venerdì 26 dicembre 2014

Still Wie Die Nacht

Non ho mai amato il Natale. Non tanto perché da bambina i regali me la portava la Befana (nella mia famiglia disfunzionale i danni venivano accresciuti dalla schizofrenia affettiva dell'esser, sì, maltrattata come una bambola di pezza, trovando però poi sempre il 6 gennaio il tavolo della sala da pranzo stracolmo di doni), com'era usanza romana ai miei tempi non consumistici, quando ancora Babbo Natale risultava, assieme alla Coca Cola, una roba americana, e la festa di Halloween manco si sapeva che esistesse. Non l'ho mai amato perché è una festa meravigliosa e impietosa, che per essere goduta presuppone la condivisione di un sentimento collettivo di serenità e sicurezza che viene dalla certezza di essere benvoluto e di avere un posto nel mondo: certezza che mi è stata preclusa sin dai miei primissimi anni di vita.
Ho invece sempre amato tantissimo Bruno Bettelheim, psicoterapeuta naturalizzato americano, direttore della Chicago Orthogenic School per bambini psicotici, pioniere delle cure della sofferenza psichica dell'infanzia, che ho conosciuto attraverso il suo libro Il mondo incantato durante il seminario sulle fiabe facente parte dell'esame di psicologia dell'età evolutiva (voto: trenta e lode), il mio primo e unico sostenuto in quella facoltà.
Divenuta madre ho spesso consultato, tra tutti i suoi, Un genitore quasi perfetto, celeberrimo testo che esplora con semplicità, saggezza, delicatezza ed ottimismo, le gioie ed i problemi che sorgono nel rapporto quotidiano con i figli. Credo di averne prestate - e mai recuperate - almeno dieci copie, ogni volta ricomprate nell'ennesima ristampa.
Tra i vari capitoli, gli ultimi tre, dedicati alle feste, mi hanno sempre commosso, come mi commuove qualsiasi cosa di cui intuisco e quasi sfioro la bellezza senza riuscire ad accedervi.
Il terzultimo si intitola "Giorni incantati".
"(...) La cosa straordinaria della magia buona dei giorni di festa è il suo potere di conferire sicurezza per tutto l'anno, quando più se ne ha bisogno, nelle situazioni più buie. I bambini lo sanno e, lasciati a se stessi, ricorrono alla forza simbolica che emana dallo spirito della festività per ricevere sostegno morale nei momenti di disperazione. Ce lo dimostra il seguente episodio, riferito dalla psicoanalista svedese Stefi Pedersen.
Quando i nazisti occuparono la Norvegia, la Pedersen fece da guida a un gruppo di profughi, tra i quali molti ragazzini, in fuga nel cuore dell'inverno attraverso le alte montagne che dividono la Norvegia dalla Svezia. Poiché la scalata era difficoltosa ed era vitale compierla nel più breve tempo possibile, tutti avevano dovuto portare con sé solo il poco bagaglio che erano in grado di reggere sulle spalle. (...) Guardando per caso nel sacco di uno dei bambini, Stefi Pedersen vide tra le poche povere cose che vi erano contenute una stellina d'argento, di quelle che si appendono all'albero di Natale. (...) Guardò anche negli altri zaini, e in tutti trovò decorazioni natalizie da pochi soldi, stelle e campane di cartone ricoperto di carta argentata. Erano quelle le cose che quei bambini (perlopiù di religione ebraica, ma di famiglie assimilate, che nel Natale non celebravano un evento religioso, ma una festa della famiglia e soprattutto una festa dei bambini) avevano scelto di portare con sé dalla Norvegia, a preferenza di qualunque altro bene: per il resto, avevano soltanto i vestiti che portavano indosso. Stefi Pedersen ne concluse che si erano portati via quei simboli di un passato felice perché essi soltanto avrebbero potuto irradiare una luce di speranza dentro la buia angoscia di un viaggio verso l'ignoto."
(---) "Le persone che da bambine hanno passato dei Natali particolarmente infelici, tendono per tutta la vita a soffrire di gravi depressioni intorno al periodo natalizio, mentre quelle che da bambine hanno vissuto esperienze felici a Natale non soffriranno in seguito di depressioni in quel periodo, neppure se hanno una vita dura e sono soli."
Insomma, la ricorrenza del Natale - che è festa religiosa e pagana, rito ancestrale di speranzosa evocazione della luce nel cuore della notte più lunga, del buio più profondo, dell'inizio dell'inverno, gioiosa celebrazione del sole che torna a salire sopra la linea dell'orizzonte e della conseguente rinnovata promessa della rinascita della vita e della terra nella prossima primavera - è un evento non neutro, con cui fa i conti l'inconscio collettivo, perché tocca corde essenziali della nostra umanità e del nostro rapporto con i nostri simili e con gli altri esseri viventi, con l'universo che ci circonda e ci sovrasta, con lo scorrere del tempo. 
Ma nei bambini, che ancora nulla sanno delle fatiche e delle angosce della vita, che cosa simboleggia quella luce di speranza, da dove attinge la sua fiamma?
Bettelheim lo spiega quasi alla fine del libro, nelle ultime pagine dell'ultimo capitolo.
" (...) tutti i bambini si domandano che effetto abbia fatto il loro arrivo ai loro genitori, se sia stato accolto con gioia oppure no. Perciò, qualunque festività che celebri la natività ha un effetto rassicurante, e tale appunto è l'evento che più evidentemente il Natale festeggia. La gioia con la quale il Cristo bambino viene accolto nel mondo, la felicità non solo dei suoi genitori ma anche dei pastori e dei tre Re Magi, viene assunta dal bambino come segno che la sua nascita fu un avvenimento gioioso per i suoi genitori e per la collettività, visto che tutti festeggiano il Natale."
Ecco qual è la luce del Natale per i piccoli: la certezza che la loro venuta al mondo sia stata una festa. Una festa talmente importante che ha segnato il corso della storia e che anno dopo anno ricomincia: una festa che li riguarda, poiché, se è Gesù che nasce, i regali in realtà li ricevono loro, ed è dunque evidente la loro associazione a quella nascita: è chiaro che è anche la loro nascita, insieme a quella di un dio bambino, che si festeggia.
Ecco, a me è mancata del tutto questa certezza fondamentale. Ogni giorno della mia esistenza recava un messaggio contrario a questo, un messaggio che mi si imprimeva nel cervello e nell'anima ogni volta con più chiarezza. Per cui per me il Natale è sempre stato un periodo dolceamaro, qualcosa di cui afferravo echi, strappavo briciole argentate, senza diritto a parteciparne. Fare il presepe, l'albero scintillante, camminare sotto le luminarie delle strade, in mezzo alle melodie sfumate delle carole suonate dalle zampogne era solo un'occasione di rimpianto per un eden da cui ero stata estromessa, un banchetto dove m'ero sempre sentita fuori della porta, non invitata, mentre gli altri all'interno si divertivano ed erano felici.
Quest'anno, invece, per la prima volta, io lo sento, il Natale. Lo comprendo, oltre ad intuirlo.
Quest'anno non ho fatto presepi né alberi addobbati. Perché non ho bisogno di luci, intorno a me.
Perché quest'anno la luce la sento dentro, mi si è accesa nel cuore.



Still wie die Nacht 
und tief wie das Meer, 
soll deine Liebe sein!
Wenn du mich liebst, 
so wie ich dich, 
will ich dein eigen sein.
Heiß wie der Stahl 
und fest wie der Stein 
soll deine Liebe sein!



martedì 23 dicembre 2014

Le invasioni barbariche

E' di oggi la notizia dell'interruzione del concerto alla Scala da parte del direttore d'orchestra Daniel Barenboim - non esattamente il primo che passa per strada, come si dice dalle mie parti - infastidito oltre ogni limite di sopportazione dall'incessante, esecrando e villano scrosciare del flash del cellulare di una signorina che invece di ascoltare con attenzione, compostezza e, direi, pudico rispetto, la delicatissima sonata di Schubert appena iniziata nella magia di un soffio di "pianissimo" e "moderato" si dava alla fotografia compulsiva. Di che, poi, non è dato intuire.

Io stessa ho assistito, nell'agosto del 2013, disorientata e poi pietrificata dallo choc, all'improvviso infrangersi della quarta parete da parte di un esasperato Maurizio Donadoni, precipitato bruscamente sulla terra assieme a tutto il pubblico dalla sospensione dell'incanto del Riccardo III a causa dell'improntitudine prossima alla bestialità di una cretina che, nell'arcano e fiabesco scenario del Globe Theatre, seduta in primissima fila proprio sotto l'attore, continuava imperterrita, nel bel mezzo del suo monologo più intenso e terribile, a messaggiare sul suo cellulare.

Di tante tragedie e minacce che ci circondano questa, che sembra così di poco conto, mi appare invece una delle più odiose e insidiose. Perché misura con impietosa esattezza l'ampiezza del vuoto cosmico dilagante nelle menti e negli animi di tanti membri del consesso umano.

L'incredibile progresso tecnologico sembra direttamente proporzionale al regresso antropologico. Gli effetti sono abnormi, le conseguenze difficilmente quantificabili.

Per ora assistiamo, spettatori inermi e impotenti, all'avanzata dei nuovi barbari: i quali, al posto della clava, agitano forsennati il telefonino. Non meno dotato di potenzialità distruttiva.

sabato 13 dicembre 2014

The age of innocence

Sono stata una bambina maltrattata e abusata. Non da estranei, ovviamente, ma proprio da coloro che avrebbero dovuto essere i custodi della mia vita, il porto sicuro della mia esistenza, la fonte primaria, essenziale, dell'amore e della considerazione per la mia piccola persona. Sono stata vessata, brutalizzata, usata, manipolata, traumatizzata, terrorizzata. E convinta, sì, sono stata convinta, da loro, che mi meritassi tutto questo, perché ero cattiva. Che la colpa di tutto questo fosse mia.

Ce ne hanno messo, per piegare la mia forza di volontà, la mia audacia infantile, la salda e incorrotta fiducia in me stessa, la mia vivacità incomprimibile, tentando con ogni mezzo di spaccarmi dentro. Nonostante i loro sforzi inesausti, la loro furibonda tenacia, sono riusciti, certo, ad incrinarmi giorno dopo giorno, in uno stillicidio atroce, incessante, ma non a rompermi. Mi hanno aperto delle crepe profonde, ma non sono riusciti a farmi a pezzi.

Oggi non mi importa più di quello che mi hanno fatto. Oggi riesco a pensare che l'hanno fatto a una bambina e io non sono più una bambina. Che perciò ora posso sopportarlo, posso assorbirlo dentro la mia carne. Che non è più grave, non fa più male. Che posso persino amarle, le violenze che ho subito, perché sono parte di me stessa, quella me stessa che ho finalmente imparato ad amare, che oggi amo, tutta intera. Che oggi persino quelle mi sono care, perché anche quelle sono me, mi appartengono, mi costituiscono, mi definiscono per quella che sono, unica, inconfondibile.

Però, se mi guardo indietro, mi dico: è stata davvero solo questione di fortuna. E' senz'altro solo per immensa buona ventura se, divenuta adulta, e cimentatami nei panni di moglie, e madre, nel vano tentativo di riavvolgere il nastro e costruirmi un'esistenza con una storia e un finale più felice, i miei cattivi spiriti, tormentandomi senza darmi requie, non sono tuttavia riusciti a farmi varcare l'infinitesimo limite, la millimetrica soglia che separa la normalità dalla tragedia, la terra ferma dal baratro. Forse è stato per grazia celeste, o per mero accidente, che quella notte in cui la giacobina di un mese e mezzo urlava per la fame io, afferrato il coltello del pane in preda al panico e all'angoscia per le sue grida, mi sia tagliata di netto la punta del dito invece di tagliare il suo tenero corpicino. Ed è senz'altro pura botta di culo se, esasperata dal pianto di ambedue i miei figli neonati che mi trivellava interiormente e rimestava nella carne viva delle mie ferite, io non ho mai procurato loro danni cerebrali permanenti nello scuotere violentemente le loro carrozzine in preda a raptus omicida. E so solo io lo sforzo terribile che in un paio di occasioni ho dovuto compiere su me stessa per non afferrarli e scaraventarli fuori dalla finestra, letteralmente.

Per tutto questo io oggi dico - di una ragazzina divenuta madre a diciassette anni; una ragazzina per cui la sua propria madre, che l'ha concepita con un uomo che non è suo marito e cresciuta indifesa e discriminata nella più completa ignoranza della questione, che di questa verità a cui le ha negato accesso per tanto tempo l'ha resa edotta vomitandogliela addosso solo durante la sua adolescenza, oggi, tramutatasi nella sua più accanita e feroce accusatrice, svelando così profondi sentimenti di odio e rancore nei suoi confronti, ipotizza scenari di efferata spietatezza, essendo capace, secondo quanto riportano i giornali, di affermare "era violenta già a sette anni" -: nessuno tocchi Veronica, Veronica è mia.



venerdì 12 dicembre 2014

Il boom


La madre di tutte le stragi.

Che in questi giorni, con la caduta del velo di Maya e la visione in piena luce di ciò che solo a chi voltava la testa dall'altra parte era occulto - il ritorno alla ribalta, anzi, la persistenza della presenza sulle scene della vita pubblica di terroristi coinvolti, per adempimento a volontà autoctone e terze, nelle vicende delle stragi di Stato assieme a servizi segreti deviati e associazioni a delinquere i quali tutti hanno continuato per tutto questo tempo a tessere le loro trame indisturbati fino ad avvilupparne completamente ogni ganglio della società e dell'amministrazione a tutti i livelli, dalla base ai vertici più elevati -, in questi giorni bisogna ancor più sforzarsi di non dimenticare.
Perché questa madre, a quanto pare, non ha ancora finito di figliare, e forse non lo farà mai.

Viva l'Italia. Del 12 dicembre.

domenica 2 novembre 2014

E la vita, la vita

A una settimana di distanza da un evento mai abbastanza celebrato e condiviso sui blog, su FaceBook, su Google + e su altre varie piattaforme dell'etere, finalmente anch'io riesco a trovare il modo di entrare qua dentro per partecipare alla gioia collettiva, e far partecipare gli altri della mia gioia personale.
La cronaca delle due gloriose giornate è stata egregiamente ed efficacemente narrata a parole da Sandra ed Ambra,  e con le grandiose immagini di Stefano  - due delle quali rubo per corredare il mio post, facendole ammirare qui sotto - ed Erika; uno splendido commento, mirabilmente contrappuntato dallo sfavillante e famoso Valzer di von Weber, è stato offerto in lauto pasto alle nostre menti e ai nostri cuori da Annamaria.
Con tanta grazia divina che mi ha preceduta, che mi resta da dire o da fare?
Solo tentare di catturare - come la versione della canzone qua sotto, cantata dal romano Baglioni e dal milanese Jannacci durante una memorabile puntata di Anima mia, programma TV che mi aiutò non poco a superare l'ansia e la fatica degli ultimi mesi della mia seconda gravidanza, quella da cui sarebbe saltata fuori, annunciandosi al mondo con una capriola, la giacobina - la scintilla scoccata tra una romana e dei milanesi: la quale, smaliziata, ironica e soavemente disincantata, ha dato luce e impulso a due giorni di vera vita, dove c'è "chi soffre soltanto d'amore", chi "continua a sbagliare il rigore", c'è "chi un giorno invece ha sofferto e allora ha detto io parto, ma dove vado se parto (sempre ammesso che parto)" ; dove "basta avere un ombrello che ti pari la testa", e tanto a noi nemmeno è servito, in una Milano agghindata di un sole fulgido come quello della più bella ottobrata romana. Dove c'è chi in fondo al suo cuore ha una pena, c'è chi invece ci ha un altro problema, e c'è sempre lì quello che parte, ma dove arriva se parte. Ciao!
(Alla prossima)







General hospital


Ciascuno ha gli amici che si merita.
Io ne ho pochi ma molto buoni, e tutti eccezionali ed originali.
Anche io, anche io, diranno tanti: l'affermeranno, son certa, pressappoco tutti quelli che passeranno di qui.

Ma un amico che se gli vai in casa tutta giuliva per raccontargli nei minimi dettagli e con molti "Ah!" e "Oh!" la cronistoria del felice incontro con un gruppo di comuni amici poi ti offre in contraccambio un triage come al Pronto Soccorso, schiaffandoti un dito dentro la macchinetta che illustra il responso sul tuo battito cardiaco e la tua ossigenazione, sfido chiunque sul punto!, scommetto che ce l'ho solo io.

venerdì 24 ottobre 2014

La piccola principessa

"Ma la conquista nella quale ho impegnato tutto me stesso - la più ardua - è stata quella della libertà di assentire. Io volevo lo stato in cui ero; durante gli anni in cui dipesi dagli altri, la mia sottomissione perdeva il suo contenuto amaro, e persino indegno, se mi adattavo a considerarla un esercizio utile. Ciò che avevo, ero stato io a sceglierlo costringendomi soltanto a possederlo totalmente, e ad assaporarlo quanto più possibile. I lavori più aridi li eseguivo agevolmente, solo che mi sforzassi a prenderci gusto. Se un soggetto mi ripugnava, ne facevo argomento di studio; avevo l'accortezza di ricavarne motivo di gioia. Di fronte a un caso imprevisto, o disperato, un'imboscata, un fortunale - una volta prese tutte le misure concernenti gli altri - facevo del mio meglio per rallegrarmi del caso, per godere dell'imprevisto che mi si offriva, e l'imboscata o la tempesta s'inserivano senza fatica nei miei progetti o nei miei sogni. Persino immerso nella sciagura più tremenda, ho percepito l'istante in cui lo sfinimento le sottraeva un poco del suo orrore, in cui la facevo mia accettando di accettarla. Se mi capiterà mai di subire la tortura - e s'incaricherà la malattia, senza dubbio, d'impormela - non sono assolutamente certo di ottenere da me stesso, a lungo, l'impassibilità d'un Trasea, ma avrò almeno la risorsa di rassegnarmi ai miei lamenti. E in questo modo, con un misto di riserva e di audacia, di sottomissione e di rivolta ben concertate, di esigenze estreme e di concessioni prudenti, ho finito per accettare me stesso."

Leggo a spizzichi e bocconi - dopo una vita di scandalosa procrastinazione! - Memorie di Adriano; lo centellino, perché ad ogni incedere di pagina trovo nuove perle da serbare, altri ennesimi sunti imprescindibili sulla natura umana, la vita, le relazioni, e tutto ciò che lambisce o investe un individuo nel suo percorso terreno. Fermandomi, ogni tanto, per annotare una minima parte di quest'essenzialità che mi colpisce.
Oggi tocca a questi pensieri qua sopra, che io faccio miei in procinto di partire per Milano in vista d'un appuntamento - da me ardentemente agognato - con Ambra, Sandra e gli altri assieme a un'orticaria che si è stretta a me di tenerissima amicizia non dandomi requie da lunedì in simpatico sincrono a un doloroso reflusso gastro esofageo che dovrò tenere a bada alla stregua d'una domatrice di fiere per non farmi da esso rovinare il gusto delle prelibatezze che m'aspettano alla cena di sabato e al pranzo di domenica! Perché è solo accettando, incorporando, accogliendo gli imprevisti alla maniera degli eventi più fausti, per forgiarli, forgiando la mia propria esistenza, ch'io posso fungere, se non da imperatrice, almeno da piccola principessa di me stessa.

giovedì 16 ottobre 2014

The way we were

"!!! Pronto!!! Ma davvero sei tu??? Sei tu davvero???"
"Ciao, Cri. Ti disturbo?"
"Seeeeee! Certo che mi disturbi, e come no!"
"Sul serio, ti disturbo?"
"Ma che dici, tu disturbi? Tu? E poi come fai a disturbarmi? E' pomeriggio inoltrato e qui non c'è più nessuno, non sto facendo niente. Mica lavoro da un commercialista, io."
"Ahem. Ma è possibile che facciate tutti cinquant'anni? Vivo circondato da cinquantenni. Ma è proprio vero che hai fatto cinquant'anni anche tu?"
"Oddio, mi commuovi, te ne sei accorto solo dopo un mese. Ecco perché m'hai chiamato così all'improvviso! E com'è che ti viene in mente proprio adesso? Ah, ci so' arrivata! Ieri ha fatto cinquant'anni Fabio, tu gli hai fatto gli auguri e lui ti ha ricordato che anch'io... Oddio! Meno male che m'hai chiamata, mi sono dimenticata del compleanno di Fabio, come ho potuto!"
"Ahahah. E insomma, adesso sei una cinquantenne. Incredibile."
"Beh, tu sei un sessantenne, se è per questo. Ancora più incredibile."
"Mpf."
"Pensa, quando ci siamo conosciuti avevi trentun anni"
"Trentun anni? Cavolo."
"Sì, tu trentuno e io ventuno. Praticamente ti conosco da ben oltre metà della mia vita. E circa metà della tua."
"Era il 1985, allora?"
"No, il 1986. Aprile. Vabbé, tu ne facevi trentadue ad agosto, io ventidue a settembre. Il tempo vola, vero?"
"Accidenti. Impressionante. E quanto sei stata con noi?"
"Da aprile 1986 a febbraio 1989. Poco, no? Proprio poco, a paragone del segno indelebile che ho lasciato a studio in tutti voi."
"Eheh."
"Davvero, sai, senza scherzi, quello è stato il periodo più felice della mia vita. Della mia vita fino a quel momento, perlomeno. Non me ne dimenticherò mai, finché vivo. E quando avrai cent'anni e io novanta ti farò gli auguri per il compleanno anche allora..."
"Eh, stai fresca. Ce ne vole. Campa cavallo. Avoja!"
"Ahahahah, sì, hai ragione. Avoja!"
"Senti, quant'è che non vieni a trovarci?"
"Boh sarà un anno, più o meno."
"Perché non passi?"
"Perché avete sempre da fare! L'ho detto a Rosi: fatemi un fischio, e io arrivo con le paste, così festeggiamo assieme tutti i compleanni tondi di questo 2014."
"Con che arrivi?"
"Con un vassoio di paste! Ma tu tanto non ci sei mai, lo so. Conosco il tuo essere un po' orso, e lo rispetto."
"Ma non è vero, dai. E poi mica dev'essere un giorno che va bene solo a me. Dev'essere un giorno che va bene a tutti."
"Ah, le paste vanno bene a tutti sempre, lo sai. Non li conoscessimo, io e te! Organizziamo, allora?"

(...)

"Allora restiamo così."
"Grazie di avermi chiamato."
"Grazie a te. Un bacio."
"A te tanti. Tanti baci. Ciao, a presto!"
"Stammi bene, Cri. Mi raccomando. Dico davvero."
"Stammi bene anche tu. Tanto. Davvero davvero, caro boss."

Sono una donna di mezza età. Non ho più giovinezza, non ho la forza di un tempo, non ho più speranze né grandi sogni. Bellezza non ne ho avuta mai. Ho dispiaceri, invece. E ansie. E dolori.
Ma voglio bene da quasi trent'anni a una persona speciale che da quasi trent'anni mi vuol bene.
E se non fossero passati trent'anni non ne avrei avuta una così rotonda, esatta consapevolezza.
Perciò va benissimo così.
Non c'è nessuno al mondo più ricco di me.

About a boy

"Deliberatamente, da me non invitato, penetrasti nella mia sfera, usurpasti in essa un posto per il quale non possedevi né diritti né attitudini, ed essendo riuscito, con strana ostinazione e col rendere la tua stessa presenza parte d'ogni singolo giorno, ad assorbire l'intera mia esistenza, non sapesti far altro che ridurla a pezzi. Per quanto questo ti possa parere strano, era più che naturale un simile comportamento da parte tua. Se si dà ad un bimbo un giocattolo troppo bello per la sua piccola mente, troppo bello per i suoi occhi desti solo a metà, lui rompe il giocattolo, se è prepotente, o lo lascia cadere, se è apatico, e se ne va a cercare i compagni. Così è stato con te. Dopo esserti impadronito della mia vita non sapevi cosa farne. Non potevi saperlo. Era una cosa troppo stupenda per appartenerti. Avresti dovuto lasciarla cadere di mano e tornare ai tuoi amici, ai tuoi giochi. Ma, disgraziatamente, eri prepotente, e così l'hai fatta a pezzi. Questo, in definitiva, è l'unico segreto di tutto quanto è accaduto. Poiché i segreti son sempre più piccoli delle loro manifestazioni. Per lo spostarsi d'un atomo il mondo può crollare. E per non risparmiare me stesso più di quanto non t'abbia risparmiato, voglio aggiungere questo: per quanto fosse pericoloso per me l'incontrarti, diventò fatale per il particolare momento in cui t'incontrai. Poiché tu eri in quell'età della vita in cui tutto quel che si fa è solo gettare il seme, e io ero in quell'età della vita in cui tutto quel che si fa è raccogliere il frutto."
dal De Profundis
(Oscar Wilde, Dublino, 16 ottobre 1854 - Parigi, 30 novembre 1900)

sabato 4 ottobre 2014

Il cielo

Per uno di quei provvidenziali imprevisti che con una certa costante cadenza increspano lo stagno quieto delle mie giornate - ai quali mi assoggetto arbitrariamente a seconda dell'umore del momento, sconfortata e riottosa come dovessi affrontare un macigno piovuto dall'alto dinanzi allo stesso frangente che potrebbe suscitarmi l'entusiasmo di una bambina grata di una sorpresa inaspettata, e spesso in preda ad un'ambiguità di sentimento che ricomprende ambedue le reazioni - mi ritrovo, alle otto di sera dell'ultimo giorno di settembre, anziché nella vagheggiata pace della mia casa, errante in smagliante solitudine per lungotevere di Castello tra ponte Sant'Angelo e ponte Umberto. 

Le fatali circostanze che mi costringono a concedermi all'opportunità di occupare quel repentino spazio d'ozio non cesseranno che di lì a un paio d'ore; e così per ora io non posso far altro che passeggiare svagata e tuttavia determinata, avvolta dalla soffice dolcezza del crepuscolo, sotto un cielo di un colore incredibile tra il viola e l'azzurro cupo, che sarebbe un mero grigio virato al nero senza l'ausilio dell'oro fluorescente della tersissima falce di luna spiccata al centro esatto della volta, senza i suoi bagliori amplificati nella replica di se stessa riflessa e rifranta nelle acque del fiume scintillante di luci, senza il torreggiare cupo e maestoso del grande mausoleo di pietra contrastante al nitore marmoreo dei palazzi stagliati nel panorama oltre la riva, e dei contorni verde cupo, perfettamente distinti ed emergenti dall'ombra, delle frondose chiome degli alberi a spezzare le squadrature monumentali degli antichi edifici, dei solenni ponti.
Una tristezza squisita si bilancia perfettamente nel mio spirito alla letizia in una tranquillità sublime, pacata e intensa. Finissime, l'una e l'altra: tenui ma esatte, disgiunte, armoniose, come gli accordi di una polifonia.

Con l'animo ostaggio e custode di questa duplicità che si replica all'infinito, passo dopo passo di colore alterno, ora bianco ora nero, ora somma dei colori ora totale assenza di colore, come avanzassi su una scacchiera, cedo all'intenzione e mi abbandono al caso di attraversare il fiume, camminare fino al ponte di Ripetta, arrivare ai piedi dell'Ara Pacis, restare brevemente ferma e ritta al centro del suo biancore, sentir fiorire nella mente un'idea di cimento che sarebbe stata una tentazione fino a ieri, e forse lo è ancora oggi, non c'è che provare, e anche provare è una tentazione, la tentazione di dire "proviamo", e infine accogliere un ricordo sinora accarezzato e respinto, non tollerato e rimpianto, e infine arrendermi, sedendomi quasi al sommo della sua scala esterna, poggiando contro il muro la spalla sinistra, replicando con buona approssimazione la postura di quel pomeriggio autunnale di tante stagioni fa, sovrapponendo la me stessa di oggi a quella di allora.
Non c'è che provare, e io ci sto provando. E improvvisamente provare non è più provare.
E' essere.
La me stessa di oggi si ricongiunge a quella di allora. Scoprendo che combaciano, quasi perfettamente. Lei, che oggi è così cambiata, è identica a quella. Inespressa, aerea, dove oggi invece è densa, compatta: però lei, sempre lei. Si riconosce. Si riunisce a se stessa.
Allora accanto a lei, accovacciata, affannata a tentare di contenerla e di calmarla, c'era una persona che oggi non c'è.
Non importa. Perché quell'assenza è talmente vivida, talmente bella oggi, depurata da ogni amarezza, da esser presenza. Come se l'alone di quella persona fosse rimasto qui ad aspettarla, a testimoniare l'evidenza, l'autenticità di un evento spartiacque della sua esistenza. Perché a compensare la mancanza di quella persona, al posto di quella persona oggi c'è lei tutta intera, nei suoi contorni. I contorni di lei.
I cui riflessi lei aveva creduto di intravedere specchiandosi in un altro essere umano.
Lei, che ora accarezza la memoria fragile, lacunosa, di quel pomeriggio, con tenerezza buona, sana.
Ha nostalgia di quel pomeriggio? Sì, tanta. No, per niente.
Quel pomeriggio lei soffrì. Soffrì molto, in quei giorni e dopo quei giorni, per lungo tempo. Oggi non soffre più. Il marasma di quel periodo si è coagulato nelle sue vene, si è riassorbito nella sua pelle, è tornato dentro di lei, la costituisce, la identifica. E' un segno irreversibile nella sua carne, un terzo occhio che mai più si chiuderà al centro della sua fronte, che le dona una visione di se stessa e degli altri, una compassione per se stessa e per gli altri, che è la sua più grande risorsa di energia vitale, la sua sorgente inesauribile.
Questo lei comprende, oggi, attraversando il suo tabù, toccandolo con mano, scoprendolo caldo, buono, rigoglioso di doni.

E' mai ripassata di qui, quella persona? Quella reale, quella di carne e sangue? Si è mai riseduta, anche lei, su questi scalini? Ha mai ripensato a quel tragicomico, buffo, imbarazzante, struggente pomeriggio?
No, lei crede di no. Per le circostanze di allora, per quelle di oggi, è assai verosimile di no.
Certe cose hanno smosso solo lei. Hanno valore solo per lei.
Anche se le riesce difficile crederlo, che abbiano toccato così in profondità lei e non l'altro, sa di non sbagliare. E di non doversene avere a male. E di non aversene, in effetti, a male.
Perché è questa, solo questa, la misura che conta. Se hanno valore per lei, hanno valore per l'altro. Hanno valore per tutti.
Perché lei ha trovato i confini del suo spazio.
Perché lei ci è arrivata, ad avere il cielo.

sabato 27 settembre 2014

Il maestro e Margherita


"Sai, la gente ha bisogno di verità. Si dice sempre che le persone hanno bisogno di amore, di comprensione. Ed è vero, certo. Ma, prima ancora che di amore e comprensione, le persone hanno un estremo bisogno di verità."
Il mio maestro jedi le sa tutte.

sabato 20 settembre 2014

Cinquanta sfumature di Cri

1. Fa di preferenza le cose all'ultimo momento.
2. Si mangia le unghie da quando aveva cinque anni.
3. Scrive con tre dita, appoggiando la penna sull'anulare.
4. A quattro anni le viene ricucito con quattro punti il mento.
5. Ad otto con tre punti la tempia sinistra.
6. A quattordici con due punti la testa.
7. A trentadue e mezzo si taglia via la punta dell'anulare sinistro mentre tenta di aprire con un coltello da macellaio una confezione di latte in polvere per la giacobina.
8. A quarantatré si ustiona un braccio facendosi scoppiare in mano una bottiglia di alcool spruzzando il quale aveva appena finito di attizzare il fuoco nel camino della casa di campagna.
9. E' molto disordinata e disorganizzata.
10. Patisce moltissimo il disordine e la disorganizzazione.
11. Ha sofferto di attacchi di panico.
12. Ha sofferto di attacchi di panico prevalentemente alla guida di autoveicoli imbottigliati nel traffico.
13. Nel corso di ogni attacco di panico occorsole alla guida in un autoveicolo imbottigliato nel traffico è sempre stata in grado di uscire dalla fila, parcheggiare o accostare la macchina al bordo della strada, prelevare gli effetti personali dall'abitacolo e chiudere a chiave lo sportello, in preda alla follia e contemporaneamente alla lucida cautela di evitare, qualora fosse sopravvissuta, ulteriori spiacevoli conseguenze (ossia le funeste ire materne per accidentale furto dell'autoveicolo o di qualcosa in esso contenuto).
14. Mulina le braccia mentre parla, facendo spesso volare bicchieri dai banconi di bar, fogli dalle mani degli interlocutori, occhiali dalla sua faccia.
15. Non parla, grida.
16. Se deve spiegare qualcosa, la complica.
17. Parla da sola a voce alta.
18 Se vede qualcuno parlare da solo a voce alta pensa che sia pazzo.
19. A dodici anni ha scritto col cuore spezzato una lettera alla se stessa adulta per pregarla di guardare per amor suo le future repliche dello sceneggiato appena terminato.
20. Non riesce a resistere, iniziando un libro, a non sbirciarne subito la fine.
21. Se va a vedere un film di norma si premunisce di conoscerne la trama, e soprattutto il finale.
22. Non sopporta la tensione di quando, in un racconto o in un film, le cose si mettono male, per cui spesso si alza in preda alle ambasce e se ne va, in attesa di tempi migliori, o salta le pagine penose.
23. Ha avuto una smodata passione per le telenovelas, patendo pertanto moltissimo gli ingarbugliamenti durati parecchie puntate.
24. Ha avuto per un breve periodo della vita una buona padronanza dello spagnolo scritto e parlato.
25. Tale periodo ha coinciso col suo innamoramento per Juan del Diablo, pirata messicano della telenovela Corazon Salvaje.
26. S'è infatuata di moltissimi uomini nella sua vita, la maggioranza dei quali non se n'è nemmeno accorta.
27. S'è innamorata di soli altri tre uomini nella sua vita, oltre al summenzionato Juan Del Diablo.
28. Il primo dei tre era il chierichetto di due anni maggiore di lei che serviva Messa nella cappella delle suore quando era bambina. Praticamente l'unico maschio che frequentasse. Ricambiata, a sua insaputa, dai cinque ai tredici anni (ha scoperto da adulta).
29. (Da adolescente il chierichetto non l'amò più, o forse sì, non fu molto chiaro: ad ogni modo si è fatto prete.)
30. Ha fatto sesso tutta la vita con un uomo solo.
31. Il quale non è uno dei tre (o dei quattro, contando anche Juan Del Diablo).
32. Si sta gradatamente attenuando la sua dipendenza dalla cioccolata: lo prende per il segno che il suo corpo, finalmente, sta riuscendo a produrre endorfine.
33. Va pazza per gli spaghetti di riso alla piastra con verdure e gamberi di Sonia, la sua ristoratrice cinese.
34. Si ubriaca ogni volta che supera la soglia di bevuta di mezzo bicchiere.
35. Quando si ubriaca di (buon) vino rosso piange.
36. Mangia con gioiosa voracità. Adora mangiare.
37. Detesta cucinare.
38. E' squilibrata (ci credereste?).
39. Non ha nel suo guardaroba pantaloni.
40. Non ha nel suo guardaroba gonne lunghe oltre la metà coscia.
41. E' stata una bambina decisamente bella sino agli otto anni di età.
42. E' stata deturpata a nove anni da catastrofici interventi correttivi (occhiali di tartaruga e apparecchio per i denti)
43. Ha sempre avuto nelle gambe il suo punto di forza.
44. Gambe che, diventate budinose con la vecchiaia, le piacciono ancora di più.
45. Come dice il suo maestro jedi, soffre di un dissidio interiore: col cervello disprezza la gente ma col cuore non può fare a meno di amarla.
46. Pur riconoscendo la bontà dell'asserzione soprastante, non può fare a meno di rilevare l'esistenza di persone nei confronti delle quali questo suo dissidio mente/cuore non si attiva: perché le viene spontaneo o disprezzarle non amandole, o amarle non disprezzandole affatto.
47. E' profondamente grata e affezionata al suo maestro jedi, che il cielo lo conservi e gli dia lunghissima vita.
48. E ad un piccolo, preziosissimo gruppo di persone a lei infinitamente care.
49. E adesso deve chiudere perchè sta per andare a cena in Toscana
50. Perché oggi questa cifra d'oro è il numero degli anni che compie. Auguri!

Streets of Philadelphia

Ah, la musica, che cosa si farebbe se non esistesse. Circola spesso su FaceBook un adagio che dice: ringrazio la musica perché c'è stata quando non c'era nessun altro.
Ed è una grande verità, questa.
Così accade che io, più di un anno fa, in uno dei miei momenti down, nei quali una nostalgia di qualcosa di mai esistito mi riagguanta e stringe il cuore in una morsa penosamente intollerabile, sento a un tratto scorrere nella radio l'onda ruvida e vellutata di una canzone sommessa, cantata quasi per scommessa, che come un velo impalpabile di tulle si distende, si distende fino a coprire tutto l'orizzonte. Non me ne avvedo subito: persa nella mia malinconia sulle prime non ci faccio caso, mi perdo le battute. Ma poi, pian piano, comincio a distinguerla, la sua melodia prende ad esser colta dal mio orecchio, a fissarsi nella mia mente. E mi penetra dentro, e mi gocciola nelle ferite di nuovo scucite come miele, come unguento balsamico, e mi calma, e mi dilata, e mi apre di nuovo alla vita, e ad una gioia quieta, ad una rassegnazione dolce e colma d'amore. Mai sentita prima, o forse sì, ma senza riceverne una impressione così vivida come oggi.
La cerco per un anno, questa canzone. Passa assai raramente sulla radio, ma ogni tanto la afferro. Mai presentata, mai citata nel titolo, accidenti, che jella. Il mio inglese è assolutamente primitivo, e poi il tizio che canta biascica talmente (il che dovrebbe costituire un primo indizio atto a rintracciarla) che sarebbe comunque quasi impossibile captare qualche parola. Io catturo un termine qua e là, mi precipito su Youtube con un "like stone" prima di dimenticarmene, ma - ovviamente - da una traccia così esile non cavo nulla.
Una sera del giugno scorso sono in solitaria attesa di entrare al cinema per l'ultimo spettacolo a vedere un film bello e dolorosissimo, Alabama Monroe (che mi farà riflettere e rimettere in squadra a lungo), e dagli altoparlanti posti all'esterno la filodiffusione attacca, in poco più di un sussurro, la fatidica canzone (e anche lì, dal fatto che esce dagli altoparlanti di una multisala, dovrei cogliere un indizio, ma io, macché). Vado in orgasmo, mi avvicino il più possibile agli apparecchi, mi tendo, quasi, per carpire finalmente quella melodia inafferrabile, ma è inutile, stringo solo aria, quella mi sfugge come una farfalla che schiva il retino. E dentro di me mi ammonisco: Cri, se sei così impedita da non avere la faccia di entrare e chiedere alle maschere che canzone è, sai che ti dico, peggio per te, tieniti lo spasimo e ben ti sta. Tornata a casa mi replico: ok, è andata così. Ma sono sicura che se avrò pazienza e smetterò di farmene ossessionare io 'sta canzone la troverò, prima o poi. E' solo questione di tempo. Le cose accadono. Bisogna avere fiducia.
E accade così che martedì notte, tornando da Villa Borghese e dal Globe Theatre dove ho ascoltato cascate di diamanti sciorinate dalle bocche dei giovani protagonisti in guisa di versi del Grande Bardo in Pene d'amor perdute, io accenda la radio e la ascolti di nuovo, questa canzone.
Passa su Radio M100, che ha un sito streaming dove si possono rintracciare i brani della sequenza della playlist sino a un paio d'ore prima.
Mi precipito a casa, accendo il pc, apro il sito, la cerco, la trovo.
E scopro che ha gli anni di mio figlio, ventuno. E che è a dir poco famosissima.
Ma per me, che detesto Tom Hanks, non amo the Boss e mi son sempre accuratamente tenuta lontana dal film per evitarmi strazi troppo pesanti da fronteggiare, è stata sconosciuta fino a un anno prima.
Ora non più.
E allora la mente mi parte, e mi comincia a vorticare su un delirio di corrispondenze, di ulteriori aspettative, di interpretazioni speranzose del "segno".
Però mi governo, e mi impongo: basta, Cri. Non ci saranno altre belle sorprese oltre a questa. Attestati qui, e goditi la soddisfazione e la quiete del momento. Che è già tanto. E' già tutto.
E allora mi placo, senza dispiacermene eccessivamente. Fa niente, mi dico. Me la farò bastare, la musica. Che c'è stata quando non c'era nessun altro, ora come allora, mentre anch'io percorro le strade della mia città, della mia vita.
E me la regalo qui, per il mio cinquantesimo compleanno.
Bisogna avere fiducia.




I was bruised and battered and I couldn't tell
What I felt
I was unrecognisable to myself
I saw my reflection in a window I didn't know
My own face
Oh brother are you gonna leave me
Wastin' away
On the streets of Philadelphia
I walked the avenue till my legs like stone
I heard the voices of friends vanished and gone
At night I could hear the blood in my veins
Black and whispering as the rain
On the streets of Philadelphia
Ain't no angel gonna greet me
It's just you and I my friend
My clothes don't fit me no more
I walked a thousand miles
Just to slip this skin
The night has fallen, I'm lyin' awake
I can feel myself fading away
So receive me brother with your faithless kiss
Or will we leave each other alone like this
On the streets of Philadelphia

venerdì 19 settembre 2014

Harry Potter and the philosopher stone

Non scrivo più, ho un blocco, non ci riesco proprio. Me ne scuso, perché l'unico modo per stare in contatto con voi, che amo e tengo nel cuore e nella mente, è scrivere, e dunque viene così a mancare l'essenziale. Penso tanto, invece: ma senza più ossessività, senza ansia, senza accanimento.
La verità è che qualche tempo mi sento ricolma di una sensazione di pienezza e appagamento che non avevo mai provato prima. Saranno le prime avvisaglie della incipiente maturità. Sono come Albus Silente davanti allo specchio dei desideri: con la sola differenza che lui ci vedrebbe un paio di calzini e io invece una pancia piatta...

domenica 17 agosto 2014

La marsigliese

Io (alla giacobina, in un momento di tenerezza materna): - Sappi che, per rispetto della tua privacy, e anche perché trovo che ti stia a pennello, tu sul web sei da me apostrofata La giacobina. 

La giacobina: - Sì, mi sono giunte all'orecchio voci lontane che tu m'appelli così, La giacobina qui, La giacobina là. Ma perché io sarei La giacobina?

Io: - Stai scherzando, vero?

La giacobina (sussiegosa): - No! Non ho le idee chiare su chi fossero i giacobini, alla Rivoluzione Francese non ci sono ancora arrivata a Storia.

Io: - Seeeee. Ad ogni modo, ti scoccia se ti chiamo La giacobina? Posso continuare a farlo?

La giacobina: - Sì, mi scoccia. No, non puoi.

Io: - Allora continuo.

La giacobina: - OK.

martedì 12 agosto 2014

Di sole e d'azzurro

Sono a Roma a ridosso del Ferragosto, come mi capita ormai da qualche anno per motivi non tanto economici quanto familiari e personali. 
(Familiari: figli per ora persi poiché ormai, se non ancora in via ufficiale, di fatto mentalmente e fisicamente autonomi e mentalmente e fisicamente pigri in maniera irriducibile oltre ogni immaginazione, e dunque impossibili da convincere o vincere nella battaglia di svellerli dal nido e dalle carabattole di cui l'hanno infarcito e ostruito in favore di un periodo di vacanza, in nostra o in altrui compagnia.
Personali: l'indolente volontà di testimoniare a me stessa - corroborata anche grazie a quel loro così manifesto ed ostinato disinteresse alla questione - l'anarchia del non rispetto dei costumi borghesi in me da sempre latente, e sotto a quella l'affrancazione dalla palude del mio inconscio di bambina che, condizionato all'epoca dal malessere di vivere nel misero e doloroso isolamento di una famiglia squisitamente disfunzionale avvalorato dall'oggettiva circostanza del divenire il mio quartiere di residenza, per almeno tre delle quattro settimane del mese di agosto, un vero e proprio deserto, mi faceva patire l'insostenibile acutezza di un senso di abbandono, come di un punitivo esilio dal consesso civile, ad un segno tale da farmi considerare l'odiosa e coatta migrazione in caotici e scomodi luoghi di villeggiatura una benedizione, pur di allontanarmi da quella condizione penosa che aggravava la mia già penosa esistenza di prigioniera, separata dal mondo delle persone libere e, io allora immaginavo, felici e contente di campare divertendosi allegramente).
Sono a Roma a ridosso del Ferragosto, come già, dicevo, è accaduto nelle tre o quattro estati precedenti a questa: quando, anno dopo anno, ho potuto assistere all'inversione di tendenza sempre più marcata dal vuoto al pieno, dalla serrata totale di tre settimane dei negozi al progressivo prolungamento dell'apertura sulla chiusura, da venti giorni a quindici a dieci a sette, dalla sfilata di palazzi con le finestre sbarrate alla visione di panni stesi e di porte finestre aperte prima su dieci, e poi su venti, e poi su cinquanta balconi per l'intero mese senza interruzione, dall'immobilità post atomica del paesaggio rotta solo dall'abbaiare di un cane invisibile all'orizzonte al marciapiede che anno dopo anno si rianima del transito di una persona all'ora, e l'anno dopo di dieci, e l'anno dopo ancora di venti, trenta, sessanta, cento.
Ma a vedere quello che ho visto ieri non c'ero ancora arrivata. Ieri intorno all'ora di pranzo, quando sono rientrata dal mio week end lungo e tonificante in campagna (quello sì, in beata, beatissima solitudine) e ho scoperto assieme al marito guidatore di non poter posteggiare la macchina sotto casa per scaricare le quintalate di provvigioni di cui ci siamo riforniti (ci hanno costretti a rifornirci). No no.
No, perché, contrariamente a tutti gli anni precedenti, nessuno escluso, lungo tutto il perimetro del mio palazzo, l'undici di agosto, non c'era un solo posto auto libero.
Bisognava accostare, come in un'ordinaria domenica sera qualunque di autunno inoltrato, scaricare e poi parcheggiare più lontano, oppure nel nostro box. 
Nel nostro box, uno delle centinaia di box auto fioriti sotto l'instabile suolo del nostro quartiere improvvisamente crivellato di trincee scavate ai tempi gloriosi dell'approvazione del P.U.P.: formicai sotterranei costruiti, alimentando un business facile e famelico, grazie a corsie preferenziali di permessi grandi come autostrade, da piccoli e grandi squali del cemento sventrando viali e svellendo alberi dai giardini e devastando oratori parrocchiali (preti e suore furono i primi a gettarsi nell'affare concedendo i loro terreni al miglior offerente) perché, questa era la giustificazione data dall'amministrazione cittadina (di centro sinistra), così si sarebbero risolti i problemi di intasamento degli innumerevoli veicoli, divenuti, per il sopraggiunto benessere, due o tre per famiglia, in misura assai superiore al numero di posti di superficie disponibili.
Quei box che, svenduti uno ad uno da tanti proprietari in difficoltà, hanno adesso risputato le macchine sulla strada. Macchine che ieri, e anche oggi, assieme a quelle di coloro che non sono andati ancora - o non andranno proprio - in ferie, ho trovato allineate in fila davanti ai marciapiedi del mio palazzo e di quelli limitrofi, ad occupare tutti i posti disponibili.
Chi gliel'avesse detto, ai sessanta cipressi abbattuti sotto i miei occhi inorriditi la mattina del 23 dicembre 2002 nel sottostante giardino della mia scuola elementare (che le monache si erano affrettate a cedere al costruttore di turno a scopo di lucro, fregandosene di dove di lì alla primavera sarebbero andati a giocare durante la ricreazione i loro scolaretti), che dopo dodici anni al posto loro sarebbero spuntati in ogni angolo multicolori cartelli di "Vendesi". Chi gliel'avesse detto, che il loro sacrificio sarebbe stato vano, perché i possessori dei box si sarebbero venduti a prezzo ribassato, o avrebbero tentato di farlo, dopo poco più di un decennio, il box medesimo, e magari anche una delle due o tre macchine, se ne avessero potuto cavare qualcosa, restando a godersi, invece del sole e dell'azzurro di Punta Ala o di San Benedetto del Tronto o anche solo di Passoscuro, il grigio sporco del cielo sopra al quartiere Prenestino Labicano.
Mentre i box invenduti restano vuoti, inutilizzati, come le cabine degli stabilimenti balneari.
Ma nonostante questo, nonostante tutto, c'è chi dice agli italiani di stare sereni. E poi, lui sì, si va a godere il sole e l'azzurro.

domenica 3 agosto 2014

White flag


Quando si ama è facile essere vinti. In un rapporto di coppia, tra genitori e figli, in un'amicizia, quello che ama, quello che ci tiene, è il più debole, coinvolto, dipendente, destinato a soccombere a quello che è amato, fra i due l'invulnerabile. Si può lottare quanto si vuole contro questa sconfitta: accettarla negoziando concessioni sul sentimento e sul conseguente fallimento; accanirsi nella lotta oltre ogni ragionevole rischio; disperarsi; riderci su, ribellarsi, finanche tentare di strapparselo dal petto facendo violenza a se stessi, di disprezzarlo, di rinnegarlo; è tutto vano. Arriva sempre il momento in cui ci si deve arrendere. Senza condizioni. The winner takes it all.

Ed è proprio lì, nella resa incondizionata, che si scopre che arrendersi è il solo modo per diventare invincibili.



I know you think that I shouldn't still love you
I'll tell you that
But if I didn't say it
Well, I'd still have felt it
Where's the sense in that?
I promise I'm not trying to make your life harder
Or return to where we were 
Well I will go down with this ship
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door
I'm in love and always will be
I know I left too much mess
And destruction to come back again
And I caused but nothing but trouble
I understand if you can't talk to me again
And if you live by the rules of "It's over"
Then I'm sure that that makes sense
Well I will go down with this ship
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door
I'm in love and always will be
And when we meet
As I'm sure we will
All that was then
Will be there still
I'll let it pass
And hold my tongue
And you will think
That I've moved on
Well I will go down with this ship
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door
I'm in love and always will be
Well I will go down with this ship
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door
I'm in love and always will be
I will go down with this ship
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door
I'm in love and always will be

Portami il girasole

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.


(Rari girasoli, quest'anno, in Valdichiana. Tornata su due settimane fa, percorrendo la panoramica Sarteano-Cetona, che l'anno scorso m'aveva regalato glorie di distese di questi fiori regali intervallate a vigneti e a cipressi che sembravano aver fatto da modello a Dio per la creazione del Paradiso terrestre, ho dovuto far fronte al piccolo dispiacere di dovermi rammentare, io che nell'agricoltura ci bazzico da più di vent'anni e queste cose le dovrei tenere ben presenti, la rotazione colturale dei seminativi, nel cozzare contro la delusione di trovare in luogo di girasoli tappeti brunastri di grano già mietuto. Dovendo così, dopo aver scoperto questa poesia di Montale nella sua strofa di centro, apposta come didascalia ad un dipinto della preziosa mostra di Lawrence Alma-Tadema con cui mi son lustrata gli occhi la primavera scorsa nel Chiostro del Bramante, associandola subito a quel paesaggio agreste idilliaco, ridimensionare i miei epici furori.
Ma uno splendido girasole superstite, la mattina del mio rientro a Roma, son riuscita a scovarlo e a fotografarlo, in un campo nei pressi di quello che è il più pittoresco casello d'Italia, quello di Chiusi. E, sarà stato per la vivida esperienza che ancora mi riempiva gli occhi e l'anima, due sere di fila al Castello di Sarteano a correr dietro ad una Alice sempre uguale e sempre diversa nell'incredibile, prodigiosa, davvero meravigliosa versione di "Alice - fuori dal paese delle meraviglie" allestita e messa in scena con indicibile bravura e soprannaturale talento e amore dalla formidabile Compagnia degli Arrischianti, quel maestoso girasole solitario mi è sembrato racchiudere egregiamente tutta la poesia di Montale, tutta la bellezza del mondo.
Portami il girasole ch'io lo trapianti, portami il girasole impazzito di luce: stasera, di nuovo in quelle terre benedette, avrò la gioia e la grazia di tornare ad assistere ad un altro incanto teatrale, e a cercare altri girasoli.)

martedì 15 luglio 2014

Perfect simmetry

Se hai ragione, come senti d'aver ragione, nel non tollerare di dover rinunciare ad avere opinioni variegate sulle questioni del mondo in favore di una pretesa fedeltà ad un pacchetto all inclusive, allora ne consegue, acciocché questa ragione non sia inficiata in atti da te medesima, che devi a tua volta adoprare questo identico criterio nel rapportarti con le persone che ti stanno intorno, consentendo loro di esser variamente in accordo e disaccordo con te restando con te in proficua e felice relazione, e non invece provare simpatia per loro quando la pensano come te e antipatia quando la pensano all'opposto, cara Cri, non ti pare?

martedì 8 luglio 2014

Sorry seems to be the hardest word


"Sai, quella cosa lì, di farmi stare con la bocca spalancata a guardare il soffitto, giovedì scorso, mi ha tutta scombussolata. Venerdì pomeriggio, dopo il fatto che ti ho detto, dovevo andare da Ilaria a cena e in autostrada ho sbagliato due volte casello perché piangevo da schiantarmi il petto. Non può essere che sia "solo" quella la causa scatenante. Sicuramente questa faccenda, che ormai ho accettato nella mia vita come una sorta di Avanti e Dopo Cristo, riveste tanta importanza dentro di me perché, Dio solo sa perché, ha catalizzato con potenza dirompente un transfert della Madonna, tutto in un punto, come un Big Bang al contrario."
"Certo. Sicuramente. Ma insomma, diciamo che ti sei un po' rimescolata."
"Sì. Perché, ecco, piangevo da non riuscire a vedere la strada, ma piangevo di un misto di parti distinte: di dolore, ma anche di gioia, di tenerezza immensa. Non di sofferenza: non chiamerei più sofferenza quella che provo, quella sensazione bruciante, intollerabile che avevo dentro e addosso quando sono venuta qui al principio e che non mi faceva campare. Ora si è addensata in un dolore sordo, calmo, come un buco nel cuore. Ecco, è dolore. Dolore per essere davanti alla verità: che questa situazione non posso la cambiare. Dolore per qualcosa che ho perso e che non posso recuperare. Dolore di voler bene e non esser riuscita a farmi voler bene. Un dolore che mi crepa il cuore..."
"Siamo tutti incrinati, Cri."
"... Sì. E' la vita, lo so. E' un dolore buono, che mi fa sentire viva. Una pena dolce che mi porto dentro, che fa parte di me, in fondo alla quale trovo me stessa."
"E' che dentro di noi ci sono queste cisti di dolore che vanno sciolte una ad una, per arrivare alla pace e all'equilibrio. Perché credi che io, con tutti i miei limiti, oggi sia così? Perché anch'io sono passato in mezzo al mio dolore. E ora anche tu ci stai passando. Ora attraversi questo dolore antico, finalmente."
"Non mi importa come tu ci sia diventato, così. Sono solo contenta che tu ci sia diventato, perché è grazie a te che io ora sto così. Con questo dolore e con la fiducia, la consapevolezza che davanti a me, in fondo al dolore, c'è un bene, una ulteriore gioia di vivere."
"Sì. E sai perché ora lo provi, questo dolore? Perché ora te lo puoi permettere."
"Capisco quello che dici. E mi commuove. Sai, tanto tempo fa, all'inizio di questo cammino di rinascita, ho capito che avevo imparato ad amare - no, non imparato ad amare, avevo scoperto di saperlo fare - e che dentro l'amore c'è sempre il dolore. Ora ho scoperto anche il viceversa: che dentro il dolore c'è l'amore. E' la vita."


sabato 5 luglio 2014

Non c'è più niente/da fare


"L'amore non bisogna implorarlo e nemmeno esigerlo. L'amore deve avere la forza di attingere la certezza in se stesso. Allora non sarà trascinato, ma trascinerà."
Leggo il due luglio su FaceBook questa citazione di Herman Hesse in bacheca di un'amica. Sono particolarmente sensibile al tema, in questi giorni, e la sento colpirmi con forza, trapassarmi come una lama di luce la mente, allentarmi la rigidità della della cassa toracica.

La condivido immediatamente sulla mia pagina di DilloallaCri, che negli ultimi mesi, perdendo causticità, è diventata più uno spazietto di autocoscienza meditativa.
La visualizzano, in tre giorni, cinquanta persone.

"Certi amori non finiscono, fanno dei puttantour immensi e poi ritornano".
Questa - una scemenza senza fine triste, una caduta di stile del tutto estemporanea e insignificante che probabilmente non avrei postato nemmeno nei giorni più foschi della mia rabbia depressiva, mesi e ormai anni fa - viene condivisa, il giorno successivo, sulla pagina da un'altra amministratrice della medesima.
La visualizzano, in due giorni, duecentoquarantaquattro persone.

E non c'è più niente da dire o da fare, mi pare.

venerdì 4 luglio 2014

Se

"Se tu ti ricordassi di me, non mi importerebbe nulla neanche se tutti gli altri mi dimenticassero."


Ho comprato un Murakami, stasera, solo per questa frase qua.

La tempesta perfetta

Abito nel quadrante sud est di Roma, e dunque nel pieno epicentro del sisma artificiale (e artificioso) denominato "cantieri di costruzione della metro C".
Tutte le mie minute attività quotidiane, lavorative e di diporto spicciolo, si snodano lungo la direttrice delle quattro future stazioni Teano-Malatesta-Lodi-San Giovanni, dove ogni rettilineo dei bei tempi andati si è da anni intorcinato in un frastagliato groviglio di curve angoli e giravolte e vicoli ciechi e strozzature e imbuti in grado di generare e stabilizzare innumerevoli serie di piccoli e grandi ingorghi su una superficie già vocata di suo alla loro produzione per i motivi più disparati, stante la densità abitativa, le molte assurdità topografiche di quartieri venuti su negli anni d'oro dell'edilizia abusiva, l'insufficienza dei mezzi pubblici (da cui il motivo dell'alzata d'ingegno di costruirci una linea di metropolitana)  e la pesantezza dei culi dei suoi residenti.
Dopo parecchi mesi di assestamento e il confortante raggiungimento a fatica di un'ordinata metodicità del caos, un paio di dissesti idrogeologici, volgarmente chiamati "voragini", capaci di interdire il transito veicolare delle due strade di scorrimento principali ai lati della Via Casilina sia in direzione del centro che in quella opposta e anche per quella laterale su una delle bisettrici di collegamento con la consolare limitrofa, hanno mandato in vacca tutto il meccanismo appena collaudato.
Alzata in questo modo l'asticella della difficoltà della circumnavigazione automobilistica io e tutti gli altri residenti ci siamo dovuti ingegnare, ex abrupto, alla subitanea ricreazione di un nuovo modello di casino agibile.
Adesso che, con pazienza certosina, parecchi autentici colpi di genio e pure qualche inevitabile contromano qui e là, avevamo preso le misure anche a queste insorte evenienze, ecco spuntare repentinamente a macchia d'olio ulteriori freschi ostacoli allo scorrimento del traffico nelle sembianze dei sempiterni lavori di rifacimento estivi di manto stradale aut di ripristino tubature gas/energia elettrica/altri cavi di indeterminata funzione, che ridisegnano ulteriormente la martoriata, più che complicata, geografia della viabilità.
Facendoci approssimare a qualcosa di molto simile, in meteorologia, alla tempesta perfetta.
E io, tra mille piroette e qualche necessaria ancorché discreta infrazione al codice stradale, penso al giorno in cui saranno chiusi tutti 'sti cantieri, smontati tutti 'sti ponteggi, e finalmente la circolazione tornerà libera e fluida.
E non riesco a immaginarmelo. 
E' qualcosa di così inconcepibile da far paura.
Al pensiero di quelle strade sgombre, di tutte le code evitate, e di tutto il tempo risparmiato, mi vengono le vertigini.
Tragitti che oggi copro in mezz'ora verranno compiuti in meno di un quarto d'ora, forse anche in dieci minuti.
Forse anche meno, se davvero la metropolitana servirà a qualcosa, cioè a incoraggiare auto limitazioni all'uso delle macchine.
Come adoperarlo dunque proficuamente, quel tempo mai posseduto e improvvisamente guadagnato? E' un rovello angoscioso.

Poi mi rammento che, appunto, vivo a Roma, e pertanto ho fondatissimi motivi per credere, più ancora che sperare, che quel giorno maledetto non arrivi né ora né mai.

Che sollievo.

mercoledì 25 giugno 2014

The missing


(Non fate caso a me. Volevo vedere se sapevo ancora scrivere. Devo rispondere a un sacco di voi, devo farmi viva, devo telefonare. Lo farò, forse prestissimo. Per ora ricomincio da dove ero rimasta: dalla lucente bellezza di Ferrara, della pienezza della primavera trascorsa e dei vostri volti, dei vostri sorrisi, dei vostri spiriti. Sono stata benissimo con voi. Dalla - splendida - foto si vede, mi pare, vero?)

giovedì 1 maggio 2014

Il paradiso degli orchi

Sto partendo: due giorni a Ravenna, e da sabato a Ferrara per il raduno blogger dove non vedo l'ora di riabbracciare Ambra, Sandra e gli altri amici che mi sono cari, tanto cari, al cuore.
E' un viaggio pianificato da più di un mese. E ora, però, diventa una coincidenza significativa.
Ora ho un altro motivo per andare a Ferrara.
Questo, che lascio raccontare a Dan perché io ho finito le parole. Sono solo molto, molto felice della coincidenza. Perché la prima cosa che farò, arrivando a Ferrara, sarà quella di recarmi in Via dell'Ippodromo, dove quattro traditori delle forze dell'ordine si sono trasformati in furie omicide e hanno ucciso un ragazzo di diciott'anni. E continuano ad ucciderlo, giorno dopo giorno, aiutati da parecchi sodali. Che dovrebbero essere servitori dello Stato, persone che tutelano la nostra incolumità, l'ordine e la giustizia, e invece sembrano orchi spaventosi.
Spero ardentemente che dopo quest'ultima orribile deriva qualcuno metta mano a questa malsanità strisciante che avvelena una parte delle nostre forze di polizia. Perché non voglio più temere coloro che dovrebbero proteggermi e proteggere i miei figli, i miei concittadini.

Per ora io faccio solo quello che posso fare, che è poco ma è tutto. Vado a salutare Federico.
Restiamo umani.

martedì 29 aprile 2014

Menzogna e sortilegio

"So che qualche volta una bugia si dice per bontà. Ma non credo che riesca mai bene. Il vivo dolore della verità passa alla svelta, ma la lenta, corrosiva agonia di una menzogna non si perde mai. E' una ferita che non si rimargina."

(Me la sto appuntando ovunque questa frase di Steinbeck. Il libro da cui è tratta mi sta dando soddisfazione come e più di ogni opera dei più Grandi, da Dante a Shakespeare. Contiene, sparsi nelle sue pagine come diamanti grezzi su un panno di cuoio, distillati di verità esistenziali della commedia umana che pochi altri hanno saputo intuire e trasmettere. Aveva ragione Angie, è un libro fondamentale. Un'altra delle cose vive che ti fanno sentire viva, e te ne danno anche una buona ragione.)

venerdì 18 aprile 2014

Amarsi un po'


E comunque tu sai che oggi si celebra la definitiva dipartita della tua diciassettennitudine.
Perché da oggi c'è un'altra diciassettenne che ti passa avanti.
Da oggi l'unica diciassettenne legittimata è la giacobina, che compie oggi le sue diciassette primavere.
A lei, alla vostra burrascosa relazione, che tu sai cosa significhi nella tua vita ma non puoi scriverlo perché c'è il rischio che lei legga il post, e alla sua passione per Lucio Battisti (che a te ha invece sempre fatto abbastanza cagare, prima che arrivassero lei e il suo compagno di classe a costringerti ad ascoltarlo e ad apprezzarlo), alzi i calici nella sintesi di una delle di lui canzoni più note, la più adatta, scritta due decenni prima che lei venisse al mondo.
E speriamo che lei non se ne accorga.

(Auguri!)



17 again


E' venerdì santo e tu stai di nuovo piangendo. Di venerdì santo.
E fattele du' domande, Cri. E traile, du' conclusioni.

Non sei più diciassettenne. Non lo sei più da trentatré anni (l'anni de Cristo, peraltro, guarda tu le coincidenze), per cui non lo eri nemmeno tre anni fa, quando hai aperto questo blog perché così ti sentivi, una diciassettenne Rosaspina appena risvegliata da un sonno fatato che aveva cristallizzato te e il tuo mondo a quell'età. Poi per fortuna il dolore ti ha riattivata, ti ha fatto crescere tutta d'un botto, come il fungo sbocconcellato da Alice, e lo smarrimento che ne è seguito si è aggravato per la velocità del processo, sicché per lungo tempo tu non solo hai sofferto per 1), la questione in sé, 2), per la questione madre di tutte le questioni che ti aveva riattivato dentro e 3), per il dolore di dover fare i conti con la questione in sé e con la questione madre, ma anche per l'accelerazione del tutto: per la tensione insostenibile dei tuoi arti che ingrandivano a vista d'occhio, dei tuoi nervi che si allungavano a dismisura, del tuo cuore che si sbrindellava per quello stiramento che sarebbe stato eccessivo da reggere persino per il capo dei Fantastici Quattro.
Eppure ce l'hai fatta. Hai superato un viaggio compiuto oltre la velocità della luce senza disintegrarti: anzi, ricompattandoti. Perciò non negare, tu non sei più né diciassettenne né quella che si credeva diciassettenne.
Quelle stanno tutte e due dentro di te come matrioske. Ma tu sei più grande, le comprendi in te, non ti esaurisci in loro.
Per questo, e solo per questo, può capitare che tu ti ci senta ancora, diciassettenne.
Ma passa.



Yea though we venture through
The Valley of the stars
You and all your jewelry
And my bleeding heart
Who couldn't be together
And who could not be apart

We should've jumped out
Of that airplane after all
Flying skyways overhead
It wasn't hard to fall
And I had so many crashes
That I couldn't feel
At all

And it feels like
I'm 17 Again
Feels like I'm 17

Times might break you
Godforsake you
Leave you burned and bruised
Innocence will teach you
What it feels like to be used
Thought that you'd done everything
You didn't have a clue

Looking from the outside in
Some things never change
Yeah yeah hey yeah hey yeah
Flying highwards seems like yesterday

All those fake celebrities
And all those viscious queens
All the stupid papers
And the stupid magazines

Sweet dreams are made of anything
That gets you in the sea

Yes
17, 17 Again

Sweet dreams are made of this
Who am I to disagree
I travel the world and the seven seas
Everybody's looking for something

Fade out


giovedì 17 aprile 2014

Return to Innocence



That's not the beginning of the end
That's the return to yourself
The return to innocence.

[Love - Devotion
Feeling - Emotion]

Love - Devotion
Feeling - Emotion

Don't be afraid to be weak
Don't be too proud to be strong
Just look into your heart my friend
That will be the return to yourself
The return to innocence.

If you want, then start to laugh
If you must, then start to cry
Be yourself don't hide
Just believe in destiny.

Don't care what people say
Just follow your own way
Don't give up and use the chance
To return to innocence.

That's not the beginning of the end
That's the return to yourself
The return to innocence.

About time

I periodi di tempo sono qualcosa di strano e di contraddittorio, riguardo allo spirito. Sarebbe ragionevole supporre che un periodo di vita abitudinaria e priva di avvenimenti debba sembrare interminabile. Dovrebbe essere così, eppure così non è. Proprio i periodi noiosi e senza avvenimenti sono privi di durata. Un tempo spruzzato d'interesse, ferito da una tragedia, spaccato in due dalla gioia: questo è il tempo che sembra lungo al ricordo. E a pensarci su, è giusto. Dove non ci sono avvenimenti, non ci sono pali a cui appendere la durata. Dal nulla al nulla non vi è tempo di sorta.

sabato 12 aprile 2014

Così celeste

Roma quanto sei stupida stasera, in cui io, in missione per conto della giacobina, dopo l'ufficio invece di andare a casa devio verso il tuo centro, parcheggio sotto la lama del sole al tramonto all'angolo con Piazza della Pilotta e mi avvio a piedi verso l'ex Rinascente ora Zara di Via del Corso seguendo il solito tragitto che passa per Fontana di Trevi e Galleria Colonna, quello che le mie gambe hanno percorso migliaia di volte da quando sono su questa terra, perdendo magicamente peso e fatica ad ogni falcata.
Quanto sei stupida, Roma, quanto sei ruffiana, quando meno di un'ora dopo esco dalla Feltrinelli e poi anche dalla Galleria, ingolfata di pacchetti di profumi e di libri, e mi incammino a ritroso su quelle tue pietre accumulando, un piede dietro l'altro, le mie ennesime impronte sopra al minutissimo puzzle degli altri miliardi di miliardi di passi perduti e ritrovati, presenti e passati, di estranei sconosciuti che ti hanno calpestata, di persone care che m'hanno camminato accanto, un anno, due anni fa, o dieci, o trenta, ed è frattanto sceso su di te il manto della notte, un manto scuro così celeste, e nell'aria c'è una freschezza lieve che solo qui da te, di sera, in aprile può aleggiare, una freschezza che ti lucida e ti rimette a nuovo come fossi stata costruita oggi, come se non t'avessi mai attraversata prima d'ora, come se tu ti schiudessi al mio passaggio per la prima volta; un senso di non so che aspettativa di felicità, che trasfigura come un incantesimo le facciate in ombra dei palazzi e i volti dei turisti divenuti tutti così familiari, così perfettamente inseriti nel quadro che mi circonda, come se non ci fosse altro posto nel mondo più adatto a loro di questo, come se fossero sempre vissuti qui con me, come se la loro espressione competente, l'accuratezza nello svolgimento del loro ruolo, si stemperasse in un languore segreto e morbido che è lo stesso mio, che è lo stesso loro. Dalla centralità del mio essere volgo lo sguardo in giro, e vedo tutti gli uomini belli, e bellissime le cosce delle ragazze sfiorate da stoffe svolazzanti, sorelle delle mie, che paion anche loro rinvigorite da stamane, quando sono riuscita ad infilarmi uno dei tubini che non mi entravano più scoprendo giubilante una sorta di salto a ritroso del tempo, e così pure del mio girovita, e che ora ondeggiano nelle mie calze color perla tra il biancore di tutta quella massa di carne giovane discretamente indistinguibile dalla mia.
Quanto sei stupida, Roma, quanto puttana, nel danzarmi intorno corteggiandomi così, come se fossi per te unica e speciale quanto tu lo sei per me e per qualche altro centinaio di milioni di persone, insinuandoti nel mio cuore fino a spaccarlo in due come un cocomero maturo, e inondandolo d'amore, amore immenso, totale e appassionato, e di gioia purissima, e fierezza inesprimibile, nel sentirti mia, mia, parte delle mie viscere, sangue del mio sangue, ossa delle mie ossa, e nel farmi pensare inebriata che non sono mai stata innamorata di nessuno come lo sono di te, che tu, solo tu, sei il mio solo uomo e la mia sola donna, e uguale io per te, e che questo è un miracolo che si rinnova di anno in anno, da prima che io esistessi, quando tu invece c'eri già, e anche quando io sarò finita, e tu continuerai ad esserci ancora.

Un altro sole, quando viene sera 
Sta colorando l'anima mia 
Potrebbe essere, di chi spera 
Ma nel mio cuore è solo mia! 
E mi fa piangere e sospirare 
così celeste, she's my baby
E mi fa ridere, bestemmiare,
e brucia il fuoco, she's my baby


lunedì 7 aprile 2014

Weather to fly

Buona settimana a tutti. E ora apriamo le ali!




Are we having the time of our life?
Are we having the time of our lives?
Are we coming across clear?
Are we coming across fine?
Are we part of the plan here?
Are we having the time of our lives?
Are we coming across clear?
Are we coming across fine?
Are we having the time of our lives?
Are we part of the plan here?

We have the drive and time on our hands
One little room and the biggest of plans.
The days were shaping up,
Frosty and bright.
Perfect weather to fly
Perfect weather to fly

Pounding the streets where my fathers feet still
Ring from the walls,
we'd sing in the doorways,
or bicker and row
Just figuring how we were wired inside
Perfect weather to fly

So in looking to stray from the line
we decided instead
we should pull out the thread that was
stitching us into this tapestry vile,
And why wouldn't you try?
Perfect weather to fly

domenica 6 aprile 2014

Una sola stella nel firmamento

Era là, sul banco delle novità, da Auchan, che mi fissava, Federico. Mi attirava e mi respingeva.
Alla fine l'ho preso, piena di timore perché sapevo cosa ci avrei letto dentro.
Mi sono uscite le lacrime lì, in mezzo alle corsie dell'ipermercato.

Questa, come racconta Patrizia, è la storia di un'esplosione nucleare che ha investito tante persone: Federico, la sua famiglia, i suoi amici, i suoi concittadini, gli abitanti di Viale dell'Ippodromo che quell'alba videro e udirono e non ebbero il coraggio di raccontare.

Questa è una storia atroce di abominio e omertà.

Questa è la storia di Federico Aldrovandi, ucciso a diciotto anni, e poi ucciso di nuovo, più e più volte.
E di sua madre Patrizia Moretti, anche lei uccisa assieme a lui, e poi uccisa di nuovo, più e più volte.

Lei, però, è ostinatamente rimasta viva. E in questo libro ci racconta "la sua" verità.

Che sarebbe, semplicemente, "la" verità, quella di tutti, se questo fosse un paese civile.


venerdì 4 aprile 2014

How to save a life

Accettando con amore il proprio passato, così si salva una vita.
Oggi celebro la mia salvezza. Lo faccio oggi per ricordarmi della gioia che sto provando. Perché domani potrebbe essersi appannata. Perché ogni giorno porta la sua pena.
Ma oggi me lo devo segnare sul calendario. Il giorno in cui mi sono riappropriata di un pezzo del puzzle della mia anima che avevo smarrito, l'ho rimesso al suo posto e ho ritrovato il mio nell'universo.



Step one you say we need to talk
He walks you say sit down it's just a talk
He smiles politely back at you
You stare politely right on through
Some sort of window to your right
As he goes left and you stay right
Between the lines of fear and blame
You begin to wonder why you came

Where did I go wrong, I lost a friend
Somewhere along in the bitterness
And I would have stayed up with you all night
Had I known how to save a life

Let him know that you know best
Cause after all you do know best
Try to slip past his defense
Without granting innocence
Lay down a list of what is wrong
The things you've told him all along
And pray to God he hears you
And pray to God he hears you

Where did I go wrong, I lost a friend
Somewhere along in the bitterness
And I would have stayed up with you all night
Had I known how to save a life

As he begins to raise his voice
You lower yours and grant him one last choice
Drive until you lose the road
Or break with the ones you've followed
He will do one of two things
He will admit to everything
Or he'll say he's just not the same
And you'll begin to wonder why you came

Where did I go wrong, I lost a friend
Somewhere along in the bitterness
And I would have stayed up with you all night
Had I known how to save a life

Where did I go wrong, I lost a friend
Somewhere along in the bitterness
And I would have stayed up with you all night
Had I known how to save a life
How to save a life
How to save a life

Where did I go wrong, I lost a friend
Somewhere along in the bitterness
And I would have stayed up with you all night
Had I known how to save a life

Where did I go wrong, I lost a friend
Somewhere along in the bitterness
And I would have stayed up with you all night
Had I known how to save a life
How to save a life

Pretty woman

"Quando non ti agiti sei bellissima. E molto alta!"

mercoledì 2 aprile 2014

Eu amo tudo o que foi

Eu amo tudo o que foi,
Tudo o que já não é,
A dor que já me não dói,
A antiga e errônea fé,
O ontem que dor deixou,
O que deixou alegria
Só porque foi, e voou
E hoje é já outro dia.


Amo tutto ciò che è stato,
tutto quello che non è più,
il dolore che ormai non mi duole,
l’antica e erronea fede,
l’ieri che ha lasciato dolore,
quello che ha lasciato allegria
solo perché è stato, e volato
e oggi è già un altro giorno.

1931

domenica 30 marzo 2014

L'assenza dondola nell'aria

L'assenza dondola nell'aria come un batacchio di ferro
martella il mio viso martella
ne sono stordito

corro via l'assenza m'insegue
non posso sfuggirle
le gambe si piegano cado

l'assenza non è tempo né strada
l'assenza è un ponte fra noi
più sottile di un capello più affilato di una spada

più sottile di un capello più affilato di una spada
l'assenza è un ponte fra noi
anche quando
di fronte l'uno all'altra i nostri ginocchi si toccano

(Un anno che te ne sei andato, io fatico a ricordarmelo. Certe volte mi sembra di non sentire niente. Nemmeno la tua assenza. Come se tu non fossi mai esistito nella mia vita. Come se non ci fosse differenza, tra oggi e un anno fa. E cerco di recuperare qualcosa di te per dare senso alla mia identità. Di colmare quest'assenza dell'assenza.
Ciao, papà, ovunque tu sia)

Love after love

The time will come
when, with elation
you will greet yourself arriving
at your own door, in your own mirror
and each will smile at the other's welcome,

and say, sit here. Eat.
You will love again the stranger who was your self.
Give wine. Give bread. Give back your heart
to itself, to the stranger who has loved you

all your life, whom you ignored
for another, who knows you by heart.
Take down the love letters from the bookshelf,

the photographs, the desperate notes,
peel your own image from the mirror.
Sit. Feast on your life.


Amore dopo amore
Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell'altro,

e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d'amore,

le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.

sabato 29 marzo 2014

Music

Musica, musica. E' da un po' che ho smarrito le parole.

Perché dentro di me da un po' tutto risuona, rimbomba, dissona, in un fracasso che pare quello dell'officina di Dio durante i giorni della Creazione.

Dentro di me non c'è più spazio per le parole.

Dentro di me tutto è musica.



Music was my first love
and it will be my last
Music of the future
and music of the past
To live without my music
would be impossible to do,
In this world of troubles
my music pulls me through

venerdì 14 marzo 2014

Tutto su Aldo (Il monticiano)

Dunque, esortata da molti di voi, ieri sera ho telefonato ad Aldo: buone notizie! L'intervento, o meglio, gli interventi, hanno avuto un esito positivo e il decorso post operatorio procede in modo soddisfacente, a parte un focolaio d'infezione restio a farsi domare che somiglia  per ostinazione a quello con cui aveva già lottato nel precedente ricovero, e che i sanitari sono decisi a debellare a tutti i costi prima di dimetterlo. Da qui il prolungamento della sua degenza.
I batteri, comunque, non avranno vita facile con Aldo, a giudicare dalla nostra conversazione frizzantina...
Il nostro Monticiano è cosciente, senziente, loquace, mordace e salace quanto e più del solito. Dunque chi volesse (so che qualcuno l'ha già fatto) lo chiami, per un sicuro reciproco diletto.
Ho scommesso con lui che martedì prossimo al massimo sarà a casa e aggiornerà il blog. Vediamo se ci piglio, mi farebbero comodo un po' di soldi...

sabato 8 marzo 2014

La (mia) grande bellezza

Come avevo previsto (in tempi non sospetti), La grande bellezza ha vinto l'Oscar.

Non è che sia indicativo di chissà quali meriti artistici, l'Oscar: simbolici sì, però. E' il segno che la Mecca del cinema mondiale, quella da cui tutto è partito, considera che quel film ha i fondamentali con cui dev'esser fatto un film: ne ha la forma e la sostanza.
Il che, nel caso di specie, a me è parso evidente fin da subito.
Cos'è il cinema? E' arte popolare. E' mezzo comunicativo di massa, fabbrica di sogni e di inquietudini, di evocazioni, di emozioni. E' un'industria di manufatti più o meno artigianali nei quali ciascuno, fruendone, può scovare robe diverse da un altro. A seconda della propria età, del proprio stato sociale, del proprio carattere, delle proprie esperienze di vita, del momento che sta attraversando.

Per quello La grande bellezza è, prima ancora di essere un capolavoro (argomento controverso e tutto sommato irrilevante), un oggetto perfettamente descrivibile come "film" con tutti i sacrosanti crismi.

Il che non è affatto scontato, per una produzione cinematografica, al giorno d'oggi.

In più, per la sua lunghezza imponente, la sua opulenza, dovizia e maestosità di inquadrature, la tensione drammatica creata dal rapporto tra queste e la musica, l'ambizione e sfrontatezza nella trattazione di temi primordiali e nel ricorso ad allegorie universali, le fierissime polemiche e partigianerie che ha suscitato, apostrofarlo "film" è riduttivo: trattasi di filmone.


Questo filmone è un filmone evangelico: lo guardo (sette volte, finora: numero biblico) e penso alle parole di Gesù Cristo: "non sono venuto a portare la pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre". E' talmente semplice nei dialoghi, rasenti la banalità, e nelle situazioni, e al contempo tanto inquietante ed ermetico da poter esser considerato una sublimità assoluta o una esimia schifezza; un'espressione poetica altissima come una bassissima furbata; un coacervo di significati come un involucro vuoto. 

E' un autentico segno di contraddizione. O lo si odia o lo si ama. E anche tra quelli che lo amano non sono pochi i distinguo. Ciascuno ha la sua propria Grande bellezza personale, intima, calzata su misura.

C'è La grande bellezza del mio amico Lowerome, scrittore e sceneggiatore di indiscusso talento, che lo definisce "fenomeno culturale bestiale che fa guelfismo e ghibellinismo a manetta. Film d'autore spregiudicatamente destrutturato che vince i premi più prestigiosi al mondo e fa 9 milioni in tv, senza neanche schierare Tevez. Frutto di grande talento e intelligenza, a vari livelli." Per poi dire che gli sta tremendamente sul cazzo. Ma che "I primi dieci minuti per me sono incantevoli. La prima sequenza mi ha scotennato, il giapponese che crepa di sindrome di stendhal davanti alla visione del gianicolo e la macchina che si avvita intorno al cannone fino a farlo sparare. Poi parte la festa e quelli che dicono che è copiata da baz luhrmann dovrebbero andarsi a vedere quella di cirino pomicino nel divo, che era ancora più bella. (...) quando il film ammutolisce e lascia parlare la macchina e la sua idea di roma secondo me lì siamo a livelli storici. Poi purtroppo ridà la parola ai personaggi e si ricomincia con il pamphlet anti-libertà e giustizia..." 

C'è La grande bellezza di Sonia, la proprietaria del (prelibato) ristorante cinese davanti al mio ufficio, dove, a giudicare dalle centinaia di foto appese alle pareti, sono andati a mangiare tutti i vip d'Italia di ieri e di oggi, che mentre mi fa il conto mi mette allegramente a parte della circostanza che ieri sera è entrato da lei Federico Moccia. "Ma non ha mangiato, sai? Perché io avevo tanti tavoli liberi, ma lui voleva saletta riservata. Dice che non mangia assieme ad altra gente. Io detto non è possibile, e lui andato via."
"Moccia stronzo" rido io, e lei ride con me. "Del resto si sapeva, che bella conferma mi dai! Invece scommetto che, per esempio, Sorrentino, queste storie non le ha mai fatte."
"Ah, no!" si illumina. "Sorrentino viene spesso mangiare qui, con tutta famiglia. Molte volte venuto. Lui molto gentile, molto disponibile. Lui è tipo... " ci pensa cercando la parola giusta "... familiare. Ecco, sì. Lui familiare. Lui verrà senz'altro appena torna a casa."
"E' tornato oggi" la informo. "E' arrivato a Fiumicino stamattina. C'erano le sue foto su Repubblica on line."
La parola "Repubblica" la riscuote improvvisamente. "Ah! Tu ha letto giornale martedì?" e al mio diniego tira fuori una copia di Repubblica appunto di martedì scorso, aperta su una pagina sul cui fondo c'è un trafiletto con una sua foto: "Repubblica intervistato me, io detto che avevo detto lui che vince Oscar!"

C'è La grande bellezza della mia collega Pina, che non se lo sarebbe mai andato a vedere al cinema ma che per abitudine ha acceso Canale 5 e così gli ha dato uno sguardo (qualcosa la sera in TV si deve pur vedere) rimanendone imprevedibilmente folgorata: "Cri, tu che l'hai visto, sai dirmi come finisce?" Perché Pina si alza tutte le mattine alle cinque per venire al lavoro, e già il film è lungo di suo, con in più con tutte le pause pubblicitarie è diventato uno stillicidio infinito, e lei è crollata alla scena in cui la Ferilli muore, "ma muore, Cri? Quando muore? Quando chiude gli occhi?" mi fa mentre lei invece me li spalanca davanti al massimo, gli occhi, fin quasi fuori dalle orbite, e dentro c'è meraviglia ed emozione: "alla prima scena, con la fontana, il panorama, il giapponese che schiatta e e le voci splendide di quel coro di donne che canta su quella musica bellissima, che musica, Cri, che musica!, sono rimasta incantata", e mi emoziono anch'io perché l'effetto che le ha fatto è come una cartina tornasole che mi fa indicibilmente piacere mi confermi che lei, pur essendo una donna pratica poco incline all'intellettualismo spinto, è di grana più fine di quella di tanti altri in ufficio.

C'è La grande bellezza del produttore del film, Nicola Giuliano, amico d'infanzia dei Sorrentino, che entra a sera nella norcineria del mio amico, di cui è come me affezionato cliente, dove sono anch'io come tutti i giovedì, col bel viso stanco e il colorito un po' grigio per i giorni frenetici di LA e il jet lag, e il mio amico gli butta le braccia al collo e lo stritola (è un bell'omone) e poi lo libera, si gira verso di me e me lo presenta gridando: "Cri! Lo sai chi è questo? Questo è il produttore de La grande bellezza! Quello che stava al fianco di Sorrentino sul palco all'Oscar!" e allora io mi alzo dallo sgabello su cui sono seduta aspettando di finire di esser servita, abbandono il mio American Psyco e gli vado incontro con occhi luccicanti: "ma allora permetti che ti baci pure io, mi tocca proprio" e lui sorridente e disponibile tende le braccia verso di me e mi esorta "fai pure" e io lo abbraccio e "grazie" gli dico, e che ho visto il film sette volte e ora voglio tornare a guardarmelo sul grande schermo, e guarda me e mi vede e capisce, e mi risponde contento "grazie a te". E io allora, rischiarata dalla gioia del mio amico che gli sprizza da tutti i pori, e da quella di Nicola e dalla mia, gli chiedo delucidazioni sul film, come se parlassi ad un vecchio amico. E lui mi risponde senza esitazioni, con affabilità. Il set della mostra fotografica? Fammi pensare. Sì, ecco, è a Villa Giulia, sì. Ah, mi pareva, difatti, ma non ero sicura. Oh, ti prego, puoi dire a Sorrentino che c'è una matta che gli vuole un sacco bene per aver avuto quell'idea diabolica, al culmine del film, delle porte di Roma che si schiudono? Non puoi capire che cosa significa per la me bambina aver assistito alla scena in cui si apre il buco di Roma, l'ho visto inquadrato e mi sono detta col cuore in gola "non può essere che ora, non può essere che ora si inventi di aprirlo, che genio, che figlio di..." e qui mi fermo perché mi ricordo che la mamma di Sorrentino è morta quando lui aveva diciassette anni, ma insomma il senso si è capito, anche perché la voce mi si è fatta stridula e mi trema, come sempre quando sono emozionata, e lui sorride ancora di più, e poi smette di sorridere, e mi sussurra eh, purtroppo quella scena è finta, come finta? Faccio io, e contenendo la delusione ribatto eh, mi pareva impossibile difatti che i Cavalieri di Malta vi avessero concesso di girare dentro il giardino, quelli chissà che segreti, che scheletri ci hanno nell'armadio, da loro non ci mette piede manco il Papa, mah, fa lui, veramente è stato più per motivi tecnici, avevamo bisogno di un giardino illuminato in un certo modo, per cui è stata una scelta obbligata quella di ricrearlo su misura, prima si vede il buco della serratura vero, poi il portone che si apre è un portone identico a quello, poi il giardino dove si muovono gli attori è un altro giardino e in fondo c'è il mascherino verde. Ah, mi riconsolo subito io, ma infine non importa, anzi, il fatto che sia una finzione in qualche misura arricchisce il senso, perché quello che conta è il gesto, il gesto di aprire quel portone che per ogni bambino di Roma ha una patina fiabesca, quel portone chiuso su un mistero impossibile da svelare, quel gesto è dirompente, squarcia quel velo, ha una forza enorme, è quello il senso, è un simbolo potentissimo lo stesso e anche di più. Ma i Capitolini sono quelli invece, vero? Sì, dice lui, quelli sì. Marforio è quello vero, ma anche gli altri palazzi? Anche le altre statue? Anche il Galata morente? Sìssì, conferma ancora lui, divertito. E la Fornarina, anche quella è vera? Eh, no, si rammarica lui, quella è una copia, e quella invece proprio perché non ce la davano per filmarla, viene tutelata per evitarle danneggiamenti, non si può fotografare né filmare. Ah, dico io ridendo, vabbé, basta, non dirmi più niente, ma sono felice, e stordita dalla coincidenza, aver tanto amato questo film, averlo difeso a spada tratta, e incontrarne il produttore proprio il giorno in cui torna dall'America. E prima che se ne vada mi viene un'ultima urgenza, ma la galleria prospettica del Borromini, gli grido, quella è vera, dimmi che quella è vera! Sì, quella è vera, ride lui, è proprio quella autentica, e io gli racconto allora che mio padre, il mio povero padre fragile, inetto e sognatore, innamorato di Roma che conosceva meglio di una guida turistica, era amico del custode e se la faceva aprire fuori orario di pubblico, proprio come si vede nel film, e che ogni volta che riusciva a trascinarci me e mia sorella ripeteva sempre le parole di Sabrina Ferilli, hai visto, pareva tanto grande e invece guarda com'è piccola, e mentre glielo racconto mi rendo conto che Sorrentino è riuscito, con questo film, a restituirmi qualcosa di lui, di questo padre inesistente nel mio cuore oggi come lo è stato a lungo nella mia vita ieri, qualcosa di forte, di tenero, di indimenticabile, l'essenza del mio legame con lui, con questo manchevole, inadeguato, inesistente padre che non sapeva amare sua figlia ma che era amante della Grande bellezza, che è tutto l'amore che mi ha trasmesso, tutto ciò che di lui mi resta, tutto ciò che è bello che resti, le mie poche sortite per Roma con lui, che di Roma conosceva ogni pietra, e ogni pietra descriveva con immensa infantile emozione, e che forse è questo, senz'altro è questo il motivo per cui questo film mi strugge fino in fondo al cuore.

E' c'è La mia grande bellezza. Che sta in tutto questo, e che non finisce mai, che continuamente si rinnova, che mi scappa dalle dita come una farfalla, guizza via come un uccellino impossibile da catturare. Ma che lo stesso sono riuscita a comprendere e a trattenere. E che ho racchiuso e confezionato con cura in un sorriso: quel sorriso speciale che serbo per una persona speciale, che, non appena lo incontrerò - è già successo, so che ricapiterà - donerò a Paolo Sorrentino.



(Edit del 15 luglio 2014: negli scatoloni delle scartoffie di mio padre, a più di un anno di distanza dalla morte, è saltato fuori un contenitore zeppo di fotografie. Tra cui questa soprastante. E il cerchio, finalmente - si spera - si chiude.)