venerdì 30 novembre 2012

Quattro soli a motore

"Arrivai a casa in ritardo. Una zuppa fumante, per niente estiva e ancora meno invitante mi aspettava nel piatto. Un passato di carciofi. Quella sera l'energumeno sembrava tranquillo e non sarei stato punito. Lui e la mamma sorridevano complici come non li avevo visti mai, e ricordo che pensai all'eventualità che ci fosse di nuovo un fratellino in arrivo. Vale a dire che lui, mentre io indugiavo nel fienile ad ascoltare il nuovo racconto di Gianni, gliel'avesse messo dentro per la terza volta. O per la seconda e mezza, visto che sospettavo che la morte prematura di quell'altro fosse stata dovuta a un inserimento non abbastanza convinto. Quella sera non sembravano neanche i miei genitori, ma due controfigure scelte male. Forse erano tornati in un felice passato sovrapposto al mio presente. O erano venuti giù da Shindar 9 o da chissà dove. Videla ogni tanto ragliava o nitriva. Oppure diceva cose come "Ure curòbia scurubienta". Lei aveva messo su una faccia compita,criptica e finto seria, e sembrava che il beone tutt' a un tratto fosse diventato lui. Quando passai al prosciutto e alla fontina, invece di sgridarmi per la mia attitudine a mangiare senza pane si limitò a esortarmi bonariamente: "Cumpesa, ninìn, cumpesa!". Mi chiamò, nei modi in cui mi chiamava quand'era in buona: Strungugnìn, Margnifùn, Federzùn,Balabiòtt, Baiù, fingendo di canzonarmi come se volesse fare amicizia. E non era tutto. Al reparto spedizioni dell'utensileria avevano festeggiato il compleanno di un caposquadra, e lui aveva addirittura rubato per me un pasticcino, tutto glassato di rosa. Guardai il pasticcino sul tavolo e fui vicino a sciogliermi in lacrime. Il mio nemico sotto sotto mi amava? Poi però pensai che non fosse giusto, confondermi così. Se mi vuoi male, devi volermi male sempre. Non che una sera mi picchi e la sera dopo mi regali un pasticcino e quella dopo mi picchi di nuovo. Non si fa. E' molto peggio che picchiare sempre."

(Avevi ragione, Nicola, questo libro mi piace tantissimo. Ci sono tante pagine su cui mi soffermo, tante frasi da sottolineare, tanti umori, tanti sapori, tanto che mi somiglia, tanto in cui mi ritrovo, tanto che scopro per la prima volta, tanto che mi affascina, che mi commuove, che mi entusiasma, in una girandola incandescente e colorata che mi fa sgranare gli occhi e spalancare l'anima per non perdermi nemmeno una virgola.
Ma, fra tutto quel ben di Dio, ho scovato questo paragrafo, all'inizio del capitolo 14. E fra tutto il resto, in particolare, questa cosa tu l'hai scritta per me, è mia, me la piglio.
Grazie)

mercoledì 28 novembre 2012

Il senso della bellezza.

"Ogni cosa ha due facce, una è quella giusta, l’altra ne è solo la caricatura. Nella psicologia umana, ad esempio, se il coraggio è una virtù, non lo è il correre rischi senza senso. Se l’amore è un sincero sentimento umano, il sentimentalismo è la sua contraffazione. La cautela è una qualità, la paura è distruttiva e inutile. Allo stesso modo la bellezza, quando diventa “esibizionismo” volgare, è una banale caricatura di se stessa e si riconosce facilmente. Ma qui parleremo della bellezza sincera, la qualità più preziosa che l’attore “presta” alla sua creazione, se ne ha dentro di sé. Dove sono le radici del vero senso della bellezza e di quello finto? Come possiamo distinguerli? guardiamo i lavoratori manuali. Vedremo che i loro movimenti spesso sono belli. Quando, per esempio, il pesante martello vola su e giù in continuazione, la mente del lavoratore è impegnata esclusivamente in quel compito, senza alcun desiderio di “esibizionismo”. Potremmo addirittura dire che la vera bellezza deve essere nascosta perché gli altri la possano scoprire. il senso della bellezza, che è profondamente radicato in qualsiasi natura artistica, dovrebbe essere trovato dall’interno. Non può essere imposto dall’esterno, perché è individuale come l’artista stesso." M. Cecov "La tecnica dell'attore" Forse tutto questo non vale solo per il palcoscenico.

lunedì 19 novembre 2012

Ogni cosa è illuminata

Guardo dalla vetrata della mia veranda e vedo il cielo al tramonto come solo in autunno sa essere: calde lingue di fuoco arancione che slabbrano con imponderabile contrasto la volta fredda e nera di pece popolata da impressionanti flotte di immensi bianchi batuffoli lanuginosi, spiccanti sull'illimitato sfondo di tenebra per i bagliori di quelle fiamme, grida cosmiche del giorno morente all'apice del più insostenibile strazio e della più squisita armonia, che nell'esatto momento finale della sua irreversibile sorte sprigiona, in sanguinosa e debordante cascata, la più perfetta e piena bellezza sia dato all'occhio umano di poter contemplare.
E' uno spettacolo che mi appaga e mi emoziona. E come sempre all'emozione si accompagna quella stretta al cuore, quel male dolcissimo che sempre si associa ad una percezione intensa, da "dopo".
Il "dopo" distinto dal mio "prima" di ingenuità, inconsapevolezza di me stessa, acerbità.
Il "prima" dove io, ancora addormentata, sognavo la vita, anziché viverla. Immaginavo i sentimenti, anziché provarli. Mi figuravo la sofferenza, anziché rendermi conto di portarne i segni e gli effetti sulla pelle.
Il "prima" dove mi muovevo ignara di me e degli altri, a volte triste, a volte felice, nella serena incoscienza di una bambina.
Il "prima" dove credevo alle fiabe, alla bontà intrinseca delle persone, anche quelle più spietate, e avrei giurato piena d'ottimismo che l'amore vince su tutto, e che è sempre corrisposto. Che, se avessi amato, mi sarebbe stato contraccambiato. Che le mie buone intenzioni, il mio faccino implorante, mi avrebbero accordato la clemenza della Corte.
Avevo avuto bisogno di crederci, da bambina. Ne andava della mia sopravvivenza. E in fondo, davvero, le persone spietate a cui ero stata obbligata ad affidare la mia vita, e a cui ero stata costretta a voler bene, alla fine talvolta si erano impietosite. Non erano mai arrivate ad uccidermi o a ferirmi fisicamente in modo grave, si fermavano sempre in tempo, al di qua del baratro. Ciò mi aveva condizionata ad amare anche i persecutori - anzi, ad amare soprattutto quelli, che mi erano così tanto familiari - e a credermi scioccamente invincibile quando e se lo facevo. Come se fosse stato grazie al mio amore che avevo avuto salva la pelle. Dunque, mi dicevo, di che ti preoccupi? Se ti trattano male si vede che sono legati a te, che a te ci tengono, ti vogliono bene, come quelli del principio, tanto tempo fa. E se tu sai sopportare, e mostrare la tua tempra, la tua resistenza ed entusiastica adesione al ruolo di agnello sacrificale, alla fine l'amore trionferà, e vivrai per sempre felice e contenta.
Al primo incontro "non protetto" con un altro essere umano questa mia fede incrollabile si è infranta contro lo scoglio della realtà. Per fortuna.
Non è mai troppo tardi per imparare.
Imparare, ad esempio, che l'amore vero non è con-fusione, ma distinzione. Che solo nello spazio tra i miei contorni e quelli dell'altro c'è il luogo dell'incontro.
Imparare che imbattersi nell'anima gemella può essere una iattura. Anzi, se per "gemella" si intende uguale, o comunque straordinariamente affine, è una iattura sicura.
Adesso, quando certe sventurate amiche mi decantano i pregi di una scombinata relazione con qualcuno asserendo con entusiasmo "siamo così tanto simili", mi piglia l'inquietudine.
Perché tutti gli esseri umani sono simili nelle cose buone: nell'esistenza, la vitalità. Nel saper voler bene, nella volontà di fare del bene. Nell'istinto di proteggere le creature più indifese, di provare per loro affetto e tenerezza. Nell'impulso di voler aiutare il proprio simile in difficoltà. Nella capacità di impietosirsi per il prossimo sofferente. Nella fame di giustizia, nel desiderio di pace. Nell'amore per l'arte, la bellezza della natura. Nell'attitudine a meravigliarsi e commuoversi. Sono queste qualità, a livelli più o meno sviluppati, comuni a tutti gli uomini dotati di intelletto e raziocinio.
Perché se si è simili in altro che non sia compreso in queste analogie fondamentali, di norma si è simili nelle  caratteristiche peculiari della nostra persona, quelle che ci distinguono dagli altri. Ossia, nelle criticità. Nei difetti. Nelle idiosincrasie. Nelle piccole o grandi psicopatologie. In tutto ciò che ci determina nella nostra unicità ma che, al contempo, ci è di inciampo, ostacolando il libero fluire della nostra energia vitale e delle relazioni positive con gli altri individui.
Perciò, se ci leghiamo a qualcuno per cui proviamo un affetto tanto intenso da assimilarsi ad un'affezione, una corrente di simpatia irresistibile per il suo essere tanto simile a noi, non è quasi mai una cosa buona.
Ci condanniamo, nella migliore delle ipotesi, alla con-fusione, all'indifferenziato, al rispecchiamento narcisistico l'uno negli occhi dell'altro, senza possibilità di evoluzione. Dove mancano diversità non c'è stimolo al cambiamento, non c'è ricchezza.
Non ci verrà mai di dire all'altro la frase che ha postato Minerva ultimamente, pronunciata da Jack Nicholson a Helen Hunt in "Qualcosa è cambiato": "mi fai venire voglia di essere un uomo migliore."
In realtà è più comodo e rassicurante amare qualcosa di conosciuto, che ci assomiglia. Solo che non ci fa crescere. Non è la tensione amorosa che si sprigiona tra due poli opposti e crea un flusso di energia. E' una sterile ammirazione di noi stessi.
Possiamo anche non crescere mai, beninteso. Ma alla fine si muore lo stesso.
Senza essere mai vissuti.
E insomma, guardo il tramonto, mi emoziono, e penso ai tramonti che guardavo un anno fa. Con nostalgia. Di me stessa, di certi miei languori, delle mie prime scoperte sull'amore. Tutte così sbagliate, così illusorie. Perché sbagliato e illusorio era, per quanto ho premesso, il legame che credevo di aver stretto.
Ma io c'ero davvero, coi miei sentimenti, che erano sì sbagliati, ma non illusori.
La Cri di oggi è un'altra. E' un'adulta che ha che ha imparato cos'è la passione. Che mai più potrà provare un'emozione senza sentirci il retrogusto della sofferenza.
E prova struggente tenerezza per quella Cri di un anno fa. E più ancora per quella prima, quella che non tornerà mai più.
Ma che, al contempo, starà sempre dentro di lei. A formare una parte essenziale, inscindibile, di se stessa.






Alive

"Eppure è quando sei circondato dalla gelida indifferenza del mondo che le emozioni ti fanno sentire vivo, anche se profondamente solo. Quei momenti in cui ti si spezza il cuore pensando alle sciarpe mai messe o ai libri mai letti possono farti capire, meglio dell'indifferenza di una madre morta da anni, cosa significhi davvero essere vivi."

mercoledì 14 novembre 2012

More than a feeling

Serata mite e dolce di metà novembre a Roma. Dopo le cinque di pomeriggio, in autunno inoltrato, scende già il crepuscolo. Nell'ufficio quasi vuoto c'è calma e malinconico languore.
Scuote improvviso il silenzio stagnante un piccolo turbine nei panni di Claudio il quale, bello come un giovane semidio con le spalle sottolineate con artistica noncuranza dal maglione verde sottobosco e il frangione biondastro spettinato, si affaccia vivace alla porta della mia stanza: viene a prelevarmi per un'eversiva pausa caffè alla macchinetta del sesto piano.
(Pessimi soggetti peccaminosi come siamo, finiamo per sbafarci in situ anche due krapfen al cioccolato confezionati: adocchiatone dapprima con lubrica avidità uno che fa capolino, nel suo sgargiante involucro tentatore, in cima alla fila di suoi consimili sulla rastrelliera al di là del vetro del distributore automatico di merendine allocato accanto a quello delle bevande, indotti, dopo breve lotta interiore, a cedere senz'altro alla tentazione, proceduti nella mutua assoluzione con un malcerto "uno solo, e poi tanto facciamo a metà..."; ed indi, perso ogni freno e ritegno nel crescendo del delirio porcelloso dei sensi, la bocca e le dita impiastricciate di dolciastra melassa scura, gettati senza indugi sul secondo, con Claudio incitante me e se stesso all'empia reiterazione dell'atto esecrabile al grido lascivo di: "che meravigliosa schifezza finta! Bissiamo, bissiamo!")
A reati compiuti e briciole spazzolate via dagli abiti ci ritagliamo uno spazio tra le incombenze, il tedio e i travagli della giornata passati e quelli ancora da venire attardandoci un po' sul terrazzino che durante il giorno viene adibito a fumoir e che a quest'ora è deserto.
L'aria è calda e piacevole, e non tira, come si dice, un alito di vento.
Ci sporgiamo dal parapetto a guardare in giù il pittoresco panorama dei tetti e delle finestre illuminate che dà l'illusione di stare a Montmartre e intanto commentiamo le frustrazioni del lavoro, ci aggiorniamo velocemente sugli ultimi pettegolezzi, ci sfoghiamo per le meschinità vessatorie del nostro (sic) dirigente e della nostra (ir)responsabile del personale, ci scambiamo notizie confortanti e meno confortanti sullo stato di salute di colleghe, ci confidiamo piccoli segreti, ci raccontiamo le vicende della nostra settimana passata e gli eventi in programma per quella appena iniziata.
"Hai capito? Quella mi aspetta di continuo al varco. Ma io gliel'ho detto; questa è una persecuzione: stai attenta, ché se mi metto di punta ti faccio vedere di cosa sono capace. Ti mando la Guarda di Finanza in ufficio, proprio. Poi vojo vede come te metti."
"Clà, tu sei troppo sensibile, troppo consapevole, troppo dignitoso. E troppo te la pigli. Io manco la saluto, per me è invisibile, me ne impipo della sua esistenza. Che ti frega di una donnetta incapace e inutile così, che ti può dare al massimo il fastidio di una mosca?"
"Eh. Hai ragione. Dev'esse questo che je rode, che io nun me la filo de pezza, se la incontro nel corridoio manco me ne accorgo. Anche questo difatti le ho detto: "io a te nun te vedo proprio."
"Così dev'essere! E invece io, sai, venerdì scorso ho visto l'Otello al Quirino."
"Fico. E com'era?"
"Non male. Massimo Dapporto ha recitato dignitosamente, anche se, per quanto si sforzasse, l'ho trovato abbastanza improponibile come Moro di Venezia. Andava avanti e indietro mollemente per il palco nell'intento, immagino, di mostrare plastica inquietudine, ma anziché suggerire timore o rispetto, piccoletto com'è, e grinzoso, con la panzetta a botte sulle gambette secche, me faceva un po' ride..."
"Embè, no. Otello dev'essere vigoroso, anche fisicamente corpulento. Io ricordo quello fenomenale di Orson Welles, per me insuperabile."
"Vero! Ma pure Laurence Fishburne, nell'Otello con Branagh, aveva il giusto physique du role. Comparalo a Dapporto e poi me dici... Però in compenso Maurizio Donadoni come Iago è stato eccezionale. E anche la Desdemona era incisiva al punto giusto. Scrive Bloom che l'Otello è la tragedia più dolorosa di Shakespeare, e che la fine di Desdemona è insostenibile."
"Ha pienamente ragione."
"Shakespeare è un genio, il più grande conoscitore dell'animo umano. E' stato catartico, educativo, vedere rappresentato in quel modo così terribile, così impressionante, davanti agli occhi, che lo potevi toccare con mano, come la mente, partendo da qualche sua propria fragilità o incrinatura, e con un minimo diabolico intervento esterno, possa costruire un intero mondo immaginario alternativo alla realtà, del tutto mistificato, opposto al vero, e coerente, nella sua assurdità, che ti condiziona totalmente gli atti, la vita."
"Sì! E come possa influenzare i sentimenti di una persona, e i suoi convincimenti, al punto che tutto si tiene, e ogni ulteriore dettaglio, capovolto di senso, trova perfettamente il suo posto nel puzzle, a completare e rafforzare la certezza che si è disgraziatamente formata nella testa."
"Avessi visto la scena centrale dello scontro tra Otello furente, pazzo di dolore e gelosia, e Desdemona, agnello sacrificale, perfino stolida nella sua innocenza, del tutto impossibilitata a capire che cosa stava succedendo. Uno strazio. Mi ha fatto pensare tantissimo."
"... Ah, non si riesce a trovare una casa decente nei dintorni. Tutte senza terrazzo, al massimo con un balconcino. Non potrò mai abitare in una casa che non abbia il terrazzo, o un giardino. Non è tanto per la cana, ho capito che i cani si adattano a come vive il padrone. E' proprio che io senza uno spazio mio, indipendente, non ci so stare."
"Ah, quanto mi piacerebbe vivere qua vicino, in un villino della zona di Via San Quintino."
"Dillo a me... Devo ricuperare tre ore. Mi sa che vengo uno di questi giorni."
"Vieni domani mattina, così ci sono anch'io."
"Sì, forse è meglio. Ché poi giovedì devo stare tutto il giorno al museo a Genazzano. E poi devo partire per Milano..."
"Io invece giovedì sera ho una presentazione di un libro in centro, dove non vedo l'ora di andare per incontrare un po' dei miei amici blogger. E sabato dovrebbe venire a Roma un'amica del forum di Spinoza, così forse organizziamo una cena. E la settimana successiva ho una rimpatriata con un po' di compagne di scuola, e un'altra uscita con spinoziani. Poi c'è di nuovo una serata a teatro. Oh, beato te, stai sempre in giro..."
Claudio si gira a guardarmi con simpatia.
"Però, Cri: io giro, è vero, ma me pare che pure a te ora gli impegni nun te mancano" mi fa notare, sorridendomi con la fierezza di un padre che vede una figlia tramutatasi da brutto anatroccolo in cigno.
Ricambio il sorriso. E taccio, soppesando la sua osservazione dentro di me, riconoscendone l'emozionante fondatezza, gustandone l'intrinseco carezzevole affetto. "Apperò!" mi fa la mia bambina interiore, gongolando un po'.
Pure lui non aggiunge altro, si stiracchia soddisfatto e si appoggia di nuovo al parapetto. E restiamo un altro bel pezzo così, fianco a fianco, in silenzio, a goderci la beata, soffice dolcezza della sera.

domenica 11 novembre 2012

Io non sono di qui

Torno ora dal centro di Roma, prima da Piazza di Spagna e dalla Babington Tea Room e poi dal Teatro di Vicolo Due Macelli dove ho assistito ad una rappresentazione insolita, sommessa, delicata e profondamente commovente.
Un testo che dà voce alle donne: donne migranti, donne viaggiatrici, donne stanziali, tutte in perenne, incessante movimento, col corpo e con l'anima. Che infilano e sfilano cappotti, aprono e chiudono ombrelli, danzano, cantano, parlano e camminano, col freddo, col caldo, col sole, con la pioggia.
Tutte protese alla ricerca del momento essenziale in cui la loro anima ritroverà il loro corpo smarrito per il mondo, stazione dopo stazione, e si ricongiungerà a lui, permettendo loro di dire "sono a casa. Ora posso ripartire."
Lungo l'itinerario della vita. Portando con loro tutte se stesse, il loro cuore come valigia di ricordi: di suoni, colori, profumi, gioie e dolori. Intersecando le loro esistenze con altre, mischiando i racconti, gli affetti, i punti d'incontro e le differenze, i "non sono di qui" con i "sono di qui", i sorrisi, i volti, i segni della loro presenza, in un unico, tenue, vivacissimo acquerello.





Numa folha qualquer
eu desenho um Sol amarelo
E com 5 ou 6 rectas é fácil fazer um castelo
Com o lápis em torno da mão e me dou uma luva
E se faço chover com 2 riscos tenho um guarda-chuva
Se um pinguinho de tinta cai num pedacinho azul do papel
Num instante imagino uma linda gaivota a voar no céu

Vai voando contornando a imensa curva
Norte e Sul
Vou com ela viajando
Havai, Pequim ou Istambul

Pinto um barco à vela
branco navengando
é tanto o céu e mar num beijo azul

Entre as nuvens vem surgindo um lindo avião
rosa grená
tudo em volta colorindo
com as suas luzes a piscar

Basta imaginar
e ele está partindo sereno e lindo
Se a gente quiser
ele vai pousar

Numa folha qualquer
eu desenho um navio de partida
com alguns bons amigos
bebendo de bem com a vida

De uma América à outra
eu consigo passar num segundo
giro um simples compasso
e num círculo em faço o mundo

Um menino caminha
e caminhando chega no muro
E ali logo em frente
a esperar pela gente
o futuro está

E o futuro é uma astronave
que tentamos pilotar
Não tem tempo nem piedade
nem tem hora de chegar
Sem pedir licença
muda a nossa vida
e depois convida a rir ou chorar

Nessa estrada não nos cabe
conhecer ou ver
o que virá
o fim dela ninguém sabe
bem ao certo onde vai dar
Vamos todos numa linda passarela
de uma aquarela
que um dia em fim...descolorirá

Numa folha qualquer
eu desenho um Sol amarelo (que descolorirá)

E com 5 ou 6 rectas é fácil fazer um castelo (que descolorirá)

Giro um simples compasso
num círculo eu faço o mundo (que descolorirá)




venerdì 9 novembre 2012

Oggi sono io

Ieri è stata una di quelle tipiche giornate di novembre che ti sorprendono puntualmente, anno dopo anno, da quando sei al mondo, per la loro straordinaria e imprevista bellezza. Una di quelle giornate che paiono disegnate, dove, al posto dell'accecante bagliore estivo che tutto scolora e ingiallisce in una nebbia di calore evanescente, sei immersa in un'armoniosa punteggiatura di elementi che si stagliano nitidi e tangibili dentro la cornice del paesaggio che ti corona: il cielo pennellato di un azzurro materiale, i palazzi dalla prospettiva accentuata, iperrealista, l'arcobaleno di tinte forti degli alberi che virano dal verde cupo al rosso carminio. E tutto assume contorni più decisi, colori e suoni sono più marcati e distinti. E il suono dei tuoi passi sul selciato, di cui ti rendi conto in un modo nuovo ed insolito, ritma il tuo respiro, il tuo essere lì, viva, solida, esistente, al centro della scena.
L'anno scorso ho creduto che novembre fosse bello perché avevo incontrato una persona.
Oggi so che era il contrario: avevo incontrato una persona, e creduto di aver provato un'emozione per quell'incontro, perché novembre era bello. Era sempre stato bello, solo che io me ne accorgevo solo allora. E siccome ero inesperta, credevo di accorgermene per merito di quella persona. Invece ero io che ero cambiata dentro, mi ero aperta ed ero divenuta ricettiva alla bellezza. Mi ero svegliata da un lungo sonno, credevo col bacio di un principe. E invece non mi aveva baciata proprio nessuno. Mi ero destata da me.
Fino all'anno scorso ho atteso di cominciare a vivere come se dovesse piovermi dal cielo. Come se ad un certo punto nel mio cammino avessi dovuto trovarmi davanti una montagna incantata. Ora so di sentire, e di volere, tutto il contrario.
L'anno scorso ho creduto di cominciare a vivere perché mi era caduto dal cielo un angelo dalle ali ferite. Che poi si è rivelato un pipistrello, tuttalpiù, ma insomma. Ora invece so che non è così che si comincia a vivere. Che si comincia a vivere quando non si aspetta più che qualcosa ci piova dal cielo, ma ci si attiva per andarsela a cercare, quella cosa. Quando non si subisce passivamente ciò che accade a nostra insaputa, ma ci si adopera attivamente per farlo accadere.
Ora non voglio più incappare per caso in nulla. Voglio andare io a procacciarmi la mia gioia, il mio bene.
E tutto il cammino fatto, la sofferenza patita, ha dato i suoi frutti.
Quando ho fatto le foto sulla scalinata del Visconti nel mio cuore ferito c'era l'immagine di me e di Giulio seduti su quegli scalini.
Ora invece c'è l'immagine di me che faccio le foto, che mi cavo fuori un coraggio da leone e mi determino come persona autonoma, indipendente da lui, dal suo esserci o meno, e l'autostima che ne deriva ha soppiantato quel ricordo, e tutta la nostalgia sterile che lo corredava.
Ci ho messo un diaframma tra il primo e il secondo momento. Un diaframma pieno di me, pieno di autentica, succosa, preziosa vita.
L'anno scorso Roma era meravigliosa, i suoi tramonti mozzafiato, perché vivevo in un miraggio, un'allucinazione.
Oggi Roma è meravigliosa, i tramonti mozzafiato, perché vivo.
Perché ci sto dentro io.
Perché sono io, che do colore e bellezza a tutte le cose.
Ed era così anche l'anno scorso, è sempre stato così.
Ora, però, lo so.

Kung fu Panda

Ieri è passato
domani è mistero
oggi è un dono.
Per questo si chiama presente!

martedì 6 novembre 2012

It takes a fool to remain sane

"Tanti pensano, credono, sperano, o temono, che la terapia serva a cambiare le persone. Ma non è così. In realtà le persone, noi tutti, siamo già stati cambiati. Ci hanno cambiato coattivamente dall'esterno. La terapia, al contrario, serve a chi vuole ritrovarsi, scoprire, incontrare il suo autentico sé, quello che era prima di essere cambiato."


Whatever happened to the funky race?
A generation lost in pace,
Wasn't life supposed to be more than this?
In this kiss I'll change your bore for my bliss
let go'f my hand and it will slip out in sand
if you don't give me the chance
to break down the walls of attitude,
I ask nothing of you
not even your gratitude
And if you think I'm corny
then it will not make me sorry
it's your right to laugh at me
and in turn, that's my opportunity
to feel brave
'Cause it takes a fool to remain sane
oh it takes a fool to remain sane
oh it takes a fool to remain sane
oh in this world all covered up in shame
Every morning I would see her
getting off the bus the
picture never drops it's like a
multicoloured snapshot
stuck in my brain
it kept me sane for a couple of years
as it drenched my fears
of becoming like the others
who become unhappy mothers
and fathers of unhappy kids
And why's that?
'Cause they've forgotten how to play
or maybe they're afraid to feel ashamed
to seem strange
to seem insane
to gain weight
to seem gay
I tell you this:
That it takes a fool to remain sane
oh it takes a fool to remain sane
oh it takes a fool to remain sane
oh in this world all covered up in shame
So, take it to the stage in a multicoloured jacket
take it jackpot, crackpot,
strutting like a peacock
nailvarnish Arkansas
shimmyshammy featherboah crackpot haircut
dye your hair in glowing red and blue,
Do, Do, Do! What you wanna do
Don't think twice to what you have to do,
Do, Do, Do, Do, let your heart decide what you have to do
that's all there is to find
'Cause it takes a fool to remain sane,
Oh, It takes a fool to remain sane
Oh, In this world all covered up in shame
Oh it takes a fool to remain sane,
Oh it takes a fool to remain sane
Oh it takes a fool to remain sane
Oh in this world all covered up in shame.
Oh it takes a fool
Oh it takes a fool

sabato 3 novembre 2012

L'odore della notte

Dormo tanto, in questo autunno morbido, umido e ovattato. Faccio lunghi, beati sonni ristoratori. Anche se magari al risveglio un coltellino svizzero piantato nel ventricolo sinistro un pochino ancora mi dà noia. E sogno anche parecchio, come da molto non mi capitava.
Stanotte, per dire, ho sognato di stare in una storia del commissario Montalbano. In un film, proprio, di quelli della TV. Ma non col commissario Montalbano come l'abbiamo conosciuto dai libri di Camilleri. No, con quello giovane, quello prima di quello arcinoto: quello che non ho mai visto, di cui non ho manco mai letto un ciufolo, ma che so, per essermene documentata sulle riviste, essere interpretato da Michele Riondino (attore che a me piace molto, in molti sensi). Cioè, stavo in una pellicola a colori insieme a Michele Riondino, con tutti i suoi riccetti neri, che però non era Michele Riondino ma il giovane Montalbano. Insomma, stavo in una scena in cui parlavo al telefono con Michele/Salvo che mi chiedeva se avevo fatto nonsoché che mi aveva ordinato per un'investigazione ma io ero svagata, lenta a capire e a rispondergli, e alla fine lui si spazientiva pure un po', e mi diceva cose tipo "vabbé, lasciamo perdere, accantoniamo quest'indagine che tanto non si viene a capo di nulla e poi tu sei troppo disattenta".

Due notti prima di questa invece ho sognato di essere tornata liceale. Di stare in una classe di liceo che però non era il mio vero liceo, visto che quello era esclusivamente femminile e invece io mi trovavo in mezzo a compagni di ambedue i sessi. C'era una discussione di quelle che ogni tanto si pigliano in certe mattinate soprattutto al classico: sull'amore, sull'esistenza, sui massimi sistemi; ciascuno diceva la sua, me compresa, anche se non ricordo cosa, il professore passava tra i banchi, e giunto da me mi faceva un cenno d'approvazione come a dire che stavo dicendo cose giuste, che ero idonea e pertinente ad essere una studentessa, che stavo al posto giusto nel mondo, che tutto andava bene.

E dire che prima d'ora il mio unico, costante, reiterato sogno sulla scuola aveva sempre riguardato l'esame di maturità, con me che arrivavo piena d'ansia perché erano passati decenni dall'ultima volta che avevo aperto i libri e non ricordavo assolutamente niente...

giovedì 1 novembre 2012