martedì 30 aprile 2013

L'isola misteriosa


Santi numi, quant'è che non scrivo una riga dentro il mio blogghino!
Non avevo mai passato un tempo di latitanza così lungo.


E' che sono stata tanto, tanto male, dopo il week end conseguente al mio ultimo post. Tornare a casa di mio padre, per mille ragioni, è stato un autentico massacro. Sono rientrata alla base la domenica pomeriggio inoltrata con un mal di testa feroce, il cuore spezzato e lo stomaco sottosopra. Per rilassarmi mi sono sdraiata sul letto e ho infilato nel lettore DVD Come in uno specchio di Ingmar Bergman, che mi attendeva da settimane. "Tanto" mi sono detta "già sto sul depresso spinto, forse è meglio cavarsi questo dente quando si è già di malumore, facciamo conto che sia una cura omeopatica." A metà film, quando lei mostra i più evidenti segni di pazzia, mi sono talmente immedesimata che mi è venuto da vomitare. Letteralmente.
Da lì è partita una settimana di supplizio: gastroenterite complicata da una metrorragia, durante la quale ho ributtato fuori da ogni orifizio del mio corpo tutti i detriti di quello che era il padre che avevo dovuto conoscere, che avevo dovuto imparare ad amare, emersi durante il sopralluogo a casa del mio genitore defunto, la cui assenza incongrua e insostenibile aleggiava, marcata e pressante, in ogni stanza, ogni angolo: ogni sua miseria, ogni sua contraddizione, ogni nauseante ambiguità dentro la quale io ho ritrovato, con strazio immenso, il padre che ho conosciuto da ragazzina, con immenso orrore e altrettanta immensa, malsana tenerezza.
Il mercoledì non riuscivo nemmeno a stare in piedi, ero sfinita: mi sono messa a letto all'una di pomeriggio, mi sono rialzata alle dieci del giorno successivo.
Nel quale dovevo partire per Londra.

Prendere per la prima volta nella vita l'aereo.
Stare per la prima volta nella vita fuori dall'Italia.
Senza sapermi esprimere in inglese, e comprendendolo in maniera alquanto insoddisfacente.
Senza i figli, oltretutto. Che per me sono qualcosa di molto più simile a due figure genitoriali. 
Una prospettiva che in quelle condizioni mi faceva tremare i polsi.

Il mio smarrimento era talmente grande che ad un certo punto non l'ho sentito più.
"Basta" mi sono detta ergendomi calmissima dal mio letto di dolore. "Ti stai sabotando da sola, Cri.  Non sei abituata alle cose belle, a veder realizzati i tuoi desideri. Se non stai male non ti riconosci e ti spaventi. Ti turba essere contenta, vivere delle piccole felicità. Ma così non va bene! Smettila. Ora partiamo. Non sei moribonda. Vedrai che tutto questo è largamente psicosomatico e svanirà non appena metterai piede sul suolo britannico. Forza, alzati, fa' la valigia, saluta la prole ingrata, esci di casa con quel pover'uomo del tuo consorte, vai all'aeroporto, piglia questo cazzo di aereo e concediti di goderti la vacanza a Londra a cui tenevi tanto!"
A testa bassa mi sono obbedita.
Quelle che seguono sono considerazioni essenziali di questo viaggio.

Queste in via preliminare:
1) io, donna ansiosissima, soggetta in passato ad attacchi di panico, affetta da decine di fobie diverse, ho scoperto di non nutrire, a paragone dei terrori ancestrali che ho per le malattie mie o dei miei cari o per la scomparsa dei medesimi, paura alcuna di volare degna di questo nome. A parte un lieve senso di claustrofobia, poco più di un fastidio, al pensiero di essere imprigionata in una supposta gigante a migliaia di chilometri di altezza senza poter uscire fino al ritorno sulla terraferma, il viaggio mi ha quasi divertita. Niente spaventi al decollo, solo la sensazione, una punta irritante, di compressione dovuta alla pressurizzazione, e nessun timore all'atterraggio
Sarà l'incoscienza, mi sono detta. La pagherò al viaggio di ritorno. Invece, macché: al ritorno sono riuscita a guadagnare posto accanto al finestrino, sopra l'ala, e ho passato il tempo a scattare foto e a rincuorare la ragazza della fila avanti alla mia che invece era in piena crisi, chiacchierando come una gazza per distrarla (e intontirla. Ha funzionato meglio che se si fosse drogata.)
2) io, uccello di nido, ho scoperto di essere capace di stare tre notti e quattro giorni lontana da casa e dai presunti affetti senza provare il malessere che mi perseguitava nei pochi viaggi che ho fatto da ragazza, e poi anche da giovane mamma coi figli piccoli. Sono stata in posti anche molto amati rovinandomeli quasi sempre per i pensieri ossessivi, completamente estranei al contesto, che venivano a scavarmi come tarli nel cervello, oppure per la mia incapacità di reggere la tensione davanti a qualsiasi minima contrarietà venisse a turbare il ruolino di marcia stabilito, che sempre dava la stura a reazioni drammatiche, le quali innescavano le controreazioni del coniuge, in una tempesta crescente di angosce e furori, coi bambini che ci guardavano ammutoliti (oppure ci imitavano, prendendo ad accapigliarsi tra loro). Stavolta, invece, sono stata sul posto con tutti gli spiriti, naturalmente concentrata, osservatrice, sperimentatrice curiosa, interessata. Non volevo, come spesso all'epoca mi era capitato, che volassero le ore, non spasimavo per tornare a casa: non mi sono interessata nemmeno alle condizioni di salute del mio corpo, non ho dato retta a sintomi e segnali, e come volevasi dimostrare sono stata bene. E me la sono goduta.
3) io, animaletto abitudinario, ho scoperto che di molte consuetudini posso fare volentieri a meno, se è per esplorare un modo nuovo e diverso di vivere. Al cibo italiano, per esempio, di cui pure sono ghiotta e che non di rado mi ha ispirato conforti molto simili, se non proprio all'amore, almeno alla tenerezza, ho detto ciao senza rimpianti già dalla prima mattina, davanti ai caldi toast di pane scuro ricoperti di uno strato di burro giallo e leggero, saporoso, diverso dal nostro, e di marmellata. Non ero in grado, essendo convalescente, di fare l'esperienza somma della colazione all'inglese con uova e bacon (né il mio albergo la proponeva), ma mi è piaciuto tutto il resto (burro, burro ovunque: che goduria sfrenata!). E dal cibo inglese mi sono congedata con affetto e nostalgia l'ultima sera della mia permanenza da Perkin Reveller, ristorante sotto la torre di Londra dove, a prezzo tutto sommato contenuto, ho mangiato, presentate in stile haute cuisine, scelte coraggiosamente a caso dal menu dove capivo una parola su dieci, una serie di prelibatezze tipicamente british, dolci compresi.
4) io, essere logorroico, impossibilitata dalle circostanze ad esprimermi in maniera acconcia, inibita nel manifestare all'ancora ignorante universo mondo il mio corredo fornitissimo di pippe mentali, perifrasi, parafrasi e giri vari di parole, ho scoperto di non andare nel panico per questo. Anzi, di provare un gusto nuovo e insolito nell'ascoltare, essendo costretta al silenzio. Alla fine dei tre giorni non capivo quasi niente come quando ero appena arrivata: ma quel suono musicale delle sillabe sonore, quel sontuoso poggiare la lingua tra i denti e zufolare consonanti, quell'accento sibilante e pomposo insieme, mi è rimasto nelle orecchie come una familiare, piacevolissima armonia di sottofondo che mi stupisco di non sentirmi  più attorno.

Fin qui le considerazioni su di me. Ora passo a quelle, sparse, su Londra e sui londinesi. (Non mi azzardo a dire "sugli inglesi", avendo frequentato solo la capitale, e per un raggio di non più di venti chilometri.)

Non è vero che a Londra piove sempre. Per lo meno in primavera - la primavera meteorologica, via -, piove, anche fitto, dieci minuti per dieci volte al giorno. Inframezzati da ore di uno sferzante vento di tramontana freddissimo che asciuga la pioggia in un baleno e continuamente, con ostinazione, squarcia le nubi in cielo, lasciando trapelare raggi di un sole insospettabilmente caldo.

Londra mi è sembrata per certi versi una Roma ingigantita ma topograficamente in certi punti davvero assai evocata. Per esempio, lo Strand, la stradona che lambisce Trafalgar Square, mi ha ricordato, nel suo snodarsi in salita, nei suoi incroci, persino nella tipologia di molti suoi negozi, via del Tritone. E finisce in un Crescent, Aldwych, che guarda caso ha una spiccata aria di famiglia con Via Veneto. Il lungo Tamigi in certi tratti somiglia in modo molto preciso a certi punti del Lungotevere (tutto più in grande, ovviamente). E la zona della City il sabato pomeriggio è desertica e smobilitata in modo molto simile al quartiere Ludovisi, per esempio, o a Parioli.

Non è vero che Londra è pulita come uno specchio. Ho visto angoletti di certe strade secondarie che parevano usciti dalle rappresentazioni dei luridi vicoli del Bronx di un telefilm poliziesco. Ogni tanto si incoccia in una bottiglia di birra vuota. O in un paio di contenitori di pizza sporchi. O in un tappetino di cicche.
La differenza è che lì questo costituisce un'eccezione.

Anche a Londra si otturano i tombini. Preciso come a Roma. Ne ho trovato uno allagatissimo proprio vicino al nostro albergo, alla fine del marciapiede che circondava il piccolo, curato giardinetto di St. George's Square.
Segnalato da una freccia disegnata a terra col gesso, però.

(Uh, come si è fatto tardi: spezzo questo post lunghissimo, e il resto lo scrivo domani. Buonanotte)

venerdì 19 aprile 2013

Tubthumping (I get knocked down)

Sono stanchissima, sudata, ma ancora elettrizzata. Che giornata fantastica, quella che è appena terminata. Dal principio alla fine. Che giornata!





We'll be singing when we're winning
We'll be singing

I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down

Pissing the night away
Pissing the night away

He drinks a whiskey drink
He drinks a vodka drink
He drinks a lager drink
He drinks a cider drink
He sings the songs that remind him of the good times
He sings the songs that remind him of the best times
Oh, Danny boy, Danny Boy, Danny Boy...

I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down

Pissing the night away
Pissing the night away

He drinks a whiskey drink
He drinks a vodka drink
He drinks a lager drink
He drinks a cider drink
He sings the songs that remind him of the good times
He sings the songs that remind him of the best times

Don't cry for me next door neighbor...

I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down

I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down
I get knocked down, but I get up again
You're never gonna keep me down

I get knocked down, but I get up again

mercoledì 17 aprile 2013

Wednesday 17


Ancora una deroga agli affari privati, ancora un excursus su quelli pubblici: perché esiste un "pubblico" che, nel suo inarrestabile e impersonale meccanicismo, nella sua superiore e volgare estraneità, disumanità, insensibilità, spietatezza, sul privato, sulla carne e nell'anima di moltitudini di uomini e donne, incide come nient'altro potrebbe fare, pesantemente e drammaticamente, proprio per queste sue nefande caratteristiche.
Come ogni altra volta in cui la Storia, come nel bellissimo e terribile libro della Morante, è male che incide, fino a stravolgerla, sulla piccola storia di ciascuno di noi, anche questo pezzo di Storia ha lasciato una ferita sanguinosa, profonda, ancora aperta, infetta, che invece di cicatrizzare continua ad estendersi suppurando da trent'anni a questa parte, il cui dolore con l'occasione della morte della sua artefice principale si è particolarmente riacutizzato.
Il pezzo di Leonardo Clausi di oggi,  sul suo blog "Onda d'urto" dell'Espresso, è talmente pieno di sacrosanto sdegno che non ho potuto fare a meno di ricopiarlo parola per parola.


« Everybody loves you when you’re dead* (Margaret Thatcher)


Questo funerale non s’era da fare.


La città, militarizzata. Il Funeralone di stato, a spese dei contribuenti. “Privatizziamo il suo funerale”, ha detto Ken Loach, il commento più acuto e appropriato in questa vicenda. L’ex-Primo Ministro viveva in una suite del Ritz hotel, a Mayfair: un posto da seimila euro a notte. Si tratta davvero di una figura rappresentativa di tutto il Paese?
È di cattivo gusto scrivere queste note mentre il feretro scivola in mezzo alle fanfare? Siamo davvero tutti uguali davanti alla morte? I personaggi cosiddetti storici lo sono proprio perché trascendono non certo la propria mortalità, come pensava Foscolo, ma la propria umanità: per cui lasciamo da parte i discorsi da parrocchia sul rispetto per i defunti eccetera. Basta con quest’ipocrisia comoda che vede scendere a comando la pietà dall’alto di un attico postmoderno. Le azioni storiche di questo leader, eletto da alcuni, bruciano ancora la pelle, la carne e la memoria di mezzo Paese. Quello più debole. A piangere la madre, la figlia, la moglie, la sorella e la nonna siano i membri della famiglia. E chi ha beneficiato delle sue azioni.
Oggi, davanti alle telecamere di tutto il mondo, la Gran Bretagna ripropone per l’ennesima volta la mitologia della disuguaglianza, a base di galloni, uniformi da parata, cavalli, cannoni, chiese, arcivescovi e compunti telecronisti. In fondo è uno dei talenti riconosciuti universali di questo Paese. Nessuno sa inscenare matrimoni, incoronazioni, battesimi e funerali meglio dei dignitari di Sua Maestà. Sta diventando un po’ noioso, un canovaccio logoro, soprattutto perché sai già perfettamente l’argomento delle prossime scene.
Ma per questo livido primo ministro bottegaio e guerrafondaio, amico dei ricchi, dei dittatori, razzista e omofobo, concentrato di una grettezza piccolo-borghese al cui complesso d’inferiorità l’establishment in declino ha dovuto consegnarsi (garantendo l’arricchimento bulimico dei parvenu della finanza durante gli anni dell’ingordigia al potere) pur di mantenere i poveri a distanza di sicurezza – ebbene, sarebbe stato opportuno evitare.
La cosa veramente triste è che sia stato Brown, il cancelliere dello scacchiere che ha presieduto al patto faustiano del New Labour con i bricconi della City a volere questo costoso e tronfio funerale proprio sul ciglio della crisi del 2008. A riprova del fatto che si pensava che ormai la storia fosse davvero finita, che – in palese contraddizione con il principio del terzo escluso del vecchio Aristotele (non Onassis), si fosse rimasti diversi ma diventati anche uguali: noi e loro, Tories e Labour, uniti sulla diagnosi (più mercato, meno stato) e divisi sulla terapia (più mercato e più stato, una scommessa perduta in partenza del New Labour che ha ridistribuito i dindi della finanza -  finché c’erano – nel welfare ora in via di smantellamento).
Thatcher ha vinto perché è diventata l’ideologo di riferimento di tutte le maggioranze governative d’Europa. Anzi ha trionfato, perché lei, una specie di casalinga di Treviso, ha cantato per prima un mantra che da noi avrebbe prodotto dei leader della sinistra formatisi leggendo Topolino e Dylan Dog.
Lei e Churchill, gli unici che abbiano avuto tanto onore. Tutti e due di una destra trucida perché fintamente moderata, monarchica. Ma Churchill, nonostante tutto, era Churchill. Uno senza il quale, per intenderci, questo pezzo sarebbe probabilmente stato scritto in tedesco. Uno che ha unito, da destra ma ha unito. Uno che ha guidato una resistenza militare a capo di una coalizione.
Thatcher ha diviso. Incrementato il golfo Sud-Nord, condannando alla disperazione intere comunità, ree di vivere in zone limitrofe dove l’economia aveva girato pagina. Ha distrutto l’importanza d’ideali non monetizzabili, come quello di società e di solidarietà, senza i quali non siamo che merce sugli scaffali di un supermercato. Ha contagiato una società in sofferenza economica con un virus maledetto: quello del conoscere il prezzo delle cose prima del loro valore, pessima abitudine americana, (lasciatemelo dire che è vero, a scanso di sterili polemiche pro/antiatlantiste). Questo virus sta ora dettando le politiche economiche di tutto l’occidente.
Oggi tutta Europa assiste a questo funerale come a uno degli ultimi eventi ancien régime. È il ricordo di un “come eravamo”. Dubito che al resto del mondo interessi, al di là della sapiente coreografia. Tra le molte altre cose che simboleggia c’è l’unica grande capacità di esportazione del Paese ex-officina del mondo diventato forza propulsiva di servizi, cultura pop e denaro virtuale: quella della riproducibilità tecnica dell’ingiustizia. Altri matrimoni, battesimi e funerali seguiranno, in uno stanco ripetersi che non mancherà di riempire le pagine di riviste nei parrucchieri, nelle case di riposo e nelle sale d’aspetto dei medici di periferia.
La storia, una volta di più, la scrivono i vincitori. Una funzione autenticamente positiva, quest’evento di oggi, forse l’avrebbe: avviare un dibattito sull’abolizione dei funerali di stato.
Ci lamentiamo tanto del nostro caos nazionale, e facciamo bene. Ma a guardare la frattura socioculturale oltremanica, una frattura sud-nord anziché il contrario, dove la gente balla e brinda alla morte di un primo ministro, c’è davvero poco da invidiare. Grazie a Margaret Thatcher questo è un Regno Disunito: e io mi ben tengo stretto il mio settarismo destra-sinistra, in barba ai becchini – ideologici – delle ideologie.


domenica 14 aprile 2013

La coscienza di Cri

Alla faccia della Tazza, che mi esorta a blablaleare di meno, io continuo a seguire qua sopra i percorsi delle mie pippe mentali perché mi fa bene per chiarirmi le idee. E  anche perché voglio farmi i complimenti da sola, quando me li merito.

Questo post è dunque rivolto da me a me stessa, e dice testualmente così: cara Cri, sappiamo tutte e due che stai attraversando un bosco di rovi e spine, dove non è il confronto con gli ascendenti morti a crearti sofferenza, ma quello coi discendenti vivi.
(Tanto un genitore che è uno praticamente non ce l'avevi manco prima, c'è stata solo la certificazione bollata di una condizione preesistente, a parte il corollario di tormenti vari simbolici e concreti che la sistemazione dei casini lasciati dal defunto si porta dietro.)
Sappiamo che ti muovi a tentoni, che fai quel che puoi e riesci a fare, che ne sbagli e sai di sbagliarne due su tre, che anche quella che fai giusta poi magari te la rovini sul più bello con uno sbrocco improvviso che non riesci a trattenere, come quando con l'ultima carta del mazzo fai cadere tutto il castello faticosamente sistemato in equilibrio.

Però di una cosa devo darti atto.

Ti ricordi di quando, anni ed anni fa, hai cominciato a prendere coscienza dei condizionamenti in cui era impastoiata la tua esistenza, e a proclamare solennemente a te stessa e a tutti che stavi stilando un metaforico quaderno di appunti di tutte le stronzate che tua madre diceva e faceva per schiavizzarti, atti ed espressioni verbali, per stampartele a fuoco nella memoria, acciocché, sapendo quanto avevano fatto e facevano del male a te, quando ti fosse toccato interagire coi tuoi figli nelle medesime circostanze non ti venisse mai e poi mai il ghiribizzo di emularle manco per sbaglio?

(Oddio, all'inizio l'avevi pensato per quelle di tua suocera nei confronti del tuo allora fidanzato: si vede sempre prima la pagliuzza negli occhi del fratello anziché la trave nel nostro...)

Ebbene, adesso che l'ora è giunta, e che i frutti dei tuoi lombi ti stanno dando matasse di fili da torcere, sappi che io l'ho notato, che quel quaderno ti è servito e ti serve. Perché le tue reazioni saranno anche opinabili una volta su due, anzi, due su tre, ma sono le tue, assolutamente lontane e distinte dallo scimmiottamento delle cazzate inaccettabili, per egoismo, malsanità e infantilismo, di tua madre.

Sei libera, Cri. Sei diversa da lei. Sei grande.

E' come dice Zeno Cosini: "la vita non è difficile, è originale". Scoprirlo e viverlo è segno di maturità.

Sono fiera di te. 

venerdì 12 aprile 2013

L'anno che verrà

Cara amica ti scrivo così mi distraggo un po', e siccome sei anni luce lontana più forte ti scriverò.

Scrivo a te in qualità di emblema della nutrita schiera di persone che mi hanno scocciata prima virtualmente, poi nel mondo reale, per assaggiarmi, gustarmi, divertirsi un po' con me e poi accantonarmi, senza scrupoli o rimpianti, come un pezzetto di torta che non entra più in una pancia satolla o un giocherello di cui si è stufi e allora si lascia per uno nuovo.

Ce n'è parecchia, nel non luogo feisbucchiano, di gente così. E' inutile che continui a negare l'evidenza: l'ho toccato con mano, senza possibilità di fraintendimento, constatando le reazioni, anzi, le non-reazioni del novantanove virgola novantanove per cento dei miei contatti di fronte all'evento concreto che mi ha colpita. Però tu ti ergi al di sopra di quella massa per molti motivi:
1), la calda simpatia che m'hai dimostrato.
2), la tua apparente originalità e vivacità intellettuale.
3), la tua cultura. E la mia innata debolezza per essa.
4), la stima che all'inizio m'hai suscitata anche in virtù della tua età e della tua professione.
5), la profondità delle confidenze che ci siamo scambiate e la frequenza dei nostri incontri "dal vivo": tu facendomi un fischio ed io correndo ad accoglierti ogni volta che passando per Roma scendevi da un treno e a salutarti ogni volta che vi risalivi, servendoti da chaperon per tutti gli angoli della città tu manifestassi desiderio di visitare, talvolta anche includendo nella mia disponibilità la scorta e guida a tuoi amici e compagni di viaggio, tra consumazione di permessi o giorni di ferie dal lavoro, declino di altri impegni, sottrazione di spazi al mio privato, tanto che, in fondo, avrei potuto attribuire valore al nostro rapporto solo in virtù di questo mio affaccendarmici intorno: com'è che dice de Saint-Exupéry ne Il piccolo principe? "È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante".
6), l'insieme di tutte queste cose.
Perciò tu svetti esemplare e preminente su tutti gli altri più anonimi e scialbi "contatti".

Ti scrivo per salutarti, perché io e te non ci vedremo più. Hai cominciato a mollarmi, in modo inversamente proporzionale al mio lasciarmi andare, proprio mentre io invece cominciavo a fidarmi che noi due avessimo davvero qualcosa a che spartire: forse una comune sensibilità, un'eccentricità lieve e innocua che lasciava scie profumate del nostro passaggio, un simile e singolare sguardo sulla vita, e un'invincibile giovinezza del cuore riflessa sui nostri volti sorridenti, al di là e malgrado i nostri dolori, le nostre amarezze e disillusioni. Invece no, erano fantasie: proiezioni su cui avevo investito per darti rilevanza nella mia testa. E dire che ce ne avevo pure messo del bello e del buono per persuadermene.

Perché, amica cara, ti confesso che, quando mi hai proposto per la prima volta di incontrarci dopo poche settimane in cui avevamo scambiato sì e no dieci commenti pseudo spiritosi sulle bacheche di contatti comuni, io ho accettato per acquiescenza, per imperizia nel sottrarmi. Il mio masochismo non mi fa mai declinare un invito che non mi attira e non mi convince.

Tu mi avrai presunta una disinvolta, innocua buffa picchiatella bramosa di novità, una finta svagata (parte in commedia a cui tu stessa ti applichi con tale dedizione ed accuratezza da far supporre quanto apprezzi vederla recitata anche dagli altri) insoddisfatta e curiosa; quando invece io sono molto più basica e sostanziale di quanto voglia dar ad intendere. Cristo, tu ti reputi chissà quanto interessante, ma la verità è che sei un'estranea, quattro parole di pixel su un network, ed hai un passato, un'esistenza e, già sospettavo dal principio, anche opinioni e gusti alquanto distanti dai miei: pur con tutte le moine di sofisticata e discreta incantatrice che tu poni in essere quando ti approcci, che gusto potevi pretendere io avessi nel vederti? A parti invertite, se avessi aspettato che ti agganciassi io, campa cavallo!
(Mah. In realtà sarebbe potuto accadere anche il contrario: che mi scappasse di bocca un improvvido "quando passi per Roma avvisami, ci prendiamo insieme un caffè!" senza che quasi me ne rendessi conto... Quando mi pigliano certi impulsi, certi fugaci momenti di entusiasmo, divento incapace di tener a freno la lingua. Mi è così ostico sentirmi in sintonia con un essere umano che quando ne capto un'eco anche lontana, un miraggio, un abbaglio, non resisto, la gratitudine mi piglia la mano al punto di farmi prostrare servilmente dinanzi a colui che me l'ha ispirata; e teniamo pure conto della mia smodata inclinazione ad ingraziarmi la gente, a corteggiarla, flirtarci vezzosamente, compresa quella di cui mi frega poco o niente, persino quella che non mi piace, per il mio bisogno patologico di essere vista e benvoluta, per cui ogni lasciata è persa, ogni sguardo stornato dopo essermisi posato addosso diventa una lacerazione nel mio essere, una disfatta... Una volta glielo dissi al casumano che ero come un cane randagio, che te lo compri già se non lo pigli a calci e con un tozzo di pane)

E' che io non sono stata chiara e aperta con te. Ti ho fatto credere che mi importasse di vederti, che ci tenessi.
Non era vero.

Non lo sono quasi mai, chiara e aperta, con gli altri. Mi costa troppa energia psichica, mi esaurisce, e prima ancora mi atterrisce. Tranne gli isolati casi in mi disinibisco - quando sono proprio disperata, o fuori controllo per la rabbia - in circostanze ordinarie devo sentire proprio molta molta confidenza con qualcuno, oppure un eccezionale trasporto nei suoi confronti, per assumere il rischio mortale di svelarmi. Che significa anche, semplicemente, concedermi il diritto di rispondere con schiettezza e sincerità "sì" o "no" a domande del tipo "sei stanca, vuoi che ci fermiamo? Giriamo da quella parte? Entriamo in quel bar lì? Hai ancora fame? Facciamo quattro passi? Stai comoda su questa panchina? Preferisci quell'altra, così il sole non ti viene in faccia?": quesiti che abbraccino uno spettro di possibilità di molto preliminare al ben più impegnativo "passo per Roma, ti va di vederci?" e che giunga poi fin lì e oltre. E di norma, anche quando interagisco con qualcuno nelle eccezionali condizioni descritte a inizio paragrafo - la confidenza o il trasporto - non può apprezzarsi comunque nel mio comportamento una percettibile differenza: perché in casi tanto fausti e rari la mia adesione acritica e aprioristica ai voleri altrui non è più forzata, anzi, diventa fonte della mia gioia; e poiché in quel frangente mente e cuore sbrigliati oltrepassano, volandoci sopra, l'intoppo della penosa ambivalenza che sempre pesa sulle mie relazioni interpersonali, sicché con uno così mi vedrei sempre volentieri, non si porrebbe proprio il problema di rifiutare un suo invito, anzi, in talune circostanze potrei persino spingermi a sollecitarlo io.

Tu invece rientri nella tipologia comune, e mi sono prestata ad assecondarti per mera acquiescenza, perché mi era più sopportabile il disagio di passare qualche ora in tua compagnia che quello di dirti apertamente che non avevo voglia o tempo, anche solo una volta; perché era più auspicabile tollerare il tribolo di perdere un pomeriggio appresso a te che paventare il timore che tu, ad un mio "stavolta non posso, scusami", smettessi tout court di cercarmi nelle tue peregrinazioni su e giù per la penisola, ed io venissi esclusa anche da quella minima tangenzialità nella tua vita. Perché, ora che eri venuta ad importunarmi, se avessi smesso per me sarebbe stato un fallimento.

Non aveva importanza che non fossi contenta senza se e senza ma di stare con te, che vivessi l'aspettativa delle ore da passare insieme con una bella dose di ambiguità, che ne cavassi sia parti di diletto che di fastidio, perlopiù in misura scompensata a vantaggio delle seconde. C'era sempre quella nota stonata che non mi quadrava, sul perché tu mi chiamassi quando passavi per Termini ma poi in realtà non cercassi la mia vicinanza al di fuori di quelle occasioni. Erano tante le cose che tu mi dicevi, o che era evidente ti aspettassi da me, che non mi piacevano, ma che rilievo può avere per una che è stata abituata ad accontentarsi di quello che passa il convento, a non fare storie, a reprimere i suoi moti di piacere e di malessere fino al punto di confonderli, non saperli più distinguere? Assecondare è il mio mestiere, e io diligentemente ti assecondavo, traendo proprio dal mio senso di disagio il mio profitto e la mia soddisfazione, la sicurezza di star facendo la brava bambina, di svolgere correttamente il servizio socialmente utile di far contente le persone che mi compete, come mi hanno inculcato da sempre, come mi hanno educato giorno dopo giorno da quello della mia nascita tramite il messaggio subliminale, iscritto nei gesti, pur dissimili tra loro, di mia nonna e mia madre e mio padre, che nel loro modo di tenermi, toccarmi, cambiarmi, lavarmi, allattarmi, costantemente ripeteva: tu sei al mondo per servire di supporto agli altri, non hai diritto ad un'esistenza indipendentemente da questo, non puoi pretendere di avere soddisfazione ai tuoi desideri, né di essere amata, a prescindere. Se vuoi affetto, considerazione, cure che ti assicurino la sopravvivenza, te li devi guadagnare: perciò forza, bambina, bocca chiusa e pedalare, altrimenti  sarai gettata via come qualsiasi altro oggetto inservibile.

E' questa la mia parte buia, malsana: quella che attira frotte di psicopatici che mi nasano come un cane il tartufo più pregiato.
Quel centro di comando che colonizza la mia mente e controlla dall'alto ogni mia azione e reazione.  Registrando ogni dettaglio con una lucidità disumana che è anteriore e superiore ad ogni mio slancio,  sensazione, sentimento.
Quella metavisione di cui parla il mio maestro jedi, una sorta di devastante e spietata registrazione in ultra consapevolezza di me stessa e di tutto ciò che mi circonda, un controllo a tappeto totale, un'impossibilità di abbandonarmi mai del tutto che da bambina mi è stata probabilmente indispensabile strumento di difesa ma che ora mi condiziona pesantemente la vita, anzi, me l'avvelena, impedendomi - se non appunto in casi estremi, e anche lì a un prezzo spropositato - di godermela, e anche nelle più sporadiche e felici circostanze costringendomi ad una perenne identificazione: un'assimilazione che è una sorta di cannibalismo irrefrenabile dove cose e persone esistono solo se le incorporo per poi ripartorirle, rimettendole al mondo, attraverso il canale uterino delle mie emozioni.

Capisco sia difficile star dietro al funzionamento contorto del mio cervello, eh. Non ti biasimo, se non hai voluto o potuto capire. Soprattutto una come te, le cui intenzioni erano invece trasparenti sin dall'inizio: divertirti in mia compagnia, giocare spensierata, e basta. Senza serietà, senza inutili moralismi, senza reale contatto, senza investimento di sentimenti. Per il tuo narcisismo (ancora quello, sempre quello!). Per quella tua pigrizia morale, la stessa che ti ispira prudenza nell'esprimere le tue opinioni politiche, ad esempio, e che ti fa barcamenare nelle discussioni dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Per quella tua ostentata tepidezza spirituale che non ti fa affezionare a nessuna causa e ti evita di metterti in gioco. Per quella tua indulgenza all'egocentrismo che occulta la disperazione velata dietro la tua superficiale leggerezza, nello sfoggio di un'indolente (manco così tanto sagace ed elegante come credi) ironia che marca con ostentazione manieristica il tuo distacco dalle passioni autentiche, col simulacro delle quali però ti piace immensamente trastullarti, eroina delle tue fantasie di fiaba assolute e totalizzanti alla tua augusta età. Per non vedere, ovviamente, la paura, lo smarrimento, lo sconcerto, il dolore che ti renderebbero persona, valida, concreta, restituendoti a te stessa, e con cui invece eviti il più possibile di fare i conti, anzi, di percepirli proprio, anche per sbaglio, di sguincio, da lontano.
Io invece li sentivo, il tuo dolore e la tua paura. Sentivo che stare con me ti distraeva. Che la mia ostinata energia vitale, il mio sfrenato entusiasmo, il mio ottimismo ottuso incurante di tutto ti ricaricavano le batterie, consentendoti il riassestamento di quel bel tuo sorriso seducente, enigmatico e beffardo, costantemente in pericolo, impedendo il minacciato cedimento di quell'impalcatura fittizia su cui si regge il tuo finto disincanto della vita.
Per questo, sotto l'ambiguità, la falsità e la malsanità delle mie paranoie, è emerso quasi subito per te, dono gratuito e bello e integro e luccicante come un pacco sotto l'albero di Natale di un bambino, il moto della parte buona e genuina del mio cuore: tenerezza per quel topino arruffato e sofferente che sei, saltimbanco in precario equilibrio tra i lustrini dei tuoi lazzi e frizzi e l'aggraziato cinismo di donna di mondo che al mondo sa stare (ma dove: manco per niente, amica mia). Umana comprensione, calore, affetto.
Siccome tu non ti volevi bene, te ne ho voluto io.
Fingendo di credere a come me la raccontavi, ma intuendo la verità intrinseca. E sapendo che tu sapevi.
Non infrangendo per questo mai, da donna d'onore, la regola non scritta del silenzio, dell'elusione.
Esercitando, io sempre così sfacciata e indiscreta, la forma più suprema di discrezione.
Come sempre.
Ma essendoci ogni volta, per te. Accorrendo ai tuoi richiami, rispondendo ai tuoi messaggi spiritosi e sognanti, ascoltando le tue sciocche frivolezze di ragazzina fuori tempo massimo, offrendoti la mia complicità per ricompattare le continue crepe di questo tuo castello in aria di illusioni.

E così siamo andate avanti per un pezzo, con te che ricevevi e per ricambiare mi gratificavi, con un tono tenero e ironico, di sentenze che erano insieme amabili ed offensive, sempre sospese tra il serio e il faceto, nell'indistinto, nella non chiarezza, non linearità. Era un gioco, un gioco gentile, beffardo e un po' impietoso, anche quello.
Per me invece, da un certo punto in poi, è stata realtà. Nell'allora mia assoluta ingenuità sono fatta influenzare dalla tua necessità di vedermi svolazzare come una falena sventata per riscaldarti la mente e il cuore con la mia immagine così viva, così movimentata. Ed è anche a causa tua che mi sono bruciata. La mia imprudenza emotiva non è nata dall'acquiescenza: lì ero andata oltre, rimbambita, rintronata dalle tue belle parole che mi schiudevano rosei scenari, spingendomi ad assecondare a capofitto la lusinga di poter recuperare scampoli della mia mancata adolescenza illudendomi poi, oltretutto, di non doverne pagare il prezzo.
Tutto per corroborare le tue, di illusioni. Per sostentare la tua ricerca di estasi decadenti.
Perché tu sapevi di non poterci credere. Per questo ti beavi del fatto che ci credessi io.
E non ti sei preoccupata di cosa mi sarebbe successo al risveglio.

Quando il palloncino si è bucato e io sono precipitata rompendomi la testa tu dapprima hai creduto che fosse una cosa momentanea: che avrei fatto un po' di storie e poi mi sarei di nuovo rialleata con te per una nuova avventura. In parte forse davvero non avevi capito la profondità e l'impegno con cui mi espongo, quando mi espongo. In parte forse speravi di recuperare la tua bambola da rivestire di un nuovo abito di gala, a cui far dire di nuovo sproloqui romantici, di cui veder di nuovo le gote rosse e gli occhi sognanti.
Così non è stato. Hai assistito al mio ripiegamento, al mio svilimento psichico. Al mio scivolare progressivo dentro il pozzo nero della depressione.
E tu, che avresti avuto anche gli strumenti per aiutarmi, hai invece deciso di girare la testa.
Hai cominciato ad allontanarti da me lì, proprio quando avrei avuto bisogno di te, come amica e come amica che poteva darmi una mano. Ero diventata cupa, avevo perso la porporina, non ti divertivo più.
Ti sei fatta un altro giro di spensierati disperati quanto e più di te, e pian piano, con discrezione, mi hai mollata.

Me ne sono accorta definitivamente solo nell'ultimo frangente, quello estremo, della morte di mio padre.
Da quando l'hai saputo, gratificandomi di un commentino imbarazzato e autoassolutorio sulla mia bacheca di FB, sono passati dieci giorni. Nei quali tu non mi telefonato, non hai mandato un messaggio, una mail, un sms.

Così da oggi tu non sei più mia amica. Ho cancellato il tuo contatto. Ti ho rimosso.
Dal mio cuore, invece, non devo rimuoverti. Per tua espressa volontà hai fatto in modo di non significare nulla, per me.
Mi scorderò presto di te, e sarà come se tu non fossi mai esistita. Non lascerai tracce, dentro di me.

Oggi ho un motivo in più per sentire pena per te. Che per fortuna mia svanirà quando ti avrò dimenticata.

Tu sei ferma nel tuo castello, prigioniera del tuo incantesimo falso. Io sono in cammino, ti ho oltrepassata, già non ti vedo più.

L'anno che sta arrivando tra un anno passerà
io mi sto preparando: è questa la novità.


mercoledì 10 aprile 2013

Always

“Chi è stato torturato rimane torturato... chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più”

lunedì 8 aprile 2013

Brassed off (Grazie, signora Thatcher!)

E' proprio periodo di scomparse, questo: pubbliche e private, alcune che cagionano dolore, altre per fortuna quasi sollievo.

Dopo vari addii sofferti oggi mi è data pertanto l'occasione di celebrarne uno con assai meno rimpianto, anzi, oserei dire, quasi con letizia, se potesse essere umanamente dignitoso rallegrarsi della morte di un individuo (in astratto io credo di sì, e anzi sempre legittimamente si registra, in occasione di dipartite di tiranni, aguzzini, detentori di potere esercitato per fini indegni, criminali dell'umanità e ogni sorta di esseri in qualsiasi maniera minacciosi del benessere se non addirittura della mera sopravvivenza dei propri simili, un senso collettivo di liberazione e di giusto risarcimento per la "livella" che non risparmia nessuno e rimette a posto ogni cosa, annichilendo buoni e cattivi senza favoritismi), e se al contempo non fosse inutile gioire della morte di una persona ormai non più in grado di nuocere, posto che tutto il male che poteva compiere l'aveva portato ad effetto da un pezzo con conseguenze devastanti non solo per il suo Paese ma per il mondo intero (come hanno ricordato molti giornalisti e politici nella giornata odierna) che si dispiegano da trent'anni a questa parte con sempre maggiore ampiezza e con una forza che pare irreversibile.

Sto parlando, ovviamente, di Margaret Thatcher.

Condivido perciò qui con voi un frammento di un film che fa parte da anni della mia videoteca, sovente rivisto con rinnovata empatia e partecipazione, che nel pomeriggio mio figlio ha avuto l'idea di re-visionare insieme a me in onore della fausta circostanza odierna, e che costituisce una delle tante manifestazioni della veemente opposizione alla sua spietata politica, uscendo quasi all'apice della sua impopolarità, l'anno precedente alle dimissioni a cui ella fu costretta dall'ondata di malcontento civile, a tragedia dunque ormai quasi completamente compiuta; ed è una sorta di suggello di anni di lotte e di contrasti per la strenua rivolta di una cospicua e importante parte del mondo artistico e culturale contro di lei, dai tanti musicisti - Pink Floyd, Iron Maiden, Elvis Costello, Paul Weller, Clash - agli scrittori e pensatori ai cineasti, Ken Loach in testa su tutti come fulgido esponente di un cinema arrabbiato più che impegnato, crudo, documentaristico, che ha sfornato, insieme ai suoi e a questo, anche altri piccoli capolavori come Billy Elliot o The Full Monty.

Avrei voluto evitare di spoilerare la scena clou e postare invece il finale: con la banda che suona sommessamente in notturna, sul bus che la porta in giro per Londra, Pomp and circumstance, mentre in sovrimpressione all'espressione impietrita di dignità e dolore del grandissimo Pete Postlethwaite, cifra e morale dell'intera vicenda, scorrono i terribili dati risultanti dalle politiche neoliberiste della lady di ferro: centinaia di miniere di carbone, ancora produttive, chiuse, duecentocinquantamila minatori rimasti disoccupati, un dramma sociale di proporzioni impressionanti. Ma non l'ho trovato.
Beccatevi perciò il prefinale di questa storia esemplare, colle immortali parole del protagonista, minatore in pensione e in fin di vita che ad ogni accesso di tosse non sputa sangue ma carbone, e insieme sacerdote laico di offici musicali di ottoni smaglianti e lucidi piatti quale magistrale e fervente direttore della banda della miniera di Grimley, una delle migliori bande del Paese per una delle tante miniere dismesse con l'inganno, l'oppressione e l'umiliazione dei lavoratori.

Goodbye, mistress Thatcher. Nessuno ti ricorderà con rimpianto, con gratitudine. Non ci mancherai, impegnati come siamo a soffrire gli effetti della diabolica dottrina da te propagandata, e a lottare con i moderni tuoi discepoli e adepti, che hanno continuato a cuor leggero a predicare il verbo dell'economia senza regole tributandole sacrifici umani fino alla catastrofe con cui stiamo facendo i conti in questi giorni.

E nonostante tutto noi restiamo umani. Non così possiamo dire di te e di quelli come te, forse.




















domenica 7 aprile 2013

Cristina got married


 
La tenerezza della mortalità
di hollygoli

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venerdì 16 luglio 2010
Un film di delicatezza ed intensità quasi insostenibili, che nello spettatore "giusto" può far scattare uno straziante processo di identificazione con Peggy Sue. Una storiella da cinema tipicamente americano che nelle mani del mostro sacro Francis Ford Coppola diventa un'opera d'arte, un gioco di specchi (non solo figurato), non surrealista ma iperrealista, ricco di sottotesti, ambiguità, inquietudini, simile a certi sogni lucidi che fondono realtà vissute e proiezioni dell'inconscio che in Shakespeare assurgono a folgorante metafora della vita in Misura per Misura: "tu non hai né giovinezza né vecchiaia, ma un sonnellino pomeridiano nel quale sogni di entrambe". Peggy Sue si ritrova proprio così, non più diciottenne né quarantenne, sospesa in un "sonnellino" a metà tra il bel sogno e l'incubo, in cui cammina, abita e sfiora la vita di persone di cui è consapevole che non sono più così, o non sono più affatto. Lungi dall'apparentarsi minimamente ai banali classici dell'operazione nostalgia, il film non scivola però nemmeno in una sorta di dramma parapsicologico grazie ad un'intrinseca sincerità sentimentale, che è di Peggy Sue - una mai più così grande Kathleen Turner -, il cui amore struggente, ma venato di ironia e per ciò mai patetico, per le cose e le persone della sua memoria, ma soprattutto per la se stessa diciottenne, è l'energia che anima il teatrino della sua rappresentazione onirica, insieme ad un sottilmente sotteso senso di incertezza sulla sua condizione, sospesa tra l'essere ancora viva e momentaneamente intrappolata nei ricordi o, viceversa, esser morta e divenuta lei stessa ombra tra le ombre; ma prima ancora è di Coppola, qui autenticamente commosso ed ispirato forse dai propri drammi personali, che compie egli per primo il viaggio di Peggy Sue e che, per trovare scampo e sollievo ad un grande dolore, si rifugia, non col sogno ma con il magico mezzo del cinema, in un mitico eden perduto, quando ancora il futuro era tutto da scrivere, gravido delle ingenue speranze della giovinezza, consapevole però, nel momento stesso in cui attua il suo gioco, della vanità di esso. Peggy Sue non non riesce a modificare il tracciato della sua vita di ragazza, perché sa di non averne la possibilità: non è davvero la Peggy Sue di allora, è un'abusiva che non vive, ma fantastica solo di un passato che non esiste più, se non come impronta nel suo cuore, eco pulsante di qualcosa che è finito, come la scia di luce delle stelle spente milioni di anni fa sul firmamento del cielo; e perché infine comprende che nel riuscire ad accettare questa fatalità di esseri mortali, effimeri, sta la tenerezza dell'essere umano. Per questo "Peggy Sue got married", tra immagini di raggelante bellezza e un'opprimente, a tratti, sensazione di deja vu ai limiti della claustrofobia, è, alla fine, uno di quei film da cui si emerge diversi da come ci si era entrati, intristiti, ma illuminati dalla condivisione di una smagliante serenità superiore, luminosa come la luce che pervade tutta la pellicola. Non un capolavoro, ma certo un piccolo gioiello.

(Recensione scritta da me su Mymovies esattamente un anno prima di aprirmi il profilo FaceBook, quando già il magma ribollente del passato cominciava a rendermi irrequieta, e la visione di questo film mi aveva rotto gli argini di un pianto irrefrenabile, scossa da singulti tali da spaccarmi le costole. Me lo sono rivisto la settimana prima  della morte di mio padre, sollecitata da un amico di mio figlio, ragazzo particolare, raffinato, entusiasta e delicato cinefilo, studente di cinema alla facoltà di Lettere dell'università di Tor Vergata, a cui l'avevo consigliato e con cui avevo avviato sul film specifico un gran bel dibattito. In questi giorni è ricomparso ancora a tradimento qua dentro, e mercoledì o giovedì sera, quando davvero mi sentivo sola al mondo, mi sono rimessa forse venti volte di seguito la colonna sonora. Stasera mi sa che lo riguardo: non è terapeutico, anzi. Però contiene una pietas, una tale struggente e straziante tenerezza per un passato impossibile da rivivere e tanto meno da modificare, e un tale amore per l'unica possibilità che ci è concessa riguardo ad esso, e cioè l'accettazione generosa ed accogliente di ciò che siamo stati, che risulta davvero utile, se non imprescindibile, vederlo e rivederlo. Tanto più in occasione del compleanno del suo, umanissimo, grandioso, regista, che lo girò colpito dal gran dolore per la morte di suo figlio. Auguri, caro Francis, e che Dio ti benedica)


Pane e tulipani


"Marì. Siamo qui per abitudine. Probabilmente se avessimo saputo prima manco ci saremmo iscritte. Abbiamo perso tempo e tante altre cose belle che avremmo potuto fare nella vita nel tentativo (inutile peraltro) di riempire i nostri vuoti e rendere meno dolorose le nostre défaillance. Io per me butterei tutto, eccezion fatta il mio piccolo manipolo di "eletti" con i quali ci si intende senza manco parlarsi e che mai avrei potuto conoscere senza Fb.
Per il resto, ci sono momenti in cui per motivi oggettivi tutte le vacche ci sembran nere e tutto ci appare più pesante di quello che è. Questa sensazione si attenuerà con il tempo anzi, dinanzi alle difficoltà ed ai dolori - quelli veri - della vita, inevitabilmente ci trasformiamo pure noi il nostro modo di vedere le cose cambia.
Come donne siamo state educate a pensare all'amore come forza rigeneratrice in grado di cambiare situazioni e persone. Nulla è più sbagliato secondo me perché non esiste niente così capace di trasformarci quanto la sofferenza. E quando lo "stampo" è buono questo cambiamento si traduce in saggezza e in bellezza d'animo: in qualità, in poche parole."

Pensieri cari, belli e giusti donatimi ieri su FaceBook da La dolce eutirossina

sabato 6 aprile 2013

Twist in my sobriety

Furore e dolore mi hanno raggrumato, indurito, resa un monolite.
Un megalito eretto in un deserto.
Troppa delusione, troppa crudeltà nel disincanto: per i comportamenti inauditi del frutto dei miei lombi, per la trascuratezza di certuni, per l'indifferenza, l'assenza, la lontananza di certaltri.
Togliersi il velo di Maya dagli occhi fa più male di un lutto.

"per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso."

Dura come pietra, e impenetrabile, e compatta. Dove l'incapacità, l'insensibilità altrui non mi tocchi più.
Non più di una impercettibile scossa nella mia lucidità.




All God's children need travelling shoes
Drive your problems from here
All good people read good books
Now your conscience is clear
I hear you talk girl
Now your conscience is clear

In the morning I wipe my brow
Wipe the miles away
I like to think I can be so willed
And never do what you say
I'll never hear you
And never do what you say

Look my eyes are just holograms
Look your love has drawn red from my hands
From my hands you know you'll never be
More than twist in my sobriety
More than twist in my sobriety
More than twist in my sobriety

We just poked a little pie
For the fun people had at night
Late at night don't need hostility
The timid smile and pause to free

I don't care about their different thoughts
Different thoughts are good for me
Up in arms and chaste and whole
All God's children took their toll

Look my eyes are just holograms
Look your love has drawn red from my hands
From my hands you know you'll never be
More than twist in my sobriety
More than twist in my sobriety
More than twist in my sobriety

Cup of tea, take time to think, yea
Time to risk a life, a life, a life
Sweet and handsome
Soft and porky
You pig out 'til you've seen the light
Pig out 'til you've seen the light

Half the people read the papers
Read them good and well
Pretty people, nervous people
People have got to sell
News you have to sell

Look my eyes are just holograms
Look your love has drawn red from my hands
From my hands you know you'll never be
More than twist in my sobriety
More than twist in my sobriety
More than twist in my sobriety