - si chiese con stupore Anna Carla. - La marcia coppia borghese additata all'esecrazione di tutti?
Eppure non c'era niente di deperibile, di posticcio, nell'affetto che provava per Vittorio; di questo era certissima. Il loro matrimonio non era "in crisi", nessuno dei due era "deluso" dell'altro. E allora?
Si alzò con lui, gli prese il braccio, e mentre passavano in salone urtò con l'anca contro lo stipite della porta.
- Scusa. Ti sei fatta male?
- Colpa mia. Sono goffa.
Accese la luce e le ventiquattro rose che aveva comprato un'ora fa (bellissime, a un prezzo ridicolo, ma non profumate) le offrirono una loro soluzione ai problemi dell'universo. Les roses de la vie... In casa doveva esserci, un Ronsard. Quando andava all'università, un compagno su tre, appena era solo con lei, le citava quell'invito famoso. Ma nascondevano forse ben altro che mera galanteria, i versi del vecchio poeta. I tifosi che alla domenica correvano allo stadio e le vecchiette alla benedizione, gl'impiegati che alle dieci lasciavano la scrivania per andare a prendere un caffé, i ragazzotti che filavano sulle loro motociclette rombanti, che altro facevano se non cogliere le rose della vita? Tutti gli uomini, dai più austeri ai più frivoli, dai più ricchi ai più miserabili, perseguivano in realtà, sapendolo o non sapendolo, quell'unico scopo. Anche Lenin? Be', a cercare un po', si sarebbe trovato anche per lui. Forse per quella era la rivoluzione stessa, la rosa della vita. Le apparve Lenin, col suo berrettuccio, che urlava alla folla (in Russia tutti parlavano francese): Vivez, si m'en croyez, n'attendez à demain!. Se toglievi il gergo da capopopolo, il concetto era quello, no?
Pensò di telefonare a Massimo, per chiedergli se come teoria poteva star su; ma scoprì che non aveva voglia di vederlo, di parlargli, preferiva controllare per conto suo.
- Ti secca se ci spostiamo in biblioteca?
- No, figurati.
Avrebbe passato la serata così, in studioso raccoglimento. E anche domattina, dopo aver giocato un po' con Francesca...
- Ma che noioso, Federico! - disse stizzita, pensando ai lenti, vani vagabondaggi tra il ciarpame del Balùn. Vittorio borbottò una vaga frase di commiserazione e si sedette con le gambe tese, le braccia penzoloni sui due lati della poltrona.
- Hai l'aria stanca.
- Infatti sono stanco.
Lei esitò.
- Vuoi che ti legga qualcosa?
- Cosa?
- Non so. Lenin.
- Santo cielo! - disse Vittorio. - Anche tu?
Lei, dall'alto dello schienale, gli strinse la testa tra le braccia. Non gli aveva mai voluto così bene; a lui e ai tre miliardi di uomini che popolavano la terra.
(Dieci anni dopo Lucentini, ora se n'è andato anche Fruttero, la metà rimasta di una coppia eccezionale, unica nel panorama letterario, per sintonia, affinità, armonia. Una volta lessi da qualche parte il loro procedere nel dividersi i compiti: come Lucentini fosse la "mente organizzativa" dell'operazione, quello che aveva in testa il libro nel suo svolgersi, mentre Fruttero fungesse da rifinitore, capace di piazzare battute fulminee od osservazioni spiazzanti che davano quel tocco in più, anche se tutti e due pare scrivessero con la stessa naturalezza chi uno, chi un altro capitolo della trama, e se lo rifinissero e ritoccassero a vicenda. Sia come sia, l'amalgama risulta perfetto; e la felicità del tratto di scrittura, le invenzioni narrative, la capacità introspettiva, la leggerezza, la meravigliosa precisione nel discettare di astrazioni metafisiche a partire dalla perlustrazione dello stato d'animo dei protagonisti dei loro romanzi, come la deliziosa Anna Carla di qua sopra, sono state per me fonte ineguagliabile di divertimento e diletto. E anche se, in accordo con Fruttero e in disaccordo con la Volpe, io prediligo tra i tanti, per la ricchezza dell'intreccio e simpatia del mondo che ne abita le pagine - e forse anche perché è stato il mio primo approccio alla loro produzione, il primo amore che non si scorda mai -, il loro A che punto è la notte, riconosco ne La donna della domenica la fluida, melodiosa semplicità che ne fa il loro capolavoro, che non sfigura nemmeno trasposto sullo schermo da Comencini, con Mastroianni nell'improbabile ruolo del commissario Santamaria, la splendida Jacqueline Bisset in quello della ricca, bella e vivace signora dell'alta borghesia torinese con cui avrà un'avventura sentimentale, e attorno una pletora di attori di prim'ordine. E ora scusate, ho da finire un giallo di Scerbanenco...)