Guardo dalla vetrata della mia veranda e vedo il cielo al tramonto come solo in autunno sa essere: calde lingue di fuoco arancione che slabbrano con imponderabile contrasto la volta fredda e nera di pece popolata da impressionanti flotte di immensi bianchi batuffoli lanuginosi, spiccanti sull'illimitato sfondo di tenebra per i bagliori di quelle fiamme, grida cosmiche del giorno morente all'apice del più insostenibile strazio e della più squisita armonia, che nell'esatto momento finale della sua irreversibile sorte sprigiona, in sanguinosa e debordante cascata, la più perfetta e piena bellezza sia dato all'occhio umano di poter contemplare.
E' uno spettacolo che mi appaga e mi emoziona. E come sempre all'emozione si accompagna quella stretta al cuore, quel male dolcissimo che sempre si associa ad una percezione intensa, da "dopo".
Il "dopo" distinto dal mio "prima" di ingenuità, inconsapevolezza di me stessa, acerbità.
Il "prima" dove io, ancora addormentata, sognavo la vita, anziché viverla. Immaginavo i sentimenti, anziché provarli. Mi figuravo la sofferenza, anziché rendermi conto di portarne i segni e gli effetti sulla pelle.
Il "prima" dove mi muovevo ignara di me e degli altri, a volte triste, a volte felice, nella serena incoscienza di una bambina.
Il "prima" dove credevo alle fiabe, alla bontà intrinseca delle persone, anche quelle più spietate, e avrei giurato piena d'ottimismo che l'amore vince su tutto, e che è sempre corrisposto. Che, se avessi amato, mi sarebbe stato contraccambiato. Che le mie buone intenzioni, il mio faccino implorante, mi avrebbero accordato la clemenza della Corte.
Avevo avuto bisogno di crederci, da bambina. Ne andava della mia sopravvivenza. E in fondo, davvero, le persone spietate a cui ero stata obbligata ad affidare la mia vita, e a cui ero stata costretta a voler bene, alla fine talvolta si erano impietosite. Non erano mai arrivate ad uccidermi o a ferirmi fisicamente in modo grave, si fermavano sempre in tempo, al di qua del baratro. Ciò mi aveva condizionata ad amare anche i persecutori - anzi, ad amare soprattutto quelli, che mi erano così tanto familiari - e a credermi scioccamente invincibile quando e se lo facevo. Come se fosse stato grazie al mio amore che avevo avuto salva la pelle. Dunque, mi dicevo, di che ti preoccupi? Se ti trattano male si vede che sono legati a te, che a te ci tengono, ti vogliono bene, come quelli del principio, tanto tempo fa. E se tu sai sopportare, e mostrare la tua tempra, la tua resistenza ed entusiastica adesione al ruolo di agnello sacrificale, alla fine l'amore trionferà, e vivrai per sempre felice e contenta.
Al primo incontro "non protetto" con un altro essere umano questa mia fede incrollabile si è infranta contro lo scoglio della realtà. Per fortuna.
Non è mai troppo tardi per imparare.
Imparare, ad esempio, che l'amore vero non è con-fusione, ma distinzione. Che solo nello spazio tra i miei contorni e quelli dell'altro c'è il luogo dell'incontro.
Imparare che imbattersi nell'anima gemella può essere una iattura. Anzi, se per "gemella" si intende uguale, o comunque straordinariamente affine, è una iattura sicura.
Adesso, quando certe sventurate amiche mi decantano i pregi di una scombinata relazione con qualcuno asserendo con entusiasmo "siamo così tanto simili", mi piglia l'inquietudine.
Perché tutti gli esseri umani sono simili nelle cose buone: nell'esistenza, la vitalità. Nel saper voler bene, nella volontà di fare del bene. Nell'istinto di proteggere le creature più indifese, di provare per loro affetto e tenerezza. Nell'impulso di voler aiutare il proprio simile in difficoltà. Nella capacità di impietosirsi per il prossimo sofferente. Nella fame di giustizia, nel desiderio di pace. Nell'amore per l'arte, la bellezza della natura. Nell'attitudine a meravigliarsi e commuoversi. Sono queste qualità, a livelli più o meno sviluppati, comuni a tutti gli uomini dotati di intelletto e raziocinio.
Perché se si è simili in altro che non sia compreso in queste analogie fondamentali, di norma si è simili nelle caratteristiche peculiari della nostra persona, quelle che ci distinguono dagli altri. Ossia, nelle criticità. Nei difetti. Nelle idiosincrasie. Nelle piccole o grandi psicopatologie. In tutto ciò che ci determina nella nostra unicità ma che, al contempo, ci è di inciampo, ostacolando il libero fluire della nostra energia vitale e delle relazioni positive con gli altri individui.
Perciò, se ci leghiamo a qualcuno per cui proviamo un affetto tanto intenso da assimilarsi ad un'affezione, una corrente di simpatia irresistibile per il suo essere tanto simile a noi, non è quasi mai una cosa buona.
Ci condanniamo, nella migliore delle ipotesi, alla con-fusione, all'indifferenziato, al rispecchiamento narcisistico l'uno negli occhi dell'altro, senza possibilità di evoluzione. Dove mancano diversità non c'è stimolo al cambiamento, non c'è ricchezza.
Non ci verrà mai di dire all'altro la frase che ha postato Minerva ultimamente, pronunciata da Jack Nicholson a Helen Hunt in "Qualcosa è cambiato": "mi fai venire voglia di essere un uomo migliore."
In realtà è più comodo e rassicurante amare qualcosa di conosciuto, che ci assomiglia. Solo che non ci fa crescere. Non è la tensione amorosa che si sprigiona tra due poli opposti e crea un flusso di energia. E' una sterile ammirazione di noi stessi.
Possiamo anche non crescere mai, beninteso. Ma alla fine si muore lo stesso.
Senza essere mai vissuti.
E insomma, guardo il tramonto, mi emoziono, e penso ai tramonti che guardavo un anno fa. Con nostalgia. Di me stessa, di certi miei languori, delle mie prime scoperte sull'amore. Tutte così sbagliate, così illusorie. Perché sbagliato e illusorio era, per quanto ho premesso, il legame che credevo di aver stretto.
Ma io c'ero davvero, coi miei sentimenti, che erano sì sbagliati, ma non illusori.
La Cri di oggi è un'altra. E' un'adulta che ha che ha imparato cos'è la passione. Che mai più potrà provare un'emozione senza sentirci il retrogusto della sofferenza.
E prova struggente tenerezza per quella Cri di un anno fa. E più ancora per quella prima, quella che non tornerà mai più.
Ma che, al contempo, starà sempre dentro di lei. A formare una parte essenziale, inscindibile, di se stessa.