lunedì 23 febbraio 2015

Here lies one whose name was writ in water

(Poiché fuori di me perdurano, fastidiose, le mie tenzoni quotidiane, e dentro di me perdura, invincibile, la calma piatta, per ricordare a me stessa e a chi si ricordasse ancora di me che sono viva, e, più in generale, che sono, lascio qui una cosa che scrissi molti mesi fa per il mensile on line con cui collaboro da un anno, Operaincerta. E' scritta in verità a quattro mani, in differita: nel senso che le prime due mani sono quelle di mia sorella, che sulla vita e sulla poetica di Keats, che in lui sono tutt'uno, compose la sua prima tesi di laurea (la prima delle sue lauree) una ventina d'anni orsono; le altre due, estrapolanti e rielaboranti in tempi recenti una minima parte di quel lavoro ricchissimo, sono le mie, che attraverso lei ho conosciuto ed amato - allora in modo istintivo, approssimativo e tutto sentimentale, oggi con infinita maggior cognizione di causa per la superiore comprensione della bontà e giustezza delle sue intuizioni sulla vita e sull'amore e per la sopraggiunta capacità di riconoscermi ed immedesimarmi  in esse che mi ha donato la maturità - quel giovane oscuro e fulgente, glorioso e nascosto, che finì di consumare la sua vita in questa notte del 23 febbraio, in questa Roma che è la mia città, ed è rimasta, per sempre, anche la sua.)

Possono ben capitare, al turista che visita Roma, attacchi di sindrome di Stendhal: momenti in cui l'innumerevole e ingombrante bellezza che lo circonda da ogni parte arrivi ad inebriarlo fino ad un punto di sopraffazione, e l'emozione per tanto splendore giunga inopinatamente a tramutarsi in parossistica vertigine, palpitazioni cardiache, nausea e sudori freddi da panico.
In simili frangenti egli può, se ha la ventura di stare aggirandosi nei pressi della Piramide Cestia, tra Testaccio e Porta San Paolo, correre a rifugiarsi e riprendere fiato nella quiete fuori dal tempo di un giardino antico protetto da alte mura.
Quel giardino, oasi incantata di pace e di silenzio in mezzo al caos frenetico della città, è il bellissimo cimitero acattolico che lo scrittore Henry James definì " una mescolanza di lacrime e sorrisi, di pietre e di fiori, di cipressi in lutto e di cielo luminoso, che ci dà l'impressione di volgere uno sguardo alla morte dal lato più felice della tomba".
Lì, dopo essersi ritemprato, può partire senza fretta per una passeggiata esplorativa, alla ricerca del fazzoletto di terra dove sono custodite le ceneri di Gramsci, e poi di quelli dove riposano le spoglie mortali di poeti, politici, filosofi e scrittori - Percy Bysse Shelley, Dario Bellezza, Carlo Emilio Gadda, Luce D'Eramo, Amelia Rosselli, Antonio Labriola, Miriam Mafai - ma anche di un figlio di Goethe morto bambino, della moglie di Altiero Spinelli, dell'attrice Belinda Lee.
Finché in questa perlustrazione i suoi passi lo condurranno inevitabilmente nei pressi dell'angolo più remoto, più dolce e più vetusto, quasi a ridosso del muro di cinta confinante con la Piramide Cestia - accanto al sepolcro di Joseph Severn, pittore suo connazionale che quasi senza conoscerlo accettò di imbarcarsi con lui per l'Italia per essergli dapprima coinquilino e poi unico fraterno appoggio nel suo estremo soggiorno romano fino a vederselo spirare tra le braccia -, davanti alla lapide di "a young english poet" morto di tisi in un appartamento di Piazza di Spagna, dove si era trasferito lasciando le brume natie nel tentativo di strappare ancora tempo alla malattia, la sera del 23 febbraio 1821, a soli venticinque anni.
Questo giovane inglese, per cui vita e pensiero poetico furono indissolubilmente intrecciati; che coniò per il poeta, e dunque per se stesso, la definizione di "più impoetica delle creature"; che del suo fallimento di uomo, di artista e di essere vivente fece la cifra necessaria, altissima e sublime, sacerdotale, della sua esistenza, lasciandone testimonianza nelle parole che volle gli fossero incise sulla tomba ("qui giace Uno il cui nome fu scritto nell'acqua"); e che a distanza di due secoli si trova invece saldamente collocato, assieme a Shelley e Byron, nell'Empireo dei pilastri del Romanticismo inglese e mondiale, è John Keats.
Meno noto alle masse degli altri due più baldanzosi compagni di gloria letteraria, Keats fu realmente, nel suo breve passaggio terreno, un uomo dimesso e oscuro. La crisi fu la sua costante condizione, la sua autentica pelle, l'aria che respirava: nella sua quotidianità difficile, costellata di disgrazie, disagi e ristrettezze economiche, come nella sua interiorità ipersensibile di adolescente, e poi di giovanissimo uomo posseduto dal demone dell'amore, di una passione che, proprio per essere, come lui affermò, "la cosa per cui voglio vivere" fu, precisamente, la "grande ragione" della sua morte; e anche nella sua consapevolezza di rappresentante di un'umanità della terra al tramonto, dove, caduti gli antichi dei assieme alle certezze illuministiche, si può solo cantare la stagione dell'autunno, dell'indolenza, dell'inerzia che è l'infinito silenzio della pura esistenza.
Fu questo il tragico paradosso di cui, nella folgorante e letale stagione della sua giovinezza, che è tutta la maturità che gli fu concessa, Keats prese sempre più coscienza: l'irresolubile, fatale circostanza per cui la bellezza della vita è mortalità, e non si può sfuggire alla mortalità se non attraverso la morte, che quella bellezza, quella vita distruggerà. Una morte Keats che non dovette nemmeno tentare di procacciarsi per poter entrare nella leggenda romantica, perché, per strana ironia della sorte, mentre scriveva la manciata di opere costituenti l'intero suo lascito ai posteri, minato dalla malattia, stava già lentamente morendo. 
La tanto prematura sua dipartita dal mondo nel nascondimento, lontano da tutto e da tutti - dalla patria, dagli amici, dai suoi cari, da Fanny Browne, la ragazza amata di un amore profondo, intenso e tormentato - assomiglia molto al fade away, lo svanire che è sprofondamento dolce, lieve, nell'oblio, dissoluzione come estrema chance di condividere l'essenza stessa del tempo, di assecondarlo fluidificandosi per attutirne i colpi, punto d'approdo della tematica da lui professata e vissuta come una religione del cuore e cantata nella lirica sua più nota, quell'Ode to a Nightingale costituente il suo marchio di fabbrica nell'immortale espressione Tender is the night. È come lo straziante avverarsi di un desiderio di morte: una morte accolta ed invocata non tanto come liberazione dello spirito, quanto come reintegrazione nella natura, nell'oltre indistinto, oscuro e insondabile, l'orizzonte invisibile che la voce dell'usignolo invade e oltrepassa laddove la coscienza, il "self", dell'essere umano lo serra e costringe impedendogli di spiccare lo stesso salto, nemmeno se librato sulle ali della poesia.
È per questo struggente ed esemplare, la parabola umana di sofferenza e morte precoce di un artista che fece del suo passaggio terreno una missione etica tradotta in effettiva esperienza poetica per sua propria volontà e, al contempo, senza possibilità di altra scelta. Keats muore giovane poiché è giovane, poco più che un ragazzo, e come ogni ragazzo ama la vita: davvero per lui questo è tutto ciò che sappiamo a questo mondo, e tutto ciò che ci serve di sapere; e per sentirsi vivo accetta tutto, anche se sentirsi vivo fino in fondo significa conoscersi mortale, e abbracciare la mortalità fino alle estreme conseguenze, fino al punto di esperire la caducità nel suo compimento, e il compimento nella caducità. Questa consapevolezza è tuttavia radicalmente aliena dal pessimismo: diversamente da Leopardi, che di fronte alla sua ambivalenza conclude che la natura non è né buona né cattiva, ma indifferente, Keats la ama troppo per arrivare ad una simile considerazione; la ama, e continua ad amarla, perché è bella: ed è bella perché è viva. "Beauty is truth, truth beauty", la sua professione di fede mai sconfessata, significa in eterno per lui che tutto ciò che esiste è bello perché è vivo, e la sua bellezza è "a joy forever".
È toccante il contrasto tra la tra la "felicità deliberata" della poesia di Keats e la tristezza che caratterizzò la sua esistenza: una dicotomia che egli porta addosso in ogni istante come il segno sacramentale di una vocazione suprema. Alla ricerca di un sistema di salvezza più soddisfacente di quello delle religioni tradizionali, di un senso ultimo dell'esistenza in un mondo dominato dall'infelicità, dal dolore e dalla finitudine, l'acutezza della sua visione si concretizza in una crescente oscurità: più si scruta nell'abisso, nel "Mist", il peso evanescente (come la nebbia; che per un inglese non è un concetto, ma un'immagine di vivida concretezza) che lo opprime, uomo tra gli uomini, spingendolo, mediante l'amore, la bellezza e l'arte, a tentare di diradarlo superando i limiti della mortalità, più la tenebra si infittisce. L'illuminazione poetica svela solo una cecità più profonda: ne consegue una nostalgia per qualcosa di inafferrabile tanto sublime e intensa da generare un confine in cui piacere e dolore, pur distinti, diventano inestricabili. Se sentire per l'essere mortale è soffrire, solo accogliendo la sofferenza si può gustare sino in fondo la bellezza della vita. L'amaro che resta in fondo al calice è il residuo inevitabile di una dolcezza che nel contrasto esce esaltata. La notte del "Mist" fa dunque eco alla "notte del cuore", in una risonanza che è la vibrazione dell'esistere, come il movimento di sistole e diastole delle pulsazioni, che Keats battezza "malinconia" e che celebra nella sua ultima ode, "To Autumn", la stagione dolce,  quieta, gravida di languida pienezza, del tramonto del ciclo della natura ch'è anche metafora del tramonto del del ciclo della vita umana.
È così, in una sorta di titanismo rovesciato, che Keats arriva a scoprire il valore della passività: la sua indolence diventa l'unica vera ricettività e creatività, l'ignoranza - che è quella dei fiori e degli uccelli, che non conoscono i misteri della vita ma li vivono - diviene saggezza: egli è giunto alla Negative capability. Non potendo guardare, come Dio creatore, nel cuore del mistero, si apre al suo destino opposto facendosi creatura, e creatura inerme e minuta: margherita, usignolo, embrione frutto dell'amore di due amanti, abbassandosi, ripiegandosi come nel bozzolo di una crisalide a condividerne nella  κένωσις il nascondimento, l'umiltà, l'essenzialità e la terribile potenza in posse di vita. È un destino che accetta comunque con sommo orgoglio: Keats, uomo moderno dalla coscienza divisa, non può schierarsi decisamente dalla parte luminosa così come non può dare voce alla divinità: la sua rimane una continua tensione verso una meta mai raggiunta.
Sta tutta qui la storia di John Keats: in una traiettoria incompiuta. Il suo strumento ha delle corde spezzate, come la lira che Severn scolpì sulla sua tomba, e non solo per la sua morte prematura, ma anche per la sua stessa incredibile capacità di occhieggiare nell'oltre, scorgendovi la sola verità possibile, e cioè non un diradamento, ma un addensamento del tenebroso "mist": la "visione", per chi sta "al di qua", è solo una percezione più profonda dell'oscurità. Il vero illuminato - il poeta "camaleonte", senza self, capace di assumere ogni identità perché senza più identità - è colui che grazie ai fiochi bagliori della sua psiche aperta all'amore, all'arte e alla bellezza, riesce a scrutare la trama del buio, e per questo come nessun altro è consapevole di quanto sia fitta e serrata. L'intensità del sentimento, portata all'eccesso, finisce sempre per trascolorare nel suo opposto: la negazione.
L'ultima fase della sua esistenza, quella del suo soggiorno romano, è, di questa negazione, espressione straziante e coerente. Keats è diventato afasico: non comporrà più, non scriverà più a Fanny Browne. I suoi giorni si stanno compiendo: non è più tempo di scrivere, di fare poesia: è tempo di prepararsi a viverla fino in fondo, addentrandosi effettivamente, necessariamente, nell'oscurità. Ma il suo silenzio, che è la notte della poesia, è il silenzio di chi ha detto tutto quello che c'era da dire, stabilendo un legame, una "connessione" che non ha bisogno di ulteriori parole. 
Keats, che fu anche farmacista, non ha nessuna ricetta contro la notte dell'anima dell'uomo contemporaneo. Ma da tutti i suoi scritti trapela una forza costante, quella forza che oggi molti giovani come lui rischiano di perdere: l'amore della vita, quell'amore che culmina nella grande armonia dell'Ode all'Autunno, un amore tanto intenso da condurre all'accettazione di quell'aspetto della vita da cui l'uomo comune rifugge, il limitare sul quale la vita finisce, o si trasforma in qualcos'altro, il passaggio senza il quale non c'è pienezza, poiché deathless equivale a lifeless. 
"Beauty is truth, truth beauty, - that is all/Ye know on Earth, and all ye need to know": la morte è l'unica certezza dell'uomo, e se la morte è verità è anche bellezza, e allora la questione dell'immortalità non si pone più, questo è il suo tempo, e la borderline, il between, il suo spazio. Keats è l'uomo sospeso tra due mondi, l'uomo della terra al tramonto: il suo re è il sole pieno dell'autunno che sul morire del giorno sembra voltarsi indietro e racchiudere in un unico caldo abbraccio la pienezza di vita che ha generato dal limine del buio che lo contorna, mortale e immortale assieme. Il dramma cosmico partecipa del dramma umano, in profonda comunione con gli uomini, con la natura e con un soprannaturale tragicamente occulto che Keats non cessa mai di cercare.
E il luogo di questa ricerca, di questo inseguimento appassionato, è sempre la notte, la "Tender night": l'oscurità della condizione umana, appena rischiarata da piccole, stellari scintille, minimamente confortata dai bagliori dell'amore. 
È una ricerca che rimane tutta al di qua: la notte è il punto di partenza e il punto di arrivo. Ma questo è un fallimento solo apparente. Perché nella notte, regno della sintesi, c'è tutto: è l'ineffabile notte nuziale in cui luce e oscurità, vista e visione, piacere e dolore attuano una fusione senza confondersi: e in questa suprema drammatica riconciliazione è racchiuso il culmine dell'esperienza umana.
Più di questo, Keats non arriva a dire: ha compiuto la sua strada fino in fondo, è passato "oltre". La crisi è finita. La sua luce si è affievolita fino a spegnersi, o forse piuttosto a riassorbirsi nell'infinito, ma ciò non ci riguarda più, almeno per ora. Quello che di lui ci ha lasciato, trattenuto nel nostro "aldiquà" e appartenente alle cose vere, reali, e dunque things of beauty, oltre ai suoi resti inerti racchiusi sotto la lapide di pietra grigia senza nome, è vivo e operante nei suoi sonetti, nelle Odi, e nelle sue commoventi e inebrianti lettere, scritte alle persone che più gli erano care sulla terra -  la sorellina Fanny, l'altra Fanny amore della sua vita, suo fratello George, sua cognata Georgiana, l'amico John Brown - nelle cui parole riemerge ancora oggi, vivo più che mai, lo spirito di un ragazzo che bruciò al fuoco dell'amore sciogliendosi come una candela, e che lo fece facendo poesia, che per lui era sinonimo di fare il bene.
Separandosi da chi resta, Keats usa parole tanto semplici quanto rivelatrici della tenera e nervosa gentilezza del suo animo: "sono sempre stato imbarazzato nel prendere congedo". E forse è per questo che, in qualche modo, non se n'è mai andato. Perché è singolare come, a chiunque si accosti alla sua tomba dopo essersi accostato alla sua poesia, paia proprio di sentirne aleggiare la presenza, in mezzo ai fiori e all'erba tenera; di scoprire quasi, a tratti, nella visione periferica delle pupille, un'eco sommessa e indefinibile dell'immagine di questo "giovane poeta inglese", minuto e fanciullesco per età, per purezza del cuore e per statura, che, accennando un sorriso che dissimula la squisita acutezza della sua emozione, esegue, schivo e compito insieme, un mezzo inchino.

(Buonanotte, John. Alla prossima visita)

martedì 27 gennaio 2015

Un cuore vigile

Ciò che non ricordiamo, siamo costretti a ripeterlo.







27 gennaio: Giorno della Memoria.

27 gennaio 1945: apertura dei cancelli del campo di concentramento di Auschwitz ad opera delle truppe russe.

I will survive

La tempesta perfetta pare in fase di esaurimento.
E il mio maestro jedi dovrebbe esser di nuovo in Italia, sano e salvo (altrimenti, dato il luogo in cui stava, una delle polveriere più pericolose del globo, avrei avuto brutte nuove dagli organi di informazione). E lo rivedrò tra meno di quarantott'ore.
(E faremo quello che ha detto endi.)
E, a proposito del mio maestro jedi, da quelle parti, a non troppa distanza dal suo territorio d'azione, i combattenti curdi - tra cui le bellissime ragazze fiere, laiche, straordinariamente toste e sempre sorridenti, che compaiono in foto a corredo di ogni servizio o lancio d'agenzia - hanno liberato Kobane, il che è pure una notizia meravigliosa.
E in Grecia vince finalmente, come millenni fa, la democrazia, e la speranza che ci possa essere un'alternativa politica capace di tener testa alla finanza, mostro senza volto che sta erodendo alla radice i valori primari della nostra civiltà: solidarietà, equità sociale, giustizia. Eguaglianza. Fratellanza. Libertà.

Ieri, tornando in auto per l'ennesima volta dal luogo in cui dal cinque gennaio sono andata una, più spesso due volte al giorno, ascoltando come al solito le notizie alla radio, ho sentito l'esultanza, il sollievo per l'affrancazione da un giogo insopportabile di un popolo mescolarsi all'esultanza e al sollievo per la mia personale affrancazione, inebriata dal riprendere contatto con me stessa e autonomia del mio corpo e dei miei pensieri, governo pieno sulla mia esistenza.

Una nuova leggerezza si è impossessata di me. I will survive! M'è venuto spontaneo di canticchiare allegramente, mentre mentalmente mi congedavo per l'ennesima volta - questa però con gran soddisfazione e placidità - da chi mi voltò le spalle in tempi lontanissimi lasciando, al posto di un legame tra me e lei, una ferita in me ormai cicatrizzata, un vuoto sempre più ristretto man mano che mi dilato: non con rabbia o amarezza, come sarebbe appropriato per le parole della canzone: no, con la levità variopinta, aerea, soave, del playback danzante delle meravigliose drag queen infilate in vestiti incongrui, incredibili, in mezzo al desolato, aspro outback australiano in Priscilla, regina del deserto. Ciascuna col suo carico di umiliazioni e vessazioni subite; ciascuna con la sua pena in cuore, col suo sé irrisolto, alla disperata ricerca del senso della propria vita: ma lo stesso sorridenti di un sorriso che è aureo distacco e insieme profonda empatia e intenso legame con gli altri esseri umani, che affratella la loro artificiosità emarginata nel consesso civile alla naturalezza selvaggia di altri emarginati, i nativi autoctoni del deserto, e che viene solo da dentro.

Pian piano riprenderò in mano i fili abbandonati: scriverò mail, sistemerò abiti, esaminerò pratiche, andrò a trovare amici.

Oggi ho festeggiato concedendomi l'abbandono ad una soffice, beata inerzia.

Anche questa è fatta. I will survive, ho svoltato un'altra curva e sono ancora qua.

Giubiliamo.

Stamane intanto, all'alba, ormai tra veglia e sonno, ho fatto un sogno bellissimo: ho sognato che era primavera, e io mi preparavo lieta e uscivo a farmi carezzare da un raggio di sole, e tutto era tiepido e luminoso. E no, non era andato avanti il tempo: era gennaio, proprio oggi, ventisei gennaio, ed era primavera in gennaio, e io mi dicevo, gaia e sicura, "andiamo a goderci questa primavera di gennaio!", sì, proprio così.



At first I was afraid, I was petrified,
Kept thinkin' I could never live without you by my side,
But then I spent so many nights thinkin' how you did me wrong,
And I grew strong, and I learned how to get along,

And so your back, from outerspace,
I just walked in to find you here with that sad look upon your face,
I should've changed that stupid lock,
I should've made you leave your key,
If I had known for just one second you'd be back to bother me,

Go on now go, walk out the door,
Just turn around now, 'cause you're not welcome anymore,
Weren't you the one who tried to hurt me with goodbye,
You think I'd crumble? You think I'd lay down and die?
Oh no not I, I will survive,
Oh as long as I know how to love I know I'll stay alive,
I've got all my life to live; I've got all my love to give,
And I'll survive, I will survive,
Hey, Hey!

It took all the strength I had not to fall apart,
And trying hard to mend the pieces of my broken heart,
And I spent oh so many nights just feeling sorry for myself,
I used to cry, but now I hold my head up high,
And you'll see me, somebody new,
I'm not that chained up little person still in love with you,
And so you felt like droppin' in and just expect me to be free,
Now I'm savin' all my lovin' for someone who's lovin' me.

Go on now go, walk out the door,
Just turn around now, 'cause your not welcome anymore,
Weren't you the one who tried to break me with goodbye,
You think I'd crumble? You think I'd lay down and die?
Oh no not I, I will survive,
Oh as long as I know how to love I know I'll stay alive,
I've got all my life to live, I've got all my love to give,
And I'll survive, I will survive. Oh

Go on now go, walk out the door,
Just turn around now, 'cause your not welcome anymore,
Weren't you the one who tried to break me with goodbye,
You think I'd crumble? You think I lay down and die?
Oh no not I, I will survive,
Oh as long as I know how to love I know I'll stay alive,
I've got all my life to live, I've got all my love to give,
And I'll survive, I will survive, I will survive

It took all the strength I had not to fall apart,
And trying hard to mend the pieces of my broken heart,
And I spent oh so many nights just feeling sorry for myself,
I used to cry, but now I hold my head up high,
And you'll see me, somebody new,
I'm not that chained up little person still in love with you,
And so you felt like droppin' in and just expect me to be free,
Now I'm savin' all my lovin' for someone who's lovin' me.

Go on now go, walk out the door,
Just turn around now, 'cause you're not welcome anymore,
Weren't you the one who tried to hurt me with goodbye,
You I'd crumble? D'you think I'd break down and die?
Oh no not I, I will survive,
Oh as long as I know how to love I know I'll stay alive,
I've got all my life to live; I've got all my love to give,
And I'll survive, I will survive, I will survive

mercoledì 21 gennaio 2015

Nord sud ovest est


Ho perso la bussola, l'altra settimana.
Mentre sdraiata sul lettino in penombra seguivo con lo sguardo il solito itinerario, dalla lucina sorretta a perpendicolo sopra la mia testa dal mio maestro jedi alla punta del mio naso e ritorno, e così via, a un certo punto mi sono sentita capovolta: io in alto e la lucina in basso, io divenuta lucina, la lucina diventata me. Ed è durata un po', questa sensazione di capitombolo nel fondo concavo, oscuro e vellutato percorso dai miei occhi caduti in una slabbratura, finiti in un cosmico interstizio curvo di una variante al piano geometrico euclideo.
Gliel'ho detto, al mio maestro jedi. E lui l'ha trovato uno scarto, una discrepanza, molto interessante. Che esploreremo al suo ritorno.
Sì, perché questa settimana niente sedute terapeutiche, niente lucine: lui è, per il momento, lontano, tanto lontano da me e dall'Italia, in un luogo in mezzo alle alture in cui si è annidato uno dei nuclei dell'inizio della civiltà umana ed oggi si annida uno dei focolai della minaccia alla sua fine, a fare la sua parte nella, dice lui, resistenza al sopravvento del cervello rettiliano, e tornerà, se tutto va bene, ossia, se la forza del tronco encefalico lo proteggerà, a fine mese. 
Io gli ho detto che sono fiera, e contenta, che lui abbia deciso di andare ad apportare il suo contributo di uomo a sostegno della propria ed altrui umanità. Che aderisco al suo bisogno di andare, che voglio anch'io, assieme a lui, che lui vada, sposo la sua causa e lo sostengo in questa scelta. Ma che vorrei pure che, una volta espletato questo alto compito di aiuto a creature in estremo bisogno, riscendesse da quelle perigliose altezze per tornare ad aiutare anche me, pur'io creatura ancora bisognosa di lui.
Lui ha sorriso, felice di esser supportato nella sua libertà di pigliare il volo ma anche di esser sollecitato a ritornare. Di poter sentire importante la sua presenza lì, in quel teatro di guerra folle e barbarica, a contatto con le più atroci sofferenze del mondo, tanto quanto quella accanto a me, singolo essere alle prese con i grovigli minuti delle proprie piccole, individuali follie e sofferenze.
Così, nell'attesa del mio amatissimo amico saggio alle prese col turbine degli eventi della Storia, sballottata dai refoli degli eventi della mia storia, il mio disorientamento esce dalla stanza del suo studio, tracima nel quotidiano, prende forme plastiche nelle contorsioni d'acciaio del serpente della tangenziale che percorro dal cinque di gennaio una volta al giorno, più spesso due, sotto il sole, sotto la pioggia, con la luce naturale ed artificiale, cambiando continuamente aspetto, verso, direzione dei punti cardinali, per andare a svolgere il mio, di compito: un compito ingrato, imprevisto ed usurante, che erode ogni giorno di più la mia volontà e la mia pazienza, e svalorizza il senso dei rapporti con chi mi sta accanto, e consuma il filo dei miei pensieri, tal ché non riesco, e anzi nemmeno più mi provo, colma d'una calma svogliatezza innaturale, d'una tranquilla attonita indifferenza, a bloccare il flusso delle mie immagini mentali in costrutti minimamente razionali ed ordinati atti a farmi combinare qualcosa al lavoro, rispondere a mail di persone a me carissime, leggere tre pagine di un libro, seguire mezz'ora di trama di un film, trovare il tempo e il modo di andare da un amico. Vivo sospesa, galleggiante in questa incerta assenza di gravità che m'alleggerisce come una piuma, una brezza lieve che mi trascina senza farmi sbattere, come un feto nel liquido amniotico.
Il mio maestro jedi non c'è, e in mancanza di lui, dei suoi abbracci, vengono a trovarmi in sogno per abbracciarmi altri che, non essendo mai esistiti, restano per sempre dentro di me, in sogni compensatori dolci amari vividi come realtà; e vivo una concretezza lucida, surreale, rarefatta e straniante come un sogno, confusa, sottosopra, nord sud ovest est che vorticano lentamente, senza parere, attorno a me.
Il mio maestro jedi non c'è, è a combattere la sua battaglia in nome di tutti.
Io ci sono, e combatto anch'io, in nome mio.
Ci mostreremo a vicenda le ferite, orgogliosi reduci, quando il mondo smetterà di girarmi attorno, e ci ritroveremo assieme di nuovo.

venerdì 9 gennaio 2015

Je suis Charlie



Io sono una dalle reazioni inconsulte, incongrue. Persino in circostanze che non mi riguardano, che nulla hanno, in superficie, a che fare con me. 


Una volta su due la mia risposta agli eventi - per questo, a sua volta, una volta su due esagerata - è emotiva, e proviene da una regione primaria di me stessa, un meccanismo preordinato alla corteccia frontale cerebrale, sede del linguaggio e della elaborazione analitica delle immagini. Dal sistema limbico, insomma, direbbe il mio maestro jedi, ultrà della teoria dei tre cervelli. 

Ma raramente questi impulsi reattivi pigliano direzioni così nette con tale potenza, facendomi uscire da me stessa previa espugnazione del mio fortino interiore a colpi precisi e violentissimi di ariete.

Andando a ritroso nella memoria fin dove riesco ad arrivare ricordo due sole occasioni di spicco.

Una ha a che fare con la morte di Nicola Calipari, un evento per me sconvolgente per chissà che mi fece scattare dentro da costringermi ad andare a mettermi in fila al Vittoriano ad omaggiare la salma, con un'emozione che mi faceva pulsare le vene nei polsi manco fossi ad un matrimonio. Continuando, mentre attendevo il mio turno di trovarmi davanti alla sua bara, a vedermi davanti agli occhi la scena: Calipari che, non per eroismo, non per esaltazione, semplicemente per ostinazione e professionismo esemplari, per portare a termine una missione rischiosa ma sin lì riuscita, per non farsela mandare in vacca all'ultimo momento, senza esitazione, istintivamente, si getta su Giuliana Sgrena, una donna che non fa parte della sua cerchia di affetti, che fino a quel momento non aveva mai incontrato, di cui forse nemmeno condivide le scelte, le fa scudo col suo corpo e le salva la vita scambiandola con la sua, ricevendo le pallottole destinate a lei. Mentre non mi si levava dalla testa un pensiero che mi dava le vertigini: l'aveva fatto per la Sgrena, l'avrebbe fatto per me, l'avrebbe fatto per i miei figli. L'aveva fatto per la Sgrena, l'aveva fatto a me, l'aveva fatto ai miei figli.

L'altra mi ha preso di brutto l'altro ieri, quando ho saputo della strage nella redazione di Charlie Hebdo. Con l'indignazione, la rabbia, che mi montava dentro, nell'apprendere i contorni che contribuivano a perfezionare il quadro di orrore e morte. E anche lì, come per Calipari, è scattata l'identificazione: i terroristi sono entrati in un luogo intimo e quotidiano e, per un malinteso eroismo, una cieca esaltazione, con bruta ostinazione e professionismo esemplare hanno annientato degli uomini pacificamente riuniti attorno ad un tavolo durante una riunione di lavoro a sangue freddo. E non ha smesso dal primo istante, anche qui, di turbinarmi in testa un pensiero: l'hanno fatto a loro, con un pretesto: con un altro pretesto, altrettanto arbitrario, l'avrebbero fatto a me, l'avrebbero fatto ai miei figli.

Non conoscevo le vignette di Charlie Hebdo. Non avevo visto quelle su Maometto, che pure avevano suscitato tante proteste e polemiche qualche anno fa. Ora le ho scorse, e posso dire che non mi piacciono, affatto. La loro oscenità è gratuita e spocchiosa, sterilmente provocatoria, non priva di violenza ideologica. Il Vernacoliere, in Italia, è arte sublime, a paragone.


Eppure il mio meccanismo psichico non ha avuto esitazioni, nel muovermi ad un'incazzatura bestiale per quegli assassini brutali, efferati, commessi contro chi quelle vignette aveva concepito e disegnato.

Perché una donna come me, difettosa, attivata di preferenza dal sistema limbico anziché dalla corteccia encefalica, come se fosse rimasta indietro di uno stadio evolutivo, non può concepire di accettare che esistano suoi simili rimasti, o tornati, allo stadio ancora più grezzo, quello del cervello rettiliano. 


Perché al di là delle grandi questioni - la libertà di espressione, il ruolo sociale della satira, la perniciosità del fanatismo religioso, il valore del multiculturalismo, la tolleranza, la mescolanza, la vicinanza, la testimonianza, la militanza - qui per me la faccenda sta ancora più a monte, proprio al grado zero della nuda autocoscienza individuale e collettiva: sta nella mera, elementare constatazione dell'assurdità di opporre, ad un uomo inerme, che faccia cose simpatiche od odiose, argute o idiote, amabili o insopportabili, concilianti o provocatorie, un uomo con un kalashnikov: di opporre ad una vignetta, un disegno fatto con le matite colorate!, una sventagliata di mitra in faccia, un disegno di morte. 

E' questa mostruosa sperequazione, contraria alla logica e all'intelligenza, che io respingo gonfia di rabbia, sopra tutto e prima di tutto. E' per questo che non si deve dargliela vinta, a questi subumani psicopatici.

E l'unica risposta possibile è quella di Vittorio Arrigoni: restiamo umani. Che significa, restiamo pacifici, non facciamoci coinvolgere nella dinamica di violenza estremistica, nella spirale dell'odio e della vendetta. Non rispondiamo ad un massacro che è una dichiarazione di guerra con l'accettazione di questa guerra. Opponiamo alla furia massiva l'individualità di una mente, tante menti, pensanti e autonome. Annientiamoli con la forza dell'ironia, della superiorità della corteccia encefalica sul cervello rettiliano. Facciamo veder loro che le loro azioni producono questi effetti, assolutamente antitetici e controproducenti per i loro intenti. Che per questo non ci possono sottomettere, e non potranno farlo mai.

Ad esempio, così, con questa meravigliosa, straziante, esilarante copertina per il nuovo numero di Charlie Hebdo (che andrà in edicola regolarmente tra qualche giorno), immaginata da un altro collettivo satirico francese, Les Guignols, in tributo alla metà dei morti di Charlie Hebdo, i sei disegnatori, i quali simbolicamente rappresentano tutti gli altri, caduti assieme a loro.




sabato 3 gennaio 2015

Overjoyed

A te, che vibri di sofferenza risuonando in me, il cui cuore pesante stanotte pesa dentro il mio, per le cui labbra senza sorriso anche il mio muore.
A te, che non ci sei, ti sei smarrito e non hai voglia di cercarti, e non vuoi scoprire che sto provando ad aiutarti a ritrovarti.
A te, inespugnabile, tenero e roseo nido di giovinezza, irto di finte spine, sfiorato con meraviglia, cautela e devozione.
A te, che hai avuto la generosità di ritrarti da ogni spazio, prosciugando l'eco del tuo ricordo per ogni dove, fin quasi a farmi dubitare di averti solo immaginato.
A tutti voi altri, nuovi e antichi, cari e carissimi, quotidiani e saltuari, vicini e lontani, concreti ed evanescenti, noti e presunti, reali e virtuali, giovani e vecchi, recenti e remoti, carpiti e lambiti, acquistati e perduti, che riempiste, riempite e riempirete le mie ore, i miei pensieri, i miei sguardi, i miei sogni, il mio essere.
Tutti voi io stringo forte al petto, e a tutti voi io elevo il mio canto, con gratitudine e amore. Che vi sia per voi, ovunque, bene, e gioia, e vita.



Over time, I've been building my castle of love
Just for two, though you never knew you were my reason
I've gone much too far for you now to say
That I've got to throw my castle away

Over dreams, I have picked out a perfect come true
Though you never knew it was of you I've been dreaming
The sandman has come from too far away
For you to say come back some other day

And though you don't believe that they do
They do come true
For did my dreams
Come true when I looked at you
And maybe too, if you would believe
You too might be
Overjoyed, over loved, over me

Over hearts, I have painfully turned every stone
Just to find, I had found what I've searched to discover
I've come much too far for me now to find
The love that I've sought can never be mine

And though you don't believe that they do
They do come true
For did my dreams
Come true when I looked at you
And maybe too, if you would believe
You too might be
Overjoyed, over loved, over me

And though the odds say improbable
What do they know
For in romance
All true love needs is a chance
And maybe with a chance you will find
You too like I
Overjoyed, over loved, over you, over you