Cosa c'è da vedere in un bosco?
Niente.
Solo la propria estraneità e solitudine.
Portatemi in un bosco, e io mi sentirò smarrita anche senza smarrirmi.
Nel bosco io perdo ogni punto di riferimento: non c'è più un sopra e un sotto, un avanti e un dietro, una destra o una sinistra.
Ci sono solo alberi: a perdita d'occhio, alberi, immobili, indifferenti, e anzi, ostili, cupi per la ferita loro inferta dai tracciati di sentieri battuti da estranei, contaminati piedi di umani.
Sentieri stretti e impervi che io percorro a fatica, inerpicandomi, scivolando, o marciando in piano a ritmo cadenzato sulla mia lama di inquietudine per non riuscire a scorgerne né il principio né la fine.
Stare in mezzo ad un bosco mi dà la sensazione di essere precipitata in un buco nero spazio-temporale: un non-luogo da cui non potrò più uscire che non mi porta da nessuna parte. Mi sento estromessa dalla mia dimensione per finire catapultata in un'altra parallela dove non incontro più persone, non vivo più nella realtà, non incrocio più la civiltà perduta, se non negli ansiogeni rinvenimenti di tracce di essa in smorti e incongrui residui - un fazzoletto di carta stropicciato, una lattina di coca sfondata - il cui stridore con l'ambiente rende l'esperienza ancor più allarmante e disagevole, per come quegli oggetti fuori contesto, così blasfemi là in mezzo, mi suscitano fantasticherie sul come esoteriche entità, alseidi, o menadi, o fattucchiere in sabba, abbiano provveduto magicamente a polverizzare i fautori della profanazione, di quegli oggetti possessori e fruitori, richiudendo le frasche sul ripristinato silenzio, sicché di costoro non resta nulla; e per il sinistro presagio che debitamente ne consegue, di esser potenzialmente associata, appartenendo alla medesima specie di quelli, per arcana legge vegetale, ai loro crimini, e al loro stregonesco castigo e alla loro sinistra fine.
Dev'esser questo il motivo per cui, incontrandosi, ci si saluta nei boschi: per il conforto di veder comparire un proprio simile, perforata così la cappa di oscuro incantesimo che aleggia nell'aria con una visione a cui si assiste col medesimo sollievo con cui il caduto in un pozzo accoglie l'apparire di una mano tesa a cui aggrapparsi per risalire; o del peschereccio che, dopo una notte di tempesta, ritrova all'alba le luci del porto.
Io, peraltro, amo immensamente i boschi. Le loro macchie di verde scuro spiccanti sul colore più tenue dei dolci dorsi dei rilievi su cui poso lo sguardo mi rallegrano la vista, mi ristorano l'anima, mi allungano la vita. Ma non voglio trovarmici dentro. Mi par di violare un santuario ancestrale, un sistema cosmogonico in cui io non ho parte; e che per questo sacrilegio verrò punita.
Perché la natura non è mica benigna. Anzi, tutt'altro. La natura è selvaggia, al di là del bene e del male, e totalmente tesa all'autoconservazione. E pertanto nessuno riuscirà mai a convincermi che andar per boschi sia una passeggiata.
Ho ultimamente passato qualche giorno, non per mia scelta, appunto per boschi e foreste; vagando affannata e spaurita su e giù per le cime di monti erti e frondosi, talvolta persino piangente per lo sconforto e lo sfinimento, sentendomi piccola e debole e indifesa come non mai. Voglio dire, alla percezione psichica della mia piccolezza si aggiungeva quella fisica, concreta, in un'esperienza integrale di minutezza e inettitudine che a tratti mi rendeva disperata.
Che forse, però, è stata anche catartica, come tutte le esperienze forti, primordiali.
E poi l'ultimo giorno sono entrata in un'abetaia secolare: una vastissima radura di alberi alti come colonne colossali, e dai rami talmente grandi e maestosi da coprire il sole, costretto a fendere frantumato in esili strisce di pulviscolo luminoso infinitesime fessure dell'ombra densa e refrigerante di quegli enormi spazi. Altro che piccina, lì ero davvero minuscola, insignificante. Lì stare in un bosco mi faceva tutt'un altro effetto. Lillipuziana, non avrei potuto dar il minimo fastidio a quei giganti; benevoli, da quelle loro incommensurabili altezze, al modo pascoliano del cielo in X agosto: "e tu, cielo, dall'alto dei mondi sereni, infinito, immortale..:", di un'alterità mistica; una vertiginosa cattedrale naturale, dove venivo accolta, e riparata, monda da ogni inquietudine o tormento; e, Dio, com'era bello avere quelle chiome per cielo, e quei fusti protettori attorno. Ero passata anche lì in un'altra dimensione: ma di tale splendore, questa, e pace, e armonia, che piangevo di nuovo, stavolta di intensa emozione; e davvero non avrei voluto uscirne mai più.
Forse non è stato inutile, dopotutto, questo mio errare per boschi. Anche se, comunque, cosa c'è da vedere in un bosco?