Dopo averli contemplati per un po', questi incappucciati quiescenti, ed essermi tolta lo sfizio del brivido della loro vicinanza, accelero di nuovo il passo, e quando, lasciatili indietro di parecchio, giungo in vista del Colosseo, ravviso in mezzo ad un gruppetto di ragazzi un compagno di classe di mio figlio nonché la scontrosa ragazzina alla quale costui è legato da tenera amicizia dalla sera di un anno fa in cui mi accompagnò a portarla al San Giovanni contribuendo con ciò a salvarle la vita, essendosi lei procurata un coma etilico a casa mia dopo appena poco più di mezz'ora dal momento in cui si era imbucata, sconosciuta ai più, a rimorchio dell'olandese volante, alla festa colà organizzata.
'Sto ragazzo, dall'alto del suo metro e novanta, mi guarda coi suoi occhi verdi spalancati di sovraeccitato candore e vergini di ogni consapevolezza politica che dia senso al suo essere in piazza e, mentre la sua amica tiene il broncio, mi fa con tenera incoscienza, mostrandomi sul suo cellulare le foto dei roghi che ha ripreso da ogni angolazione, "Cri, guarda che roba! Belle, vero? Forte ahò! L'hanno fatto i Black Bloc, noi li abbiamo visti, sa', gli siamo passati accanto, stanno là dietro, eh!"
"Visti, visti. Belle, sì! Mandatemele su FaceBook!" gli grido mentre riprendo la strada, un poco impensierita per lui e sollevata al pensiero che il diciottenne di casa, a cui pure ieri era punta vaghezza di venir qui, abbia poi abortito l'idea per partecipare alla festa di compleanno dell'olandese. Ché in un'ottica meramente ludica, divertimento per divertimento, quell'altro sembrerebbe almeno portar seco meno rischi (anche se, in un fuggevole flash del quadro di un anno fa della bambolina ora ammusata stesa su una lettiga d'ospedale con i riccetti bagnati appiccicati sulla fronte e gli occhi vitrei, mi smentisco il pensiero da sola, arguendo che non c'è da mettere la mano sul fuoco manco su questo).
All'altezza di Via Labicana mi accodo ai No Tav, tanti, civili e decisi nel gridare le loro proteste, adeguandomi al loro passo e seguendoli lungo tutto Viale Manzoni. Cammino da un'ora e sono stanca. Passato il momento di tensione per le scene di guerriglia che mi sono lasciata alle spalle comincio pure a sentirmi demotivata. Non so bene perché, questo corteo mi da più di altri l'impressione della mancanza di coesione. Sembra una coperta patchwork non ben assortita. Ciascuno ha le sue ragioni e solo quelle, e la sensazione è che non starebbe a sentire quelle degli altri, che non lo muoverebbero all'indignazione nello stesso modo. E' forte il sentimento di essere una monade in mezzo ad altre monadi. Altro che popolo unito.
Arrivo in Piazza San Giovanni prima delle quattro, e il sentimento persiste e si rafforza nel constatare che non c'è niente di organizzato, non c'è un palco, non ci sono oratori. Non si sa bene che fare, anche metaforicamente. Pertanto - nonostante l'animazione gioiosa della testa del corteo che vede schierate le pacifiche e colorate masse delle ONLUS per l'acqua pubblica, nonostante la mia emozione nel riconoscere, nel signore barbuto che in prima fila regge lo striscione e si arrabatta balbettando a seguire le parole della canzone di Gaber che i suoi stanno intonando, "la libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione", padre Zanotelli, uno dei miti della mia esistenza, al punto di mandare l'ennesimo messaggio esultante ad Angie - la percezione di smarrimento sovrasta tutto il resto. E ora?, mi dico. Vado a ripigliarmi la macchina e me ne torno a casa? E' tutto qui?
Mi scuote dal mio isolamento mentale il ragazzo col megafono che invita tutti ad addentrarsi sul prato antistante la basilica per agevolare l'afflusso dei partecipanti che man mano stanno giungendo. E lì faccio d'istinto la cosa che mi risparmierà, a conti fatti, un sacco di guai. Siccome sul pratone non c'è nessun interesse a sostare, decido di avvicinarmi al presidio degli indignati insediatosi sotto la statua di San Francesco, all'altro lato della piazza. Oltretutto da lì posso godermi lo spettacolo frontale del corteo che man mano arriva a destinazione entrando da via Emanuele Filiberto. E siccome sento il bisogno di riposarmi, mi siedo con sollievo e soddisfazione sul bordo del marciapiede che fa da base al semaforo al centro dell'incrocio.
Ormai, comunque, è fatta, mi dico. Gli incidenti ci sono stati, ma in misura alquanto contenuta rispetto alle aspettative. E ormai la manifestazione è al termine, l'abbiamo sfangata. Mi sovviene improvvisamente che forse le immagini delle auto bruciate a Via Cavour sono già rimbalzate sulle TV, per cui telefono a mio marito allo scopo di rassicurare lui e i figli della mia incolumità: "se anche vi giungono notizie di disordini, state tranquilli, a me non è successo niente, ormai sono arrivata e non c'è più pericolo". Nello stesso momento in cui pronuncio queste parole alzo gli occhi e vedo levarsi sulla sinistra, oltre i palazzi che stanno dietro alla Scala Santa, un'altra colonna di fumo piuttosto imponente. Mi metto in preallarme, forse stanno bruciando un'altra macchina, e mentre lo penso capto in un angolo remoto della mente le parole accorate e inani che sta pronunciando la portavoce del presidio: "gli indignati in tutto il mondo si muovono in maniera totalmente pacifica e non violenta... Quello che è successo oggi è una vergogna, ma di questa vergogna ci dobbiamo fare tutti carico, è una nostra responsabilità, una responsabilità di tutti dire no, no, no alla violenza..."
Non realizzo quel che sta succedendo. La ragazza allude alle macchine bruciate, o c'è dell'altro che non so? Sono ancora all'oscuro del rogo del magazzino militare, dei cassonetti ribaltati, del caos di Via Labicana. Lo slargo intorno a me pare uno stagno dove si aggira con poca animazione gente smorta e tediata e a me, accoccolata sul gradino sotto al sole, sta prendendo sonno... Ed ecco la prima scossa: dal gigantesco imbuto di via Emanuele Filiberto, come un'improvvisa folata di vento, irrompono sulla piazza alla spicciolata persone vocianti che corrono e sbandano al punto che un paio di loro ruzzolano a terra per poi rialzarsi tese e allarmate, smarrite in volto. Ma è come un'increspatura che subito si riassorbe, e tutto ripiomba in un languore sereno, chiaro e vischioso.
Dopo una manciata di minuti, all'improvviso, il quadro accelera di nuovo bruscamente. Si riversa davanti a me, come esplosa in ogni direzione, una nuova ondata di manifestanti atterriti. Urla di panico e toni concitati attraversano l'aria. Io osservo stranita e ancora intorpidita, ma basterà la frazione di secondo successiva per farmi schizzare lucidissima in piedi come una molla nel vedermi venire addosso, nere mosche gigantesche a ruota degli altri, gli incappucciati armati di bastoni e aste di bandiere e pezzi di corregge che oddio, forse saranno pure piedi di porco, che ne so, e subito appresso tre o quattro autoblindo della Guardia di Finanza e dei Carabinieri che prendono possesso della piazza spazzandola con gli idranti.
In un attimo lo scenario è radicalmente mutato. La gente si disperde, si volatilizza, dello slargo rimangono padroni i blindati, mute bestie enormi e minacciose, che scorrazzano ingaggiando una sorta di corrida con gli incappucciati, sciame di insetti che si ritira precipitosamente per tornare fulmineo alla carica tirando sassi e altri corpi contundenti, e petardi, e bombe carta, e poi di nuovo velocissimamente ritirarsi sfrecciando accanto a me, che son rimasta sola e totalmente esposta sotto al semaforo, al bordo del terreno di scontro.
Assisto paralizzata, incredula, ipnotizzata, alla scena surreale che mi si dispiega davanti agli occhi, coi blindati che puntano a riconquistare il territorio e tentano di mettere in fuga i teppisti senza troppi riguardi, inseguendoli, sollevandoli da terra coi musi, e i teppisti che volano, ricadono, si rialzano come molle, si avventano sui mezzi, in una sorta di coreografia furiosa e orribilmente bella. E nella bolla di vuoto permeato di silenzio si ode il cadenzato rimbombo secco e osceno dei lacrimogeni sparati a ripetizione, cupo come rintocco di campana a morto, insostenibile come il rumore di una fucilazione.
Non ho mai assistito ad un così sfrenato spettacolo del Male, alla declinazione di una violenza tanto intensa e selvaggia, automatica, che corre dagli uni agli altri come scariche tra i due poli di una pila, costantemente alimentate e rinnovate e rinvigorite da un'effusione di energia sanguinaria, primordiale, che sembra aver azzerato secoli di progresso ed evoluzione umana per far regredire gli attori del dramma a cavernicoli in lotta con mammouth. E' uno spettacolo orripilante e seducente, se resto ancora lì a godermelo finirò male, ma non riesco a decidermi a muovermi.
Ma poi mi sovviene Angie, e la sua preoccupazione per me, il suo avvertimento "vieni via se ci sono casini" e allora mi riscuoto. Vengo via per lei, perché l'ho promesso a lei.
Il tempo di tagliare un angolo della piazza esponendomi come bersaglio al fuoco incrociato dei guerriglieri e già sono tornata sulla terra. Non faccio in tempo a toccare incolume il marciapiede dove c'è il presidio degli indignati che scandiscono disperati, a palme levate, "Non violenza! Non violenza!" che già mi tremano le gambe. Ho bisogno di sentire la voce delle persone che amo, la mia famiglia, i miei amici. Piena di angoscia prendo il cellulare e chiamo i miei figli. Mi risponde il diciottenne. Piangendo gli dico che sono in salvo, che non mi è successo niente, che benedico il Dio che non prego più perché lui non è lì in quella bolgia d'inferno. Mio figlio, in un buffo rovesciamento dei ruoli, mi rassicura paterno "va bene, mamma, ma adesso stai tranquilla. Non ti è successo niente, ormai è finita, su, su, stai tranquilla."
Attacco con lui e messaggio Angie: "Guerriglia. Cariche. Me so' data, tutt'apposto" proprio mentre, percorrendo il controviale di Via Carlo Felice, scorgo con la coda dell'occhio grappoli di incappucciati rimpiattati in ogni angolo dei giardini adiacenti e, in fondo, sul sagrato della basilica di Santa Croce in Gerusalemme, un altro corposo assembramento di persone e svariati pullman della Celere.
Altro che a posto. Sono in trappola, circondata da tre lati. Mi sento boccheggiare, mentre un freddo terrore mi attraversa il corpo. Alla mia sinistra San Giovanni è off limits, e la metastasi nera degli incappucciati ha infettato la zona oltre le mura alle mie spalle e quella di Santa Croce alla mia destra. Posso solo andare avanti, verso il centro, cercando un varco tra i palazzi, e senza la sicurezza che i teppisti non abbiano preso possesso anche di quella zona. Angie frattanto mi rimessaggia incalzandomi: "Ma sei a casa?"
Mi faccio coraggio e rispondo frettolosa: "No, sono ancora per via. Ma via via, tranquilla"; e poi mi viene l'impulso di scrivere anche alla Volpe: "Wow, il G8 dal vivo. Che coglioni 'sti black bloc. Che smaltita."
Nel frattempo, sorretta da quell'invisibile filo di amore, riesco pure a questionare con un paio di questi delinquenti, che, caschi in mano, a capo scoperto stanno tornando diligentemente verso il campo di battaglia apostrofati a male parole da gruppetti di manifestanti indignati. Fuori dalla loro batteria da combattimento sembrano davvero piccoli e vigliacchi, e invitati al corpo a corpo da un paio di baldanzosi montanari No Tav si allontanano veloci con la coda tra le gambe.
"Coglioni! Coglioni! Siete dei coglioni!" strillo. "Siete più coglioni delle BR, che si sono fatte manipolare dai servizi segreti deviati!". I ragazzini si voltano a guardarmi corrucciati, borbottando qualcosa a mezza bocca, ma non hanno il coraggio o la voglia di venirmi ad affrontare. "Brava la signora!" urla la piccola folla.
Rifrancata mi infilo nel reticolo di stradine perpendicolari al viale, sbuco indenne all'incrocio tra Via Santa Croce e Viale Manzoni, percorso solo da rari passanti in giro per le spese del sabato sera, e da lì raggiungo in breve il solito, colorato e rassicurante caos etnico di Piazza Vittorio. Le immagini di ferocia viste solo un quarto d'ora prima, le nuvole di fumo bianco dei lacrimogeni, le grida degli indignati, il rumore degli spari, sembrano un mondo lontano, qualcosa che ho visto in sogno.
Nel frattempo mi è arrivato l'ultimo messaggio di Angie (cara Angie), che mi prega di farle uno squillino non appena metto piede in casa: "Son fifona!"
Ora sono preoccupata per Gap e Luz e sto per mandar loro un messaggio. Ma non ce n'è bisogno, perché mentre smanetto sul cellulare li rincontro miracolosamente sotto i portici. Ho una reazione di assoluta felicità, di totale sollievo. Il loro è invece permeato dalla preoccupazione per le figlie che sono rimaste indietro e si sono prese i lacrimogeni. Una delle due, quella che mi hanno presentato solo poche ore prima, è ancora bloccata al Colle Oppio.
Stare con queste due splendide persone, piene di giusto sdegno per ciò che è successo e di umanità, mi aiuta a rinfrancarmi. Con loro facciamo analisi a caldo e ragioniamo di quello che è stato, del perché è stato, di quello che non ha funzionato, di quello che si dovrebbe fare. Poi chiamiamo ciascuno i propri cari: Luz la figlia dispersa, io la mia Angie. Ora è davvero finita.
Poi Gap mi consiglia di andarmene a casa in fretta, perché è convinto che "quelli" potrebbero arrivare fin qui, dove siamo noi. In serata scoprirò che purtroppo aveva ragione.
Ci salutiamo. Pur col pensiero a tre chilometri di distanza, Luz è amorevole, solare. Il suo abbraccio stretto e caldo, che si mescola al mio, è una delle cose preziose di questo giorno che si staglieranno nella mia memoria e contrasteranno con forza la banalità del Male a cui ho assistito.
Per finire, quando sono già in macchina, mi arriva il messaggio della Volpe. Chiede come sto, come stanno gli altri. "Fatemi sapere." Sta vedendo le immagini dallo schermo del pc, immagini di scontri ed incidenti impressionanti, di cui io sono ancora all'oscuro, immagini che danno un'angoscia profonda.
E allora il filo nero del male e quello bianco del bene, che hanno proceduto dentro di me in parallelo per tutto il pomeriggio, si separano, e l'uno - quello dei sentimenti, dell'emozione, della tenerezza dell'umanità - che ha incalzato l'altro rispondendo colpo su colpo - prevale.
Con me che fermo la macchina, piglio il cellulare e faccio un'ultima telefonata.
Uomini battono bestie 1 a 0.