giovedì 29 marzo 2012

Cicisbeatitudine o: dei bei mestieri di una volta.

Chiacchierando di tutto e di nulla al telefono con la Cri, nel delirio sentimental-confidenziale, siamo giunte alla conclusione che in questo secolo moderno e barbaro si sente la mancanza di una figura maschile significativa: il cicisbeo. Sì, perché mentre gli uomini a tutte le età possono godersi la compagnìa di donne più o meno affezionate, amorevoli e sinceramente ammirate, alle donne questa possibilità raramente è concessa. Quindi, per riequilibrare le sorti della nostra autostima perennemente vacillante, quale miglior cosa di un cicisbeo che sia sempre disposto a starti vicino, ascoltarti a dirti che: “non sei grassa è il vestito che è cucito male”; “coi capelli così sei un incanto”; “oggi sei più bella del solito”? Se poi fosse anche colto e capace di ragionare di letteratura, teatro, cinema e politica, avendo l’accortezza di esser sì signore da concedere alla fortunata l’ultima parola sugli argomenti sopraelencati, sarebbe proprio il massimo. Inoltre, dato che la magnanimità alberga nei femminei petti verrebbe trattato con tutti i riguardi e non gli mancherebbe mai l’affetto e la devozione perché, come dice il Poeta: “Amor a nullo amato amar perdona”. Si potrebbe organizzare un casting, fare ricerche di mercato per far rinascere finalmente questo mestiere che giace inerte dalla barbara Rivoluzione giacobina maschilista e moralizzatoria! Purtroppo ci si sveglia anche dai delirii più belli. Sappiamo che ciò che giace non rinasce e forse l’unica è imparare ad esser cicisbee di noi stesse, ad esserlo con le amiche unendoci in legami di reciproco sostegno che siano sinceri e dettati dall’idea che da sole non si va da nessuna parte, mai. Per parte mia, visto che son sempre stata una damina armata di mazza chiodata con la velleità di bastonare l’orco e mandare il principe azzurro a fare i piatti, mi propongo come cicisbea della Cri e spero che cicisbeeremo a spasso per Roma, all’osteria, alle mostre, nei musei ed ovunque ci aggradi ancora per un bel po’ di tempo.

Breakfast on Pluto

Vorrei ringraziarvi tutti, perché ci siete.
Alla fine è solo questione della mia mancanza di esperienza di vita. Questi sono incidenti che capitano a chi non è abituato, non è esperto, appunto. Come il neopatentato che tampona, o la dattilografa in erba che fa errori di battitura. Inconvenienti da mettere in conto quando non padroneggi la materia.

Eppure so che - purtroppo o per fortuna - per motivi genetici o determinanti influenze dell'ambiente negli anni cruciali della mia esistenza - una parte di me resterà per sempre uno splendido, indomabile, irriducibile freak. So che non dovrei farmene vanto. Ma il mio essere disarmata è tutto quello che ho.

Ho visto tante volte questo film, piangendo di emozione. Voglio bene a Patrick-Kitten (e a Cillian Murphy, l'attore che nel film lo abita con tanta intensità e delicatezza), è mio fratello, so perché si comporta così. E so perché, alla fine, così esposto, fragilissimo e vulnerabile, è ostinatamente più forte di tutto, e riesce non solo a sopravvivere, ma a vivere, vivere intensamente, librandosi nel cielo come la canzone dei Rubettes. Perché, per quanto cerchino di ferirti, di deriderti, attentino alla tua vita, ti brucino la casa, nessuno può farti niente, se tu sei su Plutone, se ti sconvolgi, sanguini, nell'anima e nel corpo, ma non ti pieghi perché, semplicemente, non puoi farlo, perché non puoi essere altro che te stesso, quell'essere strano e meraviglioso che ti sei forgiato da solo, in totale isolamento e autonomia, che si autoalimenta del suo proprio amore e ne irradia ingenuamente, spontaneamente, inesauribilmente, a chiunque, amico o nemico, gli attraversi la vita, in modo miracoloso e incognito anche a se stesso.

Vi stringo tutti sul cuore.

mercoledì 28 marzo 2012

Emozioni

"Il mondo non è fatto per le emozioni, una volta che hai imparato questa lezione, tutto è più semplice. Le emozioni tolgono energia, e c'è bisogno di tutta l'energia possibile per andare avanti. Impara l'arte, la corazza ti farà andare avanti fino a quell'approdo. Si chiama tranquillità."

Sono più di ventiquattr'ore che medito sul commento di Martina sul sottostante post di Syrys. E constato che sì, in questo momento, nelle condizioni fisiche e psicologiche in cui verso, mi sento di sottoscriverlo in pieno. Perché dopo la parte buona delle emozioni arriva quella cattiva. Dopo il roseo e dolce miele che riempie il cuore, dopo il soffice, candido, ovattato biancore di neve arriva il vetriolo. E oggi non vorrei altro che di esser liberata dalla smania esulcerante che mi corrode dentro e che, strazio nello strazio, è ancora impregnata di miele, che stilla insieme all'acido nelle mie viscere in modo indiscriminato, facendomi, metaforicamente e letteralmente, sanguinare. E anelo alla tranquillità, oh, sì, al ristoro di una quiete fresca, almeno tanto quanto la aborro, allo stesso momento.

Perché davvero si può vivere senza emozioni? Bisogna rassegnarsi al disincanto, alla maturità, al torpore sereno e malinconico di un guerriero a riposo? Darsi a strategie di sopravvivenza alternative, ad una vita di letture e di studi, al bricolage, alla cura delle piante? Pigliarsi un cane? Iscriversi ad un corso di yoga, o di danza del ventre? E' questo solo che a noi è concesso, a noi che non possediamo più, anagraficamente, il tempo in cui il moralismo del mondo consente o tollera in un individuo aneliti, follie, effusioni sentimentali?

Un moralismo che diviene spietato, feroce di un'inattaccabilità che non ammette deroghe od eccezioni nel suo sentirsi legittimato da una condizione biologica, quando proviene direttamente da coloro i quali, per una pretesa legge cosmica, rientrano ancora nella categoria degli autorizzati a tali frenesie - per cui, se la giovinezza si accosta alla maturità, potrà a buon diritto farlo in un'asimmetria senza scrupoli, protetta dalla sua posizione di preminenza emotiva, dall'imperativo aprioristico dello stereotipo culturale, più che antropologico, dell'impossibilità, per la seconda parte in causa, di aspirare ad essere su un piano di parità dei sentimenti, su di un comune terreno di ricettività agli stimoli. E in virtù di tale assunto preconcetto ne discenderà la legittimità per la giovinezza di prendere in modo spensierato, e l'obbligo per la maturità di dare, in modo in-condizionato. Ma è davvero accettabile, questo? E' umana, lecita, questa tenera e ottusa arroganza, questo cannibalismo spirituale?

Ora mi si replicherà giustamente: "ma è l'inverso; non è che sia preclusa ad una persona matura la possibilità di emozionarsi. E' che vivere facendo a meno delle emozioni non è un obbligo, ma una forma di cautela verso se stessi; e l'acquisizione di tale comprensione è indice di raggiunta maturità". Soprattutto, aggiungo io, quando si comincia ad avere qualche acciacco, e certi lussi non ce li si può più tanto permettere per i contraccolpi anche fisici che ne derivano. E' rassicurante, invece, rapportarsi schermandosene. Soprattutto per la prima parte in causa, che potrà continuare a godere dell'affetto e della simpatia di una persona bonariamente derubricata a similnonno, o similzietta.

Ma allora sparatemi, mi viene da dire. Anche perché io tranquilla non sarò mai. Per me davvero Eros è l'altra faccia di Tanatos. Solo se sento ben oliato e funzionante il muscolo cardiaco, battente come un tamburello indiavolato, io non ho paura. Nella tranquillità io crepo di angoscia.

Riuscissi almeno a sentirmi come Battisti.











lunedì 26 marzo 2012

Canto terzo.

“Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli.”

Senza muovere un passo, senza batter mai ciglio attendi. Vittima del fato avverso, della delusione altrui, del dolore altrui. Ha senso vivere così, solo per raccontarsela?

Un passo dopo l'orizzonte

"Cri, basta pensare al male che hai ricevuto, esserne schiava, coattivamente indotta a riviverlo. Devi cessare di fartene fare ancora. Devi ribaltare il punto di vista: non è che perché hai sofferto nella vita devi continuare a soffrire. Al contrario, ora devi pretendere il giusto risarcimento che ti spetta. Sii esigente, goditi ogni attimo, piglia tutto quello che puoi, è un tuo diritto sacrosanto. Smettila di elemosinare affetto e considerazione. Da chiunque, fosse anche tuo marito, fossero i tuoi figli. Datti importanza, tutelati, non mendicare. Non ne hai bisogno, affatto."

Ho cambiato canzone nel mio walkman. La ascolto mentre cammino nella mattina odorosa di primavera, avvolta dal tepore del sole, dagli abbracci degli sguardi della gente, dalla vicinanza dei miei colleghi discretamente rompicoglioni, dalla carezza di due occhi verdi impressi nel mio cuore, dal calore di una telefonata ricevuta ieri sera, dal pensiero grato di persone che ho incontrato, sfiorato, nelle quali ho impresso la mia umanità, scambiandone un po' con la loro.
E se qualcuno mi ha aperto l'anima, nutrendosi di me, senza ricambiare, beh, io lo perdono. E lo amo lo stesso. Non può farmi del male, davvero, in fondo. Ne ho una riserva inesauribile, di amore, non mi ha sottratto niente. Io continuo ad amare. Amo, e amerò ancora. Finché vivrò.
E voglio telefonare al mio amico d'infanzia. E voglio sistemare i miei DVD, e leggere il mio nuovo Flaiano e la mia nuova Gimenez-Bartlett. E vedermi There must be the place, e tutti gli altri film che ho comprato. E non vedo l'ora che arrivi Claudio.
Mi sono rimessa in piedi anche stamattina.
Buona settimana a tutti.



domenica 25 marzo 2012

Due per la strada


"Iceland è un po' come quel punto in una relazione dove all'improvviso ti rendi conto che non durerà per sempre e cominci a intravedere la fine... Tyronne street"
"Sì, ma non ci siamo ancora arrivati. Siamo ancora nella parte buona. Non ci siamo neanche stufati l'uno dell'altra!"

giovedì 22 marzo 2012

Con il nastro rosa

"nel modo affettuoso ed esuberante in cui ti poni (...) sicuramente tanti avranno individuato in te una natura sciocca"
Tanti, oltretutto. Mica qualcuno. Tanti.
Tanti. Tanti. Tanti. Tanti. Sembrano rintocchi di campana a morto, questi "tanti" dentro di me. Martellate, che si abbattono con clangore sul ferro che il fabbro sta forgiando col fuoco.

"nel modo affettuoso ed esuberante in cui ti poni sicuramente tanti avranno individuato in te una natura sciocca"
Una frase sciocca. Che allarma, come quella della canzone di Battisti.



lunedì 19 marzo 2012

Lasciami andare, madre

Tu che sei stata guitto nella parte di dea onnipotente, capricciosa e spietata, corrusco e terribile astro di cartapesta della mia esistenza, spada di latta di Damocle sulla mia testa inerme, ridicolo incubo assoluto incombente sui miei sogni, parodia di ubiqua signora e onnisciente padrona della mia persona, artificioso buco nero della mia luce; tu, che avresti voluto continuare fino alla fine a tenere con la tua mano dura il fantomatico morso delle mie briglie, a sottrarmi i dolci sapori del vivere per darmi in cambio il tuo acido fiele, a prosciugarmi fiducia e speranza nei miei simili per riversarmi addosso il tuo mare d'amarezza, a mantenermi cieca nell'anima come tu lo sei anche nel fisico, tu, che mi dici "ti benedico" per maledirmi, che mi chiedi "come stai?" per farmi ammalare, che esclami "lo so che ho sbagliato tutto" per non mettere mai nulla di te stessa in discussione, che non sei mai stata così tanto carnefice come da quando impersoni la vittima; tu, che hai inteso annullare nel mio orizzonte la metà maschile del cielo fino al punto di nascere oggi, giorno dedicato ai padri, che in casa nostra era il tuo giorno, tuo unico e solo, anche questo; tu, grumo cellulare di odio, ammasso sanguinolento di rancore, che ti sei nutrita di me invece di nutrirmi, che mi hai gravato addosso invece di sollevarmi, mi hai angosciata invece di rassicurarmi, mi hai sottratto amore invece di donarmene, tu vampiro, parassita, batterio saprofita della mia carne, tu sei tutto ciò che mi è stato fornito al posto di una madre.
E ogni giorno, nelle mie incrinature, nelle mie ferite non rimarginabili, nelle mie fragilità, questa consapevolezza mi viene di nuovo impressa sul corpo. Ogni giorno ne porto i segni, sempre nuovi, sempre ulteriori.
Oggi è uno di quei giorni. Un giorno come un altro.
Un giorno in cui non c'è nulla da festeggiare. Nessun buon compleanno, mamma.

A kiss

"La cosa più bella di quando ti senti felice è che ti sembra che non ti sentirai mai più infelice"






sabato 17 marzo 2012

Una donna tutta sola


No, era solo per capire se mi funziona il vecchio sistema di inserimento dei link, eheheh
(e comunque io stamane ero anche più bella di così!)

Mignon è partita

Il piroscafo era già là, in attesa. E al guardarlo, io sentii tutta la stranezza della mia tramontata infanzia. Aver veduto tante volte quel battello attraccare e salpare, e mai essermi imbarcato per il viaggio! Come se quella, per me, non fosse stata una povera navicella di linea, una specie di tranvai; ma una larva scostante e inaccessibile, destinata a chi sa quali ghiacciai deserti!
Silvestro ritornava coi biglietti; e i marinai andavano disponendo la scaletta per l'imbarco. Mentre il mio balio conversava con loro, io, senza farmi vedere, trassi di tasca quel cerchietto d'oro che N. mi aveva inviato la sera prima. E di nascosto lo baciai.
A riguardarlo, d'un tratto una debolezza inebriante mi oscurò la vista. In quel momento, l'invio dell'orecchino mi si tradusse in tutti i suoi significati: d'addio, di confidenza; e di civetteria amara e meravigliosa! Così, adesso avevo saputo che era anche civetta, la mia cara innamoratella! Senza conoscersi, certo, ma lo era. Difatti, quale altro saluto di donna potrebbe mai esprimere una civetteria più bella di questa sua, nella sua ignoranza? Mandarmi in ricordo non il segno d'una mia carezza, o d'un bacio; ma di un maltrattamento infame. Come a dirmi: anche i tuoi maltrattamenti, sono cose d'amore, per me.
Provai la tentazione furiosa di tornare indietro, correndo, fino alla Casa dei guaglioni. E di coricarmi accanto a lei: di dirle: "Fammi dormire un poco assieme a te. Partirò domani. Non dico che dobbiamo fare l'amore, se tu non vuoi. Ma almeno lascia ch'io ti baci qua all'orecchio, dove ti ho ferito".
Già però il marinaio, ai piedi della scaletta, stracciava i nostri biglietti per il controllo; già Silvestro saliva, assieme a me, la scaletta. La sirena dava il fischio della partenza.
Come fui sul sedile accanto a Silvestro, nascosi il volto sul braccio, contro lo schienale. E dissi a Silvestro: - Senti. Non mi va di vedere Procida mentre s'allontana, e si confonde, diventa come una cosa grigia... Preferisco fingere che non sia esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, sarà meglio ch'io non guardi là. Tu avvisami, a quel momento.
E rimasi col viso sul braccio, quasi in un malore senza nessun pensiero, finché Silvestro mi scosse con delicatezza, e mi disse: Arturo, su, puoi svegliarti.
Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L'isola non si vedeva più.

giovedì 15 marzo 2012

A Streetcar named Desire

Santi numi, più mi inoltro nel bosco più mi smarrisco e m'aggroviglio. Mi pare di stare nel giardino delle delizie di Bosch, davvero.
Ma, dico io, che cazzo ha combinato in undici anni di perdita di tempo quell'essere disutile della mia terapeuta?

mercoledì 14 marzo 2012

Per dono.



Non ho pena per chi aspetta sicuro di essere compreso, accettato per stanchezza e compassione come se fosse nato così, vittima dell’amore forsennato per la propria immagine riflessa.
Per chi ha sempre l’asso di un’ottima scusa da giocare con se stesso e ciò che fa è ogni volta dovuto al caso.
Di chi crede nella clemenza della corte o nella possibilità che chi ha ferito non lo voglia più vedere e così lontano dagli occhi, dal cuore e dai pensieri può dedicarsi ad altro.
Di quelli che coltivano di notte il vizio segreto dell’autocommiserazione, quella più bassa, insonne, che gode della propria coscienza pesante, nobilitati da questa perché dentro di sé non hanno nient’altro di umano da offrire.
Di chi considera il perdono come una cartolina sbiadita che prima o poi arriva sempre a destinazione a confortarti che no, in fondo non sei cattivo, sei fatto così.

Anche quando mi sarò dimenticata di te ricorderò che vorrei non averti mai conosciuto.

Let the sunshine in

non te lo dimenticare se sei radiosa lo sei perché tu sei così e basta


lunedì 12 marzo 2012

Once upon a time

Rubo l'idea a Minerva, la cara Minerva che oggi mi ha dato una bella mano a raddrizzare la giornata, e faccio anch'io il giochino del

 Meme delle fiabe
1) Qual è la tua fiaba preferita?
La Bella e la Bestia. Perché io mi sento, e sono, tutte e due.

2) Quale quella più odiata?
Cappuccetto Rosso: bambina odiosa, mamma odiosa, nonna odiosa.

3) Qual è il tuo cartone animato Disney preferito?
Nell'ordine esatto: Mulan (la scena dell'automutilazione dei capelli, con quella musica coinvolgente,  tuttora, a distanza di quindici anni dalla prima volta che la vidi al cinema, mi dà le vertigini e mi fa fremere le viscere) 
Beauty and the Beast (again! Nomination all'Oscar come miglior film, che io gli avrei assegnato senz'altro)
Tarzan (non solo perché mi piace da matti il bonissimo Tarzan, anche perché adoro come viene rappresentata Jane...)

4) Quale sogno vorresti che la bacchetta magica della Fata Turchina rendesse vero?
Eh, non lo posso dire.

5) Il tuo cattivo preferito?
Il lupo di Cappuccetto Rosso, povero.

6) E il principe dal quale vorresti essere salvata?
Da quello che ho salvato io.

7) Quale dei 7 nani ti rappresenta di più?
Brontolo, Brontolo sicuro.

8) Se Mago Merlino potesse trasformarti in un animale per un giorno, cosa saresti?
Una mangusta, animaletto piccolo e tenace in grado di uccidere i serpenti, e praticamente immune al loro veleno.

9) Se fossi Raperenzolo come trascorreresti le tue giornate nella torre?
A soffrire di solitudine. Fantasticare e guardare giù, di giorno, e di notte su, verso il cielo stellato. Sospirare. Piangere. E poi scrivere melensissime storie d'amore.

10) La prima frase di una canzone Disney che ti viene in mente?
Ora vieni con me/in un mondo d'incanto...

11) Quale frase ti sussurrerebbe più spesso all'orecchio il Grillo Parlante?
Quella che mi ha dedicato Aldo il Monticiano: "Se ci riesci un po' meno trasporto, poco però"

12) Se tu possedessi le scarpette di Dorothy dove vorresti che ti trasportassero?
Dentro il mio cuore, a far visita alla mia Cri piccola.

13) Se dico "C'era una volta..." come proseguiresti la frase?
...una bambina che amava gli abbracci sopra ogni altra cosa al mondo.

Tirollallero

Sono orgogliosa, si sa, di essere nata e di vivere a Roma.
Roma è storia, monumenti, arte, cultura, in altissima concentrazione come forse nessun'altra città al mondo.
Ma Roma è anche cultura popolare e folklore di rara bellezza.
Grazie al genio dell'ormai novantacinquenne Armando Trovajoli - meritevole di Oscar quanto e più di altri compositori anche più famosi -, la tradizione popolare si è rinnovata e arricchita di capolavori assoluti.
Come questo.




Tirollallero lallà
Tirollallero
Tirollallero lallà
Tirollallero

La barca nun cammina senza vento
La tela nun se tesse senza trama
Chi fabbrica e nun fa bon fondamento
la casa casca, e lui co’ chi reclama?
Così so' io c’ho fabbricato ar vento
Perché ho voluto bene a chi nun m’ama:
io te saluto, vattene co’ Dio
tu per il fatto tuo, io per il mio

Tirollallero lallà
Tirollallero
Tirollallero lallà
Tirollallero

Una candela nun po’ fa du’ lumi,
e si li fa nun li po’ fa' lucenti;
una funtana nun po' fa du' fiumi,
e si li fa nun li po’ fa' potenti.
Così è ‘na donna quanno cià du' amanti,
che tutt’e due nun li po’ fa' contenti:
mejo che all’uno o all’antro dia licenza...
Bella, si tocca a me, ce vo’ pazienza

Tirollallero lallà
Tirollallero
Tirollallero lallà
Tirollallero

venerdì 9 marzo 2012

All things must Pass.

Passerà. "Mi passa sempre."
Tutto passa.



“Sunrise doesn’t last all morning
A cloudburst doesn’t last all day
Seems my love is up and has left you with no warning
It’s not always going to be this grey

All things must pass
All things must pass away

Sunset doesn’t last all evening
A mind can blow those clouds away
After all this, my love is up and must be leaving
It’s not always going to be this grey

All things must pass
All things must pass away
All things must pass
None of life’s strings can last
So, I must be on my way
And face another day

Now the darkness only stays the night-time
In the morning it will fade away
Daylight is good at arriving at the right time
It’s not always going to be this grey

All things must pass
All things must pass away
All things must pass
All things must pass away”

Traduzione.

“L’alba non dura tutta la mattina
un acquazzone non dura tutto il giorno
sembra che il mio amore sia pronto
e ti abbia lasciato senza avvertimento
non è stato sempre così grigio

Tutte le cose devono andare avanti
tutte le cose devono morire

Il tramonto non dura tutto il pomeriggio
la mente può soffiare via quelle nuvole
dopo tutto questo il mio amore è pronto
e dev’essere lasciato andare
non è sempre stato così grigio

Tutte le cose devono andare avanti
tutte le cose devono morire

Tutte le cose devono andare avanti
nulla può durare fra le corde della vita
così, devo fare la mia strada
affrontare un altro giorno

Ora l’oscurità rimane solo di notte
la mattina essa scomparirà via
la luce del giorno è bella
nell’arrivare al momento giusto
non è sempre stato così grigio

Tutte le cose devono andare avanti
tutte le cose devono morire
tutte le cose devono andare avanti
tutte le cose devono morire”.

Prova tecnica N.2

Caro internet puoi far funzionare il blog della Cri peppiacere? *-*

mercoledì 7 marzo 2012

Sogno numero #8

Quella mattina di inizio marzo il paese si svegliò irrimediabilmente cambiato. Le donne, bimbe e vecchiette incluse, erano diventate lesbiche. La consapevolezza non fu immediata ma fin dalle prime ore del mattino e nei giorni seguenti tutti gli uomini sposati si trovarono messi alla porta e i fidanzati furono abbandonati al loro destino da donne che scoprivano un’improvvisa passione per quelle che erano state le loro migliori amiche, le cognate, le colleghe di lavoro o le compagne di studi. Persino il parroco rimase di sasso quando vide che le suore del convento se ne erano andate a due a due lasciandolo solo a celebrare i vespri e a far le pulizie di chiesa.

Gli opinionisti della domenica in TV sbraitavano contro il femminismo che aveva istigato il risentimento verso gli uomini fino alle estreme conseguenze, ci fu chi incolpò la società troppo permissiva e la perdita del ruolo maschile nella famiglia. I più moderati dissero che era causa l’incomunicabilità tra i sessi mentre medici e scienziati considerarono il fenomeno una conseguenza della sovrappopolazione. “Siamo 7 miliardi e la cosa biologicamente più sensata è quella di smettere di riprodurci: l’umanità risponde così ad un bisogno del pianeta.” Disse un noto genetista.

In realtà il fenomeno era inspiegabile. Donne che erano vissute per l’amore e l’ammirazione degli uomini non solo avevano scoperto di poterne fare a meno ma sentivano che questo cambiava anche i rapporti tra loro. Quelle che prima erano delle fanatiche del lavoro, che si sarebbero ammazzate di straordinari per dimostrare di valere più di un uomo, si erano accorte che da questo non dipendeva la loro vita e le vedevi passeggiare mano nella mano durante le pause pranzo, riappacificate con le ex rivali. Suocere e nuore che avevano passato le domeniche e le feste comandate a contendersi l’ammirazione del figlio-marito pomiciavano allegramente e si scambiavano ricette di cucina. Ragazze che avevano vissuto in dieta perenne per paura di rimanere zitelle uscivano dalle pasticcerie imboccandosi a vicenda cassatine e beignet al cioccolato.

Finalmente sicure di sé si rivelarono gentili, spiritose e totalmente inaccessibili. Vivevano accanto agli uomini, se occorreva li ascoltavano ma ogni tentativo di avvicinarle, di farle affezionare, di ottenere la loro dedizione veniva accolto con un sorriso imbarazzato e salutato facendo spallucce e girando i tacchi.

La vita segreta delle parole

"Noi siamo le parole": così recita il titolo del post di oggi dell'Araba fenice.
Un titolo quantomai azzeccato, rispondente a verità, soprattutto qui dentro.
E in questo suggestivo gioco di rimandi virtuali mi è venuta voglia di associarlo a un post che ho scritto l'estate scorsa, a cui negli ultimi mesi mi capita di pensare e ripensare con una certa costanza.
Che per questo ricopio qui sotto.

Non sono una ragazza d'azione, io. Sono una seguace della parola.

Chiacchierona enfatica, come tutte le persone timide, perché non reggo i silenzi, non solo parlo a raffica, mangiandomi le sillabe, ma pure grido. Mi accaloro talmente tanto nel parlare che la mia voce sale sempre di più di tono e volume. Gesticolo anche parecchio, in modo piuttosto scomposto, rischiando di urtare cose e persone, farmi schizzar via le cose di mano, rovesciare eventuali bevande o buttarmi addosso il gelato.
Mi piace ascoltare il suono della mia voce, che so essere udita dall'esterno stridula e un poco roca, con un retrogusto di impercettibile melodiosa mitezza.
Sono un'aspirante affabulatrice, mi diletto a seguire i fili dei miei processi logici, a narrare episodi drammatizzandoli come fossero miti archetipici, risalendo alle origini della notte dei tempi, facendo sospensioni, digressioni, parafrasi.
E, a parte le sofferte circostanze in cui divengo afasica per la vergogna o lo scoramento, di solito in una discussione non mollo mai.

Ma non è solo questo, non è tutto qui.

Non so bene perché, per me la verità raccontata dalle parole assume concretezza con una forza che sopravanza, potenzialmente, quella della realtà fattuale. Forse l'essere stata in contatto simbiotico dalla nascita e per tutti i lunghi anni dell'infanzia e della giovinezza con una persona priva di vista, che mi costringeva a relazionare costantemente su ogni immagine che vedevo, ogni atto a cui mi accingevo, ogni evento a cui assistevo, perché dovevo portarle il mondo sulle ali della parola acciocché esso acquisisse per lei validità e significato, mi ha modificata, rendendo diversa la mia concezione della comunicazione negli approcci e nei rapporti con le cose e con gli individui.
In me la parola proferita può arrivare a sostituire il comportamento, nel bene e nel male. Per cui spesso mi illudo di aver espletato doveri sociali o familiari semplicemente per averne ragionato a voce, demandandone il compimento ad altri. Oppure che un'accalorata discussione speculativa possa efficacemente surrogare un'intera serie di gesti, di movimenti, di cui non riesco a sobbarcarmi la troppo semplice ed ordinaria fatica. Ma me ne servo anche per gestire i miei impulsi ad atti di violenza, gli scatti di rabbia che in me sono frequenti. Mi sfogo a parole, vomito minacce ed insulti terribili, descrivo nei dettagli intenzioni di crimini efferati e depotenzio così la mia carica aggressiva. Certo non è bello, ma è meno dannoso e socialmente più accettabile del mettersi a spaccare tutto e tutti caricando a testa bassa senza discriminazioni o riguardi per chicchessia.

Ma se mi appassiono alla parola detta, vengo letteralmente folgorata dalla parola scritta.

L'ho sempre amata, è stata nelle prime decadi della mia vita un'amica, la più fedele, sovente l'unica. Ho letto e scritto in sovrabbondanza, ricavandone il più grande conforto e piacere dell'esistenza.
Poi, col passare del tempo, le occupazioni materiali dell'età adulta hanno preso il sopravvento dentro di me, ed io mi sono come intorpidita. Sono entrata in letargo.
Vivo da molti anni con persone che alle parole preferiscono i fatti, ritenendo le prime un inutile orpello dei secondi.
Sul lavoro, poi, sono assediata da una semplicità culturale ed intellettuale che arriva nei non rari casi estremi alla povertà di spirito, alla grossolanità e rozzezza. Il livello di comunicazione orale è per lo più elementare, per cui è un continuo dover tarare al ribasso la complessità e vastità dei miei ragionamenti per entrare in rapporto con i miei simili. La produzione di documentazione scritta rispecchia ovviamente questa attitudine mentale, limitandosi ad un inanellamento di formule precodificate e nemmeno ben comprese, al confezionamento di una sorta di patchwork verbale fatto con ritagli raffazzonati. E per fortuna, ché in mancanza di una falsariga molti si producono in interpretazioni lessicali e sintattiche della lingua italiana a dir poco sconsolanti.

Però sbarcando nel mondo virtuale, che è mondo di parole, ho riscoperto qualcosa che era già, ma di cui non riuscivo più a rendermi pienamente conto.
Di come le parole scritte, certe parole scritte, hanno il potere di suscitarmi emozioni come poche altre cose al mondo.

Qualcuno potrebbe credere che l'espressione verbale, mancando del riscontro dei sensi, sia improntata ad una rassicurante asetticità. Un modo per esporsi mantenendo un diaframma protettivo tra il trasmettitore ed il recettore.
Invece per me è proprio il contrario: quando leggo qualcosa di intelligente, di profondo od arguto, di speciale per me, mi si attiva una potentissima carica d'affetto. Proprio nel senso dell'affezione. Come se mi ammalassi della più dolce delle malattie.
Si avverano in me, in maniera profana, le parole di Isaia: "come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto".
Sono parole di cui mi nutro alla maniera di Ezechiele, a cui Dio dice "mangia questo rotolo" e lui lo mangia, "ed in bocca mi fu dolce come il miele".
Sono parole che danno senso alle cose, perché le nominano, le chiamano con un nome che forse nemmeno sempre è lo stesso che ho dato loro io, ma fa comunque parte di un linguaggio che io comprendo, che mi è familiare.
Sono parole che uniscono, una sorta di rewind della Torre di Babele, dove gli uomini tornano indietro al tempo primigenio in cui si capivano. O almeno ci provavano.

Per cui scrittori e bloggers vari sono avvertiti.

martedì 6 marzo 2012

Amici miei

Ieri pomeriggio, un po' in ritardo rispetto all'ora convenuta, è arrivato Claudio in ufficio.
Lo aspettavo al varco con le orecchie tese e gli occhi pronti a inquadrarne la sagoma, e invece è riuscito a sgattaiolare in stanza in un momento in cui ero a testa bassa, distratta da non so quale occupazione, per cui ho percepito solo il lieve fruscio di uno spostamento d'aria, ho rialzato lo sguardo, e me lo sono già trovato lì alla scrivania come per un gioco di prestigio.
Gli ho fatto parecchie feste, era un pezzo che non lo vedevo e mi mancava.
Ha svolto il lavoro con la sua solita fulminea rapidità, ridendo parecchio fin quasi a strozzarsi, rosso peperone in viso, all'ascoltare gli ultimi capitoli della telenovela della mia vita, poi è diventato serio e grave per farmi una mezza paternale. Infine ha ripreso a divertirsi, affettuosamente esilarato dalle reazioni che mostravo.
E' un bel conforto stare con uno che, pur pigliandoti davvero sul serio, in tre minuti, con immensa tenerezza ed empatia, gridandoti "la dodicenne! La dodicenne!" ti depotenzia un sofferto travaglio interiore riportandolo ad un piano di manifestazione tragicomica di emotività, rassicurandoti sul fatto che non sei matta, non sei nociva, non sei cattiva, sei solo strana, buffa, ma degna, comunque degna, una a cui vale la pena tenere.
Andandosene, prima di godersi il mio abbraccio che sapeva stritolante, si è fatto un'ennesima risatina e poi guardandomi ha esclamato un po' sconcertato:
"Guarda, non avrei mai creduto di poter fare un giorno una cosa del genere. E' la prima volta da quando sono assunto che vengo al lavoro durante la malattia!"
Come mi sono sentita non lo dico, tanto si sa che son melensa.

lunedì 5 marzo 2012

Long Goodbyes

L'acuta e affezionata Kajsa entra in stanza mia, mi legge al volo in volto e mi domanda "sei pensierosa, Cri, vero?"
E' vero. Ho la fronte corrugata e le pupille un po' spaurite come hanno i bambini quando si presenta loro un qualche nuovo interrogativo sulla vita con cui fare i conti, che li costringa a tarare al ribasso la fiducia entusiastica nel loro egocentrismo, tipo la scoperta che quando da noi è notte in un'altra parte del mondo è giorno e la gente è sveglia mentre noi dormiamo. Solo che io non posso chiedere ad un adulto esaustive e rassicuranti spiegazioni, perché l'adulta qui sarei io.
Così non mi sento né esaltata né depressa, oggi, né serena né inquieta, né felice né sofferente. Svuotata, piuttosto, e con la mente immersa in una nebbia, tra le cui brume spunta la novità da affrontare.
Che si tratti del termine di un'esistenza, o della fine di un legame, di un'illusione, di un sentimento o di una concezione di se stessi, è uno sfibrante e dolcissimo stillicidio vivere il tempo sfilacciato dell'addio.


sabato 3 marzo 2012

Quel pazzo sabato

Alla mostra del Tintoretto alle scuderie del Quirinale, ore 19.10.
Io: "Due interi, per favore"
Bigliettaia: "Due interi?"
Io: "Sì, due interi"
Bigliettaia (indicando la Angie) : "Ma perché, scusi, la ragazza quanti anni ha?"

Problema risolto :)

:)

Nannì

Tu guarda se dev'essere una citta poliziana a dar le dritte ad una romana sulla meglio fraschetteria della su' città e a farle godere una magnata e una bevuta come mai prima nella vita.

giovedì 1 marzo 2012

Paper moon

Mi squilla il cellulare.
"Pronto, amore mio, come stai, tesoro bello?"
"Ciao, papà!"