mercoledì 30 maggio 2012

La pietà

Clelia gli aveva scritto da un paese della Riviera, dicendo che ci era andata in automobile con certe amiche conosciute in montagna e di cui sarebbe stata ospite, senza dargli né il nome di queste amiche, né il preciso indirizzo.
Questo evidentemente per tema ch'egli la raggiungesse o le scrivesse. Ella non voleva che le sue amiche sapessero della sua situazione irregolare. Aveva un vero terrore patologico per questo, e Adolfo conosceva e rispettava questo sentimento. Ma lei non s'era più fatta viva da diversi giorni e Adolfo era irritato per questa noncuranza, e anche sospettoso di chi sa quale situazione in barba a lui. Non riusciva ad impedire alla propria fantasia di vedere Clelia in riva al mare, in mezzo a una cerchia di corteggiatori. Immaginava che le amiche avessero dei fratelli giovani e galanti (forse dei guardamarina in vacanza estiva), certo dei conoscenti che andavano a trovarle e coi quali ballavano, facevano i bagni, organizzavano pranzetti in casa. Immaginava che nella villa ci fossero soltanto i giovani. Con la fantasia, li vedeva tornare dalla spiaggia, armeggiare allegramente in cucina per prepararsi il pranzo, prendere l'aperitivo nella sala di soggiorno. Soprattutto immaginava una vasta sala di soggiorno e chi seduto in terra, sui cuscini, chi nelle poltrone, conversando e facendo andare il grammofono nelle ore calde in una luce velata dalle tende.
Così gli era cresciuto un contenuto furore. Avrebbe voluto fare una sorpresa a Clelia. Piombarle in casa. Coglierla sul fatto. Ma se la situazione fosse stata innocente? Pensava anche che era una vigliaccheria esporla a una brutta figura, in ogni caso. Ma d'altronde, se lei voleva evitare questo, avrebbe dovuto avere un po' più di riguardo per lui, scrivergli, dirgli tutto, che diamine! Se voleva avere una certa libertà, bisognava pure che lo tranquillizzasse.
Nelle prime ore del pomeriggio, deciso a piombare sul paesetto e cogliere Clelia sul fatto, a costo di guastarle la villeggiatura esponendola a una brutta figura presso le amiche, girava di cattivo umore per Milano in automobile cercando, per distrarsi, un diversivo galante.
Tra le persone in attesa a una fermata di tram vide una bella ragazza sola. Rallentò, si fermò poco lontano e si volse a guardare. Cauto, perché in questi casi gli pareva che tutti indovinassero le sue intenzioni. Dal gruppo si mosse un uomo che gli faceva cenno d'aspettarlo. Adolfo pensò che fosse con la ragazza e volesse dirgliene quattro, ma poi riconobbe un conoscente, un certo Battiselli. Lo incontrava spesso in tram perché abitava dalle sue parti e in queste occasioni costui lo irritava un po' perché - evidentemente per farsi sentire dagli altri passeggeri - parlava ad alta voce dicendo per esempio:
"Sono stato la settimana scorsa negli Stati Uniti, a Pittsburg, a New York, a Chicago. Il mese prossimo andrò in Brasile... Debbo fare un giro in California per stabilire rapporti con quelle camere di commercio... Ho rivolto un messaggio per radio al governo..."
Gli altri passeggeri sogguardavano incuriositi questo personaggio che parlava di ministri e di continenti come fossero faccende di casa sua.
Il fatto è che dopo la guerra, Battiselli aveva creato una pubblicazione di propaganda economica-finanziaria, che gli consentiva questi viaggi e questi rapporti. Ma, a parte l'ingenua mania di pavoneggiarsi in tram, aggravata da un alito un po' forte, Battiselli era un brav'uomo. Attaccatissimo alla famiglia. Spesso in tram era con sua moglie, una brunetta giovanissima e graziosa, e si capiva che i due si volevano molto bene. Avevano anche due belle bambine, una nata da pochi mesi, e una sera avevano invitato a casa Clelia e Adolfo, che ammirò la famigliola felice. Tra la moglie, le bambine, i viaggi oltreoceano e i messaggi alla radio, Battiselli aveva proprio l'aria di un uomo beato.
Qualche volta, anche, Adolfo lo incontrava in tram dopo cena, che andava al cinema con la moglie giovane e graziosa; parevano due sposi innamorati e ad Adolfo si stringeva il cuore quando gli domandavano di Clelia, che allora se ne stava all'estero per studiare.
Poi, comperata l'automobile, Adolfo li aveva persi di vista. Soltanto una mattina dell'autunno precedente, lui e Clelia trovandosi a Salsomaggiore, avevano incontrato fuori dello stabilimento termale, la signora Battiselli con la maggiore delle sue figlie. Con voce quasi afona, la signora spiegò che stava curando con inalazioni un postumo di raffreddore. Cosa da nulla, disse; ma parve ad Adolfo che negli occhi di lei passasse, rapida come un lampo, l'ombra d'un segreto terrore, quasi fosse lei a domandare agli altri più precise notizie della propria salute, a scrutare negli occhi degli altri una paurosa immagine di sé.
La incontrarono dopo qualche mese a Milano e a gesti più che a parole ella disse, sempre afona, che quel fastidioso abbassamento di voce continuava.
Seccato perché Battiselli veniva involontariamente a rompergli le uova nel paniere, Adolfo finse ormai d'essersi fermato per lui, come l'altro forse aveva creduto, e lo invitò a salire in automobile, rassegnato a sentirsi fare i soliti discorsi sui viaggi oltre oceano e sui messaggi per radio. Ma alla domanda "E la signora?" Battiselli congestionato balbettò che sua moglie stava morendo. L'abbassamento di voce s'era rivelato conseguenza d'un male tremendo e inguaribile e la giovine donna aveva i giorni contati. Irriconoscibile da quello d'un tempo, Battiselli aveva perso tutta la baldanza. Non parlava che di questo, come s'aggrappasse disperatamente a qualcuno per raccontare, per confidarsi. Ella era all'oscuro del proprio stato, credeva di poter guarire. Né poteva parlare di questo con le bambine, le quali pure ignoravano la gravità del male materno e s'aspettavano da un giorno all'altro di vederla tornare a casa dalla clinica dove non erano condotte. Tanto che il marito ormai sperava soltanto che la morte al più presto troncasse questa sofferenza. Piangendo Battiselli aggiunse particolari pietosissimi. Tra l'altro alla moglie da qualche tempo si spezzavano le ossa come fossero di gesso appena s'alzava dal letto. Nella clinica ne piangevano perfino le suore e i medici, che pure sono abituati a vedere sofferenze.
Adolfo, che poco prima aveva pensato di fare un telegramma violento a Clelia e raggiungerla per dirgliene quattro, dopo che ebbe sentito Battiselli considerò con spavento quello che stava per fare. "Se anche Clelia..?" pensava. E gli veniva spontaneo di ringraziare il Signore del fatto che Clelia a lui procurasse soltanto quel trascurabile malumore e non gli desse un dolore come quello che, senza volerlo, la povera signora Battiselli dava al marito; e ringraziare il Signore che ella stava bene. Gli parve ben povera cosa il proprio dramma, appetto a quello di Battiselli, confrontava le proprie con le costui ragioni d'esser d'umor nero, concludendo ch'egli avrebbe dovuto esser felice. Siamo sempre pronti a renderci infelici, se di questo c'è una causa, ma non ci rendiamo conto di quando dovremmo esser felici.
Ora vedeva con la fantasia Clelia non più al centro d'una cerchia di corteggiatori in una sala di soggiorno al mare, ma al centro d'un panorama di umanità che s'arrabattava, ciascuno per fare la propria vita, a cominciare da lei; e pensava: "Lasciamo vivere!" e: "Poi si muore".
Se non si morisse, l'uomo sarebbe molto più feroce e cattivo di come è. Il "poi si muore" è l'unico freno, anche se non quanto dovrebbe esserlo. Certo, se questo pensiero l'avessimo sempre davanti, evidente, fattivo, saremmo molto più buoni, molto più disinteressati e indulgenti.
Per concludere con Battiselli, dopo circa un anno Adolfo lo incontrò al Circolo. Battiselli gli disse che la moglie era morta. Per le bambine aveva preso un'istitutrice. Stava in compagnia di una signora e ballava.

martedì 29 maggio 2012

Volta la carta

La pagina ha il suo bene solo quando la volti e c'è la vita dietro che spinge e scompiglia tutti i fogli del libro. La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre le strade. Il capitolo che attacchi e non sai ancora quale storia racconterà è come l’angolo che svolterai uscendo dal convento e non sai se ti metterà a faccia con un drago, uno stuolo barbaresco, un’isola incantata, un nuovo amore.

La leggenda del collezionista

Il cielo ci guardi dai collezionisti.


Per un uomo al lavoro
con il caldo implacabile di luglio
ti do il rosso sbadiglio
di un papavero senza utilità
per due conti sbagliati
ecco un conto che torna
per il nero che annulla
ecco il blu che scontorna
Per un uomo di cuore
ti darò un cuore senza uomo
se ne senti il bisogno
lo darai a chi ancora non ce l'ha
per due anime perse
solamente un'anima buona
per un uomo spietato
niente che lo perdona

tutto quello che vedi
tutto quello che c'è
non ti serve un nemico
se un amico sono per te
già possiedo ogni cosa
ma ne voglio avere di più
già possiedo ogni cosa
però voglio quello che hai tu
tutto quello che hai tu

Per il volo malato
di avvoltoi che girano intorno
posso darti il ritorno
da ogni viaggio che non ce l'ha
per due uomini sani
ti darò un uomo ferito
anche se nel frattempo
sarà morto oppure guarito

tutto quello che vedi
tutto quello che c'è
non ti serve un nemico
se un amico sono per te
già possiedo ogni cosa
ma ne voglio avere di più
già possiedo ogni cosa
però voglio quello che hai tu
solo quello che hai tu


lunedì 28 maggio 2012

Non è mai troppo tardi

Sarà questo tempo di merda che scompensa il metabolismo, sarà uno squilibrio ormonale, sarà la somatizzazione di una metafora psichica, ma in questo periodo ho una fame da lupo e un sacco di voglie di cibi specifici di cui mi sento proprio il sapore in bocca, manco fossi in dolce attesa. Mi strafogo di schifezze, pizza e pasta variamente mantecata (con panna e salmone, panna e piselli, gratinata con mozzarella e melanzane o mozzarella e carciofi o ripassata in forno con la besciamella) a cui non riesco a resistere più manco a pranzo, mandorle glassate e pop corn quando vado (spesso, di questi tempi) al cinema, dolci, arachidi, patatine. Ho visioni di scamorze affumicate col prosciutto, tramezzini all'uovo e insalata di pollo, calzoni ripieni, fiori di zucca pastellati fritti.
In quest'istante, per dire, mi sento tra i denti la durezza croccante del Cremino, con la lingua lecco golosa le scaglie spezzate di cioccolato e poi pesco nella soffice crema di vaniglia dell'interno. Darei non so cosa per uscire a mangiarmene uno di corsa (senza aumentare l'ampiezza del mio giro vita).

Ah, il Cremino, piccolo conforto a buon mercato della mia infanzia! Quanti Cremini avrò mangiato da bambina? Tanti, presumibilmente, da poter costruire coi legnetti un prefabbricato.
Me che sgranocchio un Cremino assorta nella lettura, ecco l'immagine tipica delle mie estati solitarie. Tra giugno e settembre, alla fine della prima elementare e prima dell'inizio della seconda, divorai più pagine che gelati, riuscendo a far fuori l'intera collana dei Quindici che mio padre mi aveva regalato. Senza amichetti, senza gite, senza vacanze, passai lo stesso un'estate a suo modo indimenticabile, viaggiando con la mente. All'epoca ero capace di stare per molte ore di seguito concentrata sulla lettura, alleata della mia fantasia per avverare la magia capace di farmi uscire dal corpo e portarmi in mondi agli antipodi da casa mia. Quando leggevo, seduta in quella scomoda spartana poltroncina di design svedese degli anni sessanta (il signor Ikea non s'è inventato niente), avrebbe potuto andarmi tutto intorno a fuoco e io non me ne sarei accorta. La mia passione per la parola scritta era tale che a tavola mi incantavo anche sulle informazioni delle analisi chimiche e microbiologiche riportate sull'etichetta dell'acqua minerale. E tutto quello che leggevo mi si fissava istantaneamente in testa. Se passo per donna dotata di una certa qual dose di cultura, in larga parte è perché campo della rendita di allora.
Adesso, da molti anni, non è più così. Anche a causa della stregata interattività del web, mi accorgo di esser diventata insofferente, svagata, incapace di concentrazione. Questo mi irrita e mi spiace anche, tanto, perché davvero pochi piaceri al mondo possono compararsi alla gioia di questa esperienza, al senso di gratificazione che se ne può ricavare. Da un buon libro si riemerge sazi, soddisfatti, o inquieti, pieni di dubbi. Un libro accarezza, un altro punge. Uno fa da pompiere, uno da incendiario dell'anima. Uno ti guarda dentro, uno ti porta fuori. Le analisi di uno rassicurano, offrono la potente arma della logica ordinatrice contro il caos irrazionale, danno pace. Folgoranti sintesi di un altro riacutizzano tormenti e struggimenti. E ogni libro parla di altri libri, in un muto ininterrotto dialogo tra loro, una rete stesa su tempi e spazi che non ha buchi o smagliature.

Voglio riprendere a sentir parlare i libri. Voglio tendere l'orecchio ai loro sussurri. Voglio riprovare l'ebbrezza di aprirli e veder saltar fuori dalle pagine parole viventi, dinamiche latrici di senso, fautrici di segni che si imprimono nella mente e nel cuore del lettore.

E questo non è che uno dei tre-quattro obiettivi che ho concepito con chiarezza in questi ultimi giorni. E che ho deciso di prefiggermi come progetti per l'esistenza.

Un paio sono i più difficili. Ma non irrealizzabili. E li sento comunque irrinunciabili.

Forza, Cri, rimbocchiamoci le maniche. E lavoriamo nella giusta direzione.

domenica 27 maggio 2012

Se una notte d'inverno un viaggiatore

Se una notte d’inverno un viaggiatore
fuori dell’abitato di Malbork
sporgendosi dalla costa scoscesa
senza temere il vento e la vertigine
guarda in basso dove l’ombra s’addensa
in una rete di linee che s’allacciano
in una rete di linee che s’intersecano
sul tappeto di foglie illuminato dalla luna
intorno a una fossa vuota
Quale storia attende laggiù la fine?
chiede, ansioso d’ascoltare il racconto.

- Lei crede che ogni storia debba avere un principio e una fine? Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire: passate tutte le prove, l'eroe e l'eroina si sposavano oppure morivano. Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l'inevitabilità della morte.

sabato 26 maggio 2012

Everybody's got to learn sometime

In occasione di un previsto festino selvaggio da tenersi a casa stasera, e previo (ahimé) lauto compenso, il figlio maggiorenne e la figlia giacobina hanno dato un riassetto quantomai sommario e precario a libri, CD e DVD di casa.
Si è così potuto accertare che ora effettivamente la videoteca sfiora i quattromila titoli, ma che - orrore e disperazione - in tanta copiosità si celano impreviste, esiziali assenze. Film basilari, indispensabili, comprati e ricomprati, ogni volta prestati e mai riavuti. E cavoli, ora viene fuori che manca questo. Questo!


Se non salta fuori faccio un macello.

(Ma quanto sarà meraviglioso qui Jim? Ma quanto Kate, più intensa e generosa che mai? Quanto grande e naturale sarà la chimica tra loro, quanto contribuirà a rendere autenticamente impregnata di dolore e di dolceamara fiducia nella caparbietà del sentimento, trasudante verità psichica, una storia in apparenza così surreale?)

"Clementine Cruczynski had has Joel Barish erased from her memory."

Anche la canzone - un classico degli anni ottanta dei Korgis, coverizzata (che termine orribile) da Beck - ha molto da dire, in quelle quattro parole che ripete ad libitum. E corona perfettamente le immagini.



Change your heart
Look around you
Change your heart
it will astound you
I need your lovin'
Like the sunshine
everybody's got to learn sometime...

venerdì 25 maggio 2012

Non facciamone un dramma

(pezzo di Syrys by Lunedì partiamo, Blog collettivo di racconti surreali, assurdi e mentecatti)


Al caro Amleto Principe di Danimarca.
Questo è un biglietto di addio. Ho bisogno di prendermi i miei spazi e di capire realmente cosa voglio dalla vita, dato che cosa non voglio ho avuto modo di appurarlo in questi ultimi tempi.
Me ne vado, di certo non in convento, per sottrarmi al desiderio di potere di mio padre e mio fratello che vorrebbero a tutti i costi ci mettessimo insieme ma soprattutto per liberarmi della tua nefasta influenza; il tuo amore è come le sabbie mobili e sono sicura che andando avanti finirei per rimanerci talmente invischiata da soffocare.
Sei noioso, sai? Non ti va mai bene nulla, parli da solo, non mi porti mai a fare una passeggiata, né sotto il sole né al chiaro di luna. Quando vai in giro, rigorosamente di notte come i vampiri, non trovi di meglio da fare che andare a disseppellire il teschio del povero Yorick che, ora posso dirtelo, non ti ha mai potuto soffrire perché eri l’unico di tutta la famiglia che non rideva mai alle sue battute, rendendogli impossibile e odioso anche il sul lavoro. Perfino i tuoi migliori amici Rosencrantz e Guildenstern sono morti di sbadigli l’ultima volta che vi siete visti. Mi han detto che hai cominciato, come al solito, con le tue inutili discussioni astratte e che ad un certo punto hanno addirittura pensato fossi completamente impazzito. Per non parlare di quello che vociferano le guardie, che ti sentono la notte passeggiare sul camminamento delle mura intento in conciliaboli lugubri col fantasma di tuo padre!
In più non posso proprio continuare a sopportare l’attaccamento morboso che hai per tua mamma che, poveraccia, una volta vedova ha commesso l’unico crimine di volersi rifare una vita invece di impersonare la vedova inconsolabile fino a morir d’inedia e depressione.
Non so se ti sei reso conto che non ti va bene nessuno in tutto il castello e che di tutto e tutti sei pronto a dir peste e corna.
Sai? Sono riuscita a sbirciare il finale della nostra storia e devo dire che non mi è piaciuto per niente, quindi ti do un consiglio: cambia registro, fatti una bella passeggiata al sole, vai in vacanza al mare ma smettila con queste stupidaggini tetre e pericolose! Per parte mia non ho nessuna intenzione di affogarmi né per te né per nessun altro, voglio una famiglia dei figli e vivere il più contenta possibile col qualcuno che ami me e non un personaggio irreale.
Forse te lo sarai immaginato leggendo queste righe ma voglio esser sincera fino in fondo con te: ho conosciuto un ragazzo, un italiano, si chiama Mercuzio e abita nel testo accanto al nostro. Anche lui ha letto come finisce la sua storia e non ne è entusiasta quindi mi ha proposto di fuggire insieme a Firenze, lontano dai suoi e dai miei. E’ dolce e spiritoso e con lui mi diverto un mondo, andiamo a spasso per giardini e ci facciamo un sacco di risate. Non so se è davvero l’uomo della mia vita ma per adesso sto meglio con lui che con te e almeno tra noi due non ci sono finali già scritti. Adesso devo proprio scappare prima che mio padre e mio fratello si sveglino, il mio cavaliere mi aspetta a pagina 100.
Un’ultima cosa, voglio che tu sappia che ti ho voluto bene anche se sei insopportabile, per questo ho perso tempo a scriverti.
Ti auguro di cambiare anche il tuo finale e di trovare finalmente un po’ di pace.
Un abbraccio. Ofelia.

Syrys

La pianta del tè




Come cambia le cose
la luce della luna
come cambia i colori qui
la luce della luna
come ci rende solitari e ci tocca
come ci impastano la bocca
queste piste di polvere
per vent'anni o per cento
e come cambia poco una sola voce
nel coro del vento
ci si inginocchia su questo
sagrato immenso
dell'altipiano barocco d'oriente
per orizzonte stelle basse
per orizzonte stelle basse
oppure niente.

E non è rosa che cerchiamo non è rosa
e non è rosa o denaro, non è rosa
e non è amore o fortuna
non è amore
che la fortuna è appesa al cielo
e non è amore

Chi si guarda nel cuore
sa bene quello che vuole
e prende quello che c'è

Ha ben piccole foglie
ha ben piccole foglie
ha ben piccole foglie
la pianta del tè


lunedì 21 maggio 2012

The shop around the corner

una cosa che dovremmo imparare, sia io che tu
è avere meno inerzia
e lo intendo nel senso fisico
di massa inerziale
di quantità di materia che si oppone al cambiamento dello stato di moto
non bisogna opporsi troppo
quando lo stato di moto cambia
non voglio nemmeno dire che ci si deve far trasportare

Cri: non oppormi al libero fluire dell'esistenza

ma rimuginare no

Cri: e accettare le cose che vengono e che vanno
Cri: questo, vero?


Cri: hai ragione :)

(Dialogo dell'altra notte tra me ed un illustre filosofo cabalista spagnolo del XIII secolo)



Sono una donna estremamente ansiosa. Chi di voi mi conosce di persona lo sa, e credo sia intuibile dai toni dei miei post.

Cos'è l'ansia? E' un errore funzionale del sistema nervoso. Un picco di adrenalina improvviso che ti squassa. Una risposta fisiologica esagerata ad una presunta inadeguatezza E' l'ingombrante residuo dell'arcaica percezione del pericolo supremo per un essere umano: essere isolati perché rifiutati dai propri simili. Legata alla necessità istintiva ed ancestrale di far parte di un gruppo per poter sopravvivere nell'epoca preistorica, quando stare soli o essere in compagnia segnava effettivamente la differenza tra morte certa e facoltà di mantenimento in vita.
Oggi invece non è altro che, appunto, un residuo evolutivo di cui doversi liberare. Lungi dall'essere meccanismo indispensabile all'esistenza, è per lo più fardello di sofferenza ostativo al benessere. Perché quella previsione subliminale di catastrofe che all'improvviso ti dilaga dentro ti atterrisce, ti agghiaccia le membra, ti affanna il respiro, ti devasta il cuore, ti offusca la vista, ti sfinisce e sfilaccia il sistema nervoso. Insomma ti fa campare malissimo.

Non viviamo più ai tempi delle caverne. Non è necessario questo surplus di reazione, quest'attivazione a vuoto davanti a un pericolo non più reale. Perché allora il mio sistema, come quello di molti altri, è diventato difettoso al punto di attivare questa assurda, irrazionale premonizione di disastro?

Lucio Della Seta, psicologo junghiano, racconta la risposta di una sua paziente:
"Da grande ho avuto modo di scoprire che, se ti capita in sorte una madre che non sa amarti in modo adeguato, la prima cosa che senti, ancora prima di imparare a pensare, è di non valere niente. Questo è quello che è successo a me. Crescendo poi, anche dopo che ti sei reso conto che era tua madre a non essere adeguata, o così malata da diventare incapace di amare, anche se la mente può elaborare e capire, in certo senso è troppo tardi: ogni singola cellula del tuo corpo si è formata intorno a quella prima sensazione: non valgo abbastanza, non valgo niente. Anche quando tutto dimostra il contrario, hai degli amici che ti apprezzano, una persona con cui vivi e che ti ama, dei figli che crescono felici, quella convinzione resta lì, al fondo di tutte le cose." Il dispositivo ormai si attiva per riflesso condizionato. E sei abbastanza fottuta.

Effetto collaterale di questa sventura è anche il disturbo narcisistico. Quando sei stata variamente umiliata durante l'infanzia da un padre, una madre, che usavano il potere come mezzo di controllo, è facile che tu ne sia affetta. Oltretutto è avvenuto che alle umiliazioni si alternassero puntualmente comportamenti seduttivi, coi quali ti veniva fatta balenare la promessa di un trattamento speciale, una peculiare intimità, se ti fossi adeguata ai loro desideri; desideri spesso iniqui, latori di pretese illegittime nei confronti di una bambina. Ti è dunque stata inoculata la convinzione che eri una merda, sì, ma una merda speciale, una merda principesca. Un momento venivi innalzata, il momento successivo demolita, a seconda delle necessità degli adulti, in un'altalena di frastornante, sfibrante ambivalenza. Di cui l'ansia, ora da prestazione, ora di abbandono, si nutriva per crescere in misura esponenziale.

Ansia, lotta per il potere, delirio di onnipotenza e correlati sensi di colpa, invalidante mancanza di autostima e disperato tentativo di controllo, è questo il purulento intreccio che stringe in catene la tua psiche dolente. Sei cattiva, ossia, sei prigioniera. Ti liberi solo quando sei emozionata. Perché le emozioni non fanno parte delle reazioni pavloviane che ti hanno indotto a forza, sono roba tua, che ti fluisce spontaneamente, autonomamente, autenticamente, dall'anima. In quegli istanti ti apri, respiri, vivi.

Ma l'ansia è sempre lì, in agguato, inversamente proporzionale ai tuoi effimeri stati di benessere. Come si ritira la fiamma, come ti raffreddi un poco, l'angoscia, l'oppressivo senso di vuoto, di mancanza di significato, torna a morderti. Impedendoti di dare i giusti contorni, le giuste dimensioni, agli avvenimenti che occorrono via via nella tua vita. Di vederli dalla giusta angolazione, di dar loro il giusto peso.

Finisce così che ti tormenti in modo esagerato per tutto. Ti attacchi alle abitudini, alle situazioni, alle persone. La tua affettività si alimenta di una inusitata tenerezza e della gratitudine che ti viene di elargire a piene mani a chiunque sappia stimolarti, interessarti, mentalmente, e quindi emotivamente, traboccandoti dal cuore come una cascata, in un dispendio di energia psichica di cui non avverti la fatica fino a che dura la circostanza scatenante, salvo poi ritrovarti a pezzi quando l'incantesimo è finito.

Perché, ovviamente, non è mica vero che tu hai i superpoteri che ti illudi di avere. La tua resistenza è sicuramente di livello superiore, forgiata com'è dalle esperienze estreme che hai dovuto sostenere, e così pure l'intensità nel provare emozioni e sentimenti, e anche la tua sconfinata, ottusa generosità e volontà di comprensione, la tua strenua empatia verso l'altro che non di rado tracima nell'accondiscendenza. Però arriva sempre lo stesso il momento in cui ti rendi conto che, con tutta la tua migliore buona volontà, questo non basta perché il mondo reale coincida con la piccola, rassicurante, idilliaca immagine racchiusa nel carillon che conservi con cura nella tua testolina svagata. Che i rapporti con le persone sono soggetti a mille variabili indipendenti dal tuo controllo. Che non devi colpevolizzarti se i tuoi figli soffrono frustrazioni e dolori, se il comprendonio di tua madre non ha margini di miglioramento, se una relazione è naufragata. Che non ti spetta doverti violentare per uniformarti ai voleri delle persone fino ad arrivare a provare rabbia e rancore per uno sforzo inutile, da cui hai tratto più umiliazioni che gratificazioni. Che se tu hai fatto quanto era in tuo umano potere per mantenere saldo un legame che ti era caro, beh, non hai da rimpiangere nulla. Che non sei costretta a cercare sempre di entrare nella testa della gente, di comportarti come immagini ci si aspetti da te, o, peggio ancora, come piacerebbe all'altro. Che gli amici, se sono davvero amici, capiranno i tuoi momenti di crisi, e sapranno starti vicino. Se ci tengono a te. Così come gioiranno dei tuoi successi e della tua felicità. Che non puoi fare tutto tu, per mascherare le defaillance altrui e non soffrirne. Perché tu ti rapporti con individui adulti, non con bambini o con invalidi a cui fare da crocerossina. Perché se così non è, se il riscontro non è adeguato, beh, non puoi, e non devi, farci niente. Vuol solo dire che, dopotutto, non ne valeva la pena.



(Edit dell'ultima ora: buon compleanno, filosofo!)


domenica 20 maggio 2012

Uomo del mio tempo


Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

venerdì 18 maggio 2012

Le lettere d'amore


Fernando Pessoa chiese gli occhiali
e si addormentò
e quelli che scrivevano per lui
lo lasciarono solo
finalmente solo...
così la pioggia obliqua di Lisbona
lo abbandonò
e finalmente la finì
di fingere fogli
di fare male ai fogli...

e la finì di mascherarsi
dietro tanti nomi,
dimenticando Ophelia
per cercare un senso che non c'è
e alla fine chiederle "scusa
se ho lasciato le tue mani,
ma io dovevo solo scrivere, scrivere
e scrivere di me..."
e le lettere d'amore,
le lettere d'amore
fanno solo ridere:
le lettere d'amore
non sarebbero d'amore
se non facessero ridere;
anch'io scrivevo un tempo
lettere d'amore,
anch'io facevo ridere:
le lettere d'amore
quando c'è l'amore,
per forza fanno ridere.

E costruì un delirante universo
senza amore,
dove tutte le cose
hanno stanchezza di esistere
e spalancato dolore.

Ma gli sfuggì che il senso delle stelle
non è quello di un uomo,
e si rivide nella pena
di quel brillare inutile,
di quel brillare lontano...

e capì tardi che dentro
quel negozio di tabaccheria
c'era più vita di quanta ce ne fosse
in tutta la sua poesia;
e che invece di continuare a tormentarsi
con un mondo assurdo
basterebbe toccare il corpo di una donna,
rispondere a uno sguardo...

e scrivere d'amore,
e scrivere d'amore,
anche se si fa ridere;
anche quando la guardi,
anche mentre la perdi
quello che conta è scrivere;
e non aver paura,
non aver mai paura
di essere ridicoli:
solo chi non ha scritto mai
lettere d'amore
fa veramente ridere.

Le lettere d'amore,
le lettere d'amore,
di un amore invisibile;
le lettere d'amore
che avevo cominciato
magari senza accorgermi;
le lettere d'amore
che avevo immaginato,
ma mi facevan ridere
magari fossi in tempo
per potertele scrivere...

mercoledì 16 maggio 2012

Web killed the video star (again)

L'altro giorno, linkando il finale de Il tesoro del castello senza nome, mi è tornato in mente tutto il mondo di immagini e storie della mia infanzia, televisiva e non solo (e così ieri mi sono concessa di struggermi un po' sui DVD de Il segno del comando, e sgomentarmi al pensiero che sono passati quarantuno anni da quelle scene suggestive, dagli sguardi enigmatici dei bellissimi occhi della Gravina, da quelli smarriti degli altrettanto bellissimi occhi di Ugo Pagliai). Parallelamente a questo tuffo nel passato ne ho fatto, ieri sera, uno in un passato molto più recente, conversando un po' con un giovane uomo che non sentivo da qualche mese - uno degli appartenenti a quella generazione anni '80, maschi e femmine, coi quali ho una persino eccessiva facilità di comunicazione, per cui provo una simpatia e un senso di affinità spesso talmente smisurati e aprioristici da doverli costantemente monitorare e temperare, pena scompensi e squilibri emotivi che mi è poi particolarmente travagliato riassorbire.
Così mi sono ricordata di questo post, scritto a luglio dell'anno scorso, piena di entusiasmo e di appassionata empatia per loro.
Mi rendo conto di esser, oggi, una spanna meno indulgente di allora verso di loro. Un po' meno disposta ad aperture di credito in bianco nei loro confronti. Certe cose non so se le riscriverei. Ma nell'insieme ci credo ancora, e sono convinta che davvero a questi ragazzi la nostra epoca avara e folle ha rubato il futuro e fortemente condizionato l'esistenza. E che ne pagheremo tutti le conseguenze.
Il mio amico di stanotte mi ha dato una minuscola buona notizia. Si è mosso un ingranaggio che inciderà in modo infinitesimale sul suo avvenire, almeno quello a breve termine. Gli auguro che sia solo il primo che si rimette in moto, e che a quello seguano tutti gli altri. Lo auguro a tutti i suoi coetanei, e a tutti i nostri figli.

Sono una diciassettenne degli anni sessanta del secolo scorso, venuta al mondo nell'anno di punta del decennio del baby boom, assieme alla minigonna, al linguaggio Basic, ai bombardamenti a tappeto in Vietnam, al golpe Borghese e alla prima radio pirata inglese.
Un mondo antico, lontano anni luce.
Un mondo di drammaticità consolatoria, scisso nettamente tra opposte fazioni, polarizzato dalla Guerra Fredda e dalle fedi nelle ideologie.
Pervaso dall'euforico ottimismo per l'altro boom, quello economico.
Culturalmente arretrato, voglioso di modernità e progresso, e proiettato alla conquista di nuove frontiere, nello spazio come nei diritti civili, con il medesimo ambizioso, fiducioso, ostinato entusiasmo.
Influenzato dalla dottrina della Chiesa - soprattutto tra gli ampi strati di popolazione contadina divenuta operaia migrando in città, il cui attaccamento alle tradizioni formava con quello alla religione un tutto unico percepito imprescindibile alla conservazione della propria identità -, ma la Chiesa del Concilio Vaticano II, di Giovanni XXIII e di Paolo VI. La Chiesa con la faccia buona di padre Mariano e l'audace austerità evangelica di Don Milani.


Segnato dall'imprimatur della televisione di stato.
Una TV di spartano eppure scintillante bianco e nero, a due soli canali e senza telecomando, esclusivamente pomeridiana e serale, fatta di pause e tempi lenti,
sigle lunghe dei telegiornali,
tediose tribune politiche,
varietà del sabato sera lustri di paillettes e professionalità di magnifici presentatori e ballerine in calze scure,
telefilm polizieschi,
grandi sceneggiati,
spettacoli teatrali,
cartoni animati di Pippo Paperino e Topolino e Looney Tunes e Merrie Melodies e Popeye,
e della mitologica TV dei ragazzi, di racconti a episodi - tra tutti, per me, Pippi Calzelunghe, Vacanze all'isola dei gabbiani, Il tesoro del castello senza nome - a cui affezionarsi al punto di separarsene con struggimento (guardando, in quell'epoca primordiale senza registratori né DVD, l'ultima puntata col lutto nel cuore per un distacco di cui non si sapeva la durata, aggrappati alla sola speranza, incerta e nebulosa, di una messa in onda delle repliche)
ma anche dei documentari di Immagini dal mondo,
di Carosello,
e persino del monoscopio, dell'Intervallo con le pecore, dell'Ora esatta, del colonnello Bernacca con le sue Previsioni del tempo,
e della cornice che era la sigla d'apertura e chiusura dei programmi, con le magnifiche note del Guglielmo Tell in sottofondo, e quelle fantasmagoriche immagini di onde che solcavano le nuvole.


Quel mio mondo antico è finito. S'è frantumato sotto le spinte di simultanei mutamenti epocali - crollo delle ideologie, riassetto del nuovo ordine mondiale, aggressiva e inarrestabile espansione dei colossi asiatici, migrazioni di milioni di persone dai paesi più poveri della terra verso quelli più ricchi, globalizzazione - i cui processi il consesso civile si è andato scoprendo impotente a controllare.


Analogamente ai cambiamenti storici, ecco i cambiamenti televisivi: già nel successivo decennio di piombo, di pari passo con lo sgretolamento nei primi bagni di sangue delle stragi di Stato e del terrorismo nero e rosso dei residui dell'innocenza post bellica, prendeva piede il pionierismo anarcoide ed un po' sciatto delle tv locali.


Poi, negli anni ottanta, il ciclone. All'epoca del CAF, il nostro edonismo reaganiano in sedicesimo, è sbarcata sugli schermi, in tutta la sua potenza di fuoco, la televisione commerciale. La quale è riuscita ad operare un regresso antropologico dei suoi fruitori per mezzo di un coacervo di vizi ed abusi tutti riconducibili alla mera sostituzione del termine in un complemento di specificazione:
da TV di servizio (per tutti) a TV di profitto (per uno).


Ancorata al mio mondo perduto, io a questo ciclone ho resistito. Non così molti altri. Forse per paura, smarrimento, per lo smantellamento delle certezze nei valori del passato, gli anticorpi mentali di parecchi miei coetanei, ma soprattutto di quelli nati nel decennio successivo al mio, esposti per meno tempo ai benefici influssi della "buona" TV, non sono stati in grado di scongiurare il dilagare dell'epidemia di degenerazione dei neuroni.
Così, allettati da una visione affrancata dall'analisi, dalla riflessione, dall'elaborazione dei contenuti offerta da programmi sempre più scadenti e raffazzonati, atti a suscitare pianti e risate senza logica né pudore né rispetto, e fomentare i più bassi istinti di rabbia o arrapamento al di là di ogni limite di decenza, civiltà ed educazione, i contagiati hanno finito per accusare un danno cerebrale e psichico irrimediabile.
E' su queste basi che, anno dopo anno, si è compiuto il progressivo smottamento della percezione della realtà dal piano della scomoda concretezza all'assai più comodo livello del miraggio e dell'allucinazione, fino all'inversione di rotta per cui non è stato più il mondo a fare la TV, ma la TV a fare il mondo.
Qualsiasi avvenimento nazionale, mondiale o locale, è stato allora percepito o meno, indipendentemente dalla verità dei fatti, a seconda della rilevanza che gli è stata data in televisione.
E' in questo quadro che il potere di una televisione con fini di lucro, e pertanto intrecciato inestricabilmente col potere economico, è diventato la spinta propulsiva del potere politico. E con la televisione a fare da mezzo di indottrinamento e condizionamento delle masse, la catastrofe democratica degli ultimi vent'anni in Italia può ben dirsi una catastrofe culturale, e prima ancora ontologica; persino, a giudicare dalle cronache di questi giorni, a livelli ancora più profondi ed inquietanti di quelli che potevamo immaginare.


Ma anche questo, come ogni altro fenomeno umano, ha avuto il suo andamento di nascita, crescita e tramonto. Come nell'apice più fulgido del Rinascimento già covavano i germi della corruzione del Manierismo, e nello splendore del pathos del Romanticismo era contenuta in nuce la depressione del Decadentismo, così pure il populismo mediatico ha allevato in seno sin dai primordi del suo trionfo la sua nemesi: gli stessi ragazzini nati sotto la sua egemonia.


Questi neonati degli anni ottanta, così alieni dalla bambina ch'io ero stata.
Sradicati, immemori delle epoche storiche pregresse azzerate dalla fine dei blocchi granitici dell'URSS e degli USA contrapposti, il primo parcellizzato in una esplosione di micro Stati, con le geografie politiche stravolte di sei mesi in sei mesi.
Deprivati degli idealismi collettivi e delle aspirazioni alle battaglie di conquista di classe o di genere, tutte combattute prima del loro avvento, e forse anche per questo spesso intimisti, ripiegati all'ascolto delle loro soggettive solitudini.
Più liberi e disinvolti nei costumi come nei movimenti, ma per questo impossibilitati alla necessaria esperienza della trasgressione, e nostalgici di una purezza ed autenticità di rapporti di cui patiscono la penuria. Indipendenti, abituati a viaggiare, capaci di vivere al di fuori del recinto protettivo dei confini nazionali, eppure in certi momenti straordinariamente fragili, incerti, bisognosi di un nido e di cure e protezione.
Meno costretti agli obblighi religiosi, ma condizionati dalla figura titanica, ingombrante, di un papa retrogrado che tuttavia si offriva nella sua sofferenza ai loro sguardi ammirati in eventi oceanici degni di una rockstar.
Vissuti nella cattività della tv berlusconiana, prima sotto l'angusto orizzonte di Bim Bum Bam e degli stranianti cartoni animati giapponesi propinati solo perché a basso costo e pure censurati senza criterio, e poi di Amici, Uomini e Donne, Grande Fratello.
Ma anche protagonisti, al contempo, del boom delle nuove tecnologie multimediali, e dunque via via sempre più dirottati nel loro tempo e nella loro energia vitale dalla televisione al computer e alla rete. Per cui più aperti, informati, reattivi, coinvolti e costretti a formarsi opinioni e visioni delle cose da una molteplicità di stimoli indiscriminati, senza alcun filtro e alcuna censura, semplicemente impensabile per i loro coetanei di vent'anni prima.
Destinatari oggi, da adulti, del culmine delle conseguenze della catastrofe democratica avviata alla loro nascita: l'arretramento dei diritti civili e sociali, l'egoismo e l'avidità delle generazioni precedenti, la perdita di una prospettiva di futura realizzazione della propria vita. E nonostante questo ancora tenaci e capaci di vedere coi loro occhi nuovi e sentire colle loro orecchie sensibili, e di far librare i loro spiriti sulle ali dell'immaginazione, al di là del tunnel dove si trovano prigionieri.


E' sulle spalle di questi ragazzi di venti e trent'anni, definiti da un indegno rappresentante delle istituzioni "la parte peggiore dell'Italia", che poggiano le speranze del cambiamento che si è avviato.


Sulle spalle di queste creature arruffate e belle, generose loro malgrado. Perché, lottando per loro stessi, stanno lottando per tutti. E a noi, che abbiamo dato loro in eredità un pugno di mosche, loro stanno prospettando e mettendo in mano un futuro che hanno dovuto inventarsi dal niente e che noi da soli, indegnamente, pur avendone i mezzi, non avremmo saputo mai più guadagnarci.


Il web ha ucciso la star del video, finalmente. E se pure non si sa ancora se questo sia l'inizio di una nuova era, o solo di un tempo di minimi aggiustamenti, si sa per certo che, in ogni modo, è solo merito loro.

Quello che le donne non dicono

Con le calze è più facile barare. Modellano le curve, occultano macchie, arginano l'effetto gelatina. Ma quando il calendario completa il suo ennesimo giro per giungere al momento verità dell'anno in cui te le togli e offri alla vista del mondo le pallide estremità inferiori nude in tutta la loro lunghezza causa minigonna ascellare che, ulteriormente tesa sull'ineliminabile pancetta, scopre aggiuntive impreviste porzioni di coscia, e subito noti innescarsi il rassicurante automatismo dei soliti galanti cafoni che ancora persistono a spogliarti con lo sguardo, o fischiarti, o gridarti "a' gnoccaaa!" dai finestrini delle auto, capisci che anche per quest'anno l'hai sfangata; e cominci a pensare divertita a queste tue due gambe ormai venerande, di tenuta, se assommata, circa secolare, come ad un monumento cittadino, un gadget compreso nel pacchetto turistico assieme alle vestigia dei Fori, o al Colosseo; le quali magari, quando sarai decrepita, e ti sarai stufata di adoperarle, ti farai svitare per donarle ad un museo, purché compaia il tuo nome sul cartellino illustrativo...

martedì 15 maggio 2012

Les Galapiats



Allora: Torino è bellissima. Come sospettavo. (E si consideri pure che chi, come me, vive in una città eccezionale come Roma, è alquanto difficile da impressionare o entusiasmare.)

I torinesi pure. Ne ho avuti numerosi esempi, diretti e indiretti, simbolicamente riassumibili nel felice incontro con una bella e grande donna che, dopo aver brillato per mesi nel mio piccolo amato universo virtuale, ha accettato di uscire dallo schermo, diventare vera per me, e donarmi la stretta calda, forte e dolce delle sue parole e dei suoi abbracci.

La gita scolastica lo è stata altrettanto.

Siamo proprio un gruppo assortito di galapiats, come si chiamavano i ragazzi del telefilm simbolo della mia infanzia. Ci sono gli indomiti protagonisti, i nerd geni trascinatori, i gregari operosi e indispensabili, i battitori liberi, le belle ardimentose, tutti uniti da un medesimo interesse, dalla nostra collettiva ricerca del tesoro, per perseguire la quale abbiamo bisogno gli uni degli altri. Come loro viviamo, sublimata nel forum. un'avventura ricca di emozione, divertimento e fantasia. E quando ci troviamo insieme ci riconosciamo, in un'atmosfera di affetto e sintonia che si fa subito d'intensità palpabile.

Con tanti di loro mi ero già vista più volte. Certuni posso considerarli proprio amici, so di voler loro bene, di provare un calore in petto quando penso a loro. Alcuni scelti rappresentanti di questa categoria compaiono nella piccola foto che ho inserito nel blog, colta in un momento idilliaco, su un ponte del LungoPo, ai piedi della famosa collina, vicino al magnifico parco del Valentino. Con un piccolo, residuo manipolo invece è stata la prima occasione di conoscenza reale, dopo mesi, magari anni, di sporadici rapporti virtuali. E mi si è rinnovata la solita eccitante, appagante esperienza di pienezza. Per uno specificamente avevo curiosità ormai spasmodiche, simpatia e stima che necessitavano di esser infine indirizzate verso un viso, un nome, una fisionomia precisa. Anche queste sono riuscita a soddisfare, con un senso di mera gratitudine.

E poi c'erano anche altre due persone. Due persone in particolare, che da sole costituivano per me una buona metà delle motivazioni dell'intero viaggio. Due esseri umani con i quali, per motivi diversi, avevo sentito di avere un legame autentico, merce così rara qua dentro. Due uomini, uno più maturo, l'altro giovane filibustiere, che avevo estrema necessità di abbracciare.

Ce l'ho fatta. Quando li ho visti il cuore mi si è aperto, e ho saputo di non essermi sbagliata. Li ho stretti a me in successione, carezzando i loro visi, le care fattezze viste tante volte in foto e mai potute sfiorare fino ad allora. Prima il più vecchio. Poi il più giovane. E ho ovviamente battezzato il magico momento con le lacrime. Di gioia, per una volta, finalmente. Semplice, purissima e autentica gioia.

Guardandomi mentre mi rovesciavo sul vestito la coca che mi aveva offerto nella foga di investirlo con una valanga di parole, lo scontroso e tenero filibustiere ha commentato "sei una bambina, Cri". Dimostrando di comprendermi davvero. E dandomi non poco ristoro.


E quando poi, in un carosello di taxi, clacson, esclamazioni, la compagnia alle tre di notte si è sciolta, trasportando ciascuno al suo destino - chi ad un treno, chi ad un pub dove continuare a tirare mattina insieme ai più tenaci, chi in albergo, chi all'aereoporto - ho avuto davvero la sensazione che si prova quando, alla fine di un campo estivo, i ragazzi si salutano cantando la canzone dell'addio e combattono la nostalgia del distacco cominciando a pensare al prossimo incontro.

Io, dal canto mio, ho cacciato fuori un paio di ulteriori lacrime rivolgendomi al filibustiere con la stessa appassionata e pudica emozione con cui nel video l'angelica Marion si approssima al suo primo amore Jean-Loup.

"Ciao, stronzone, c'ho speranza di vederti un'altra volta prima di morire?"
"Dai, scema, magari una volta ci vengo a Roma."
"Vaffanculo" ho risposto commossa, coprendolo di baci.

venerdì 11 maggio 2012

Un fine settimana un giorno

Questo blog, eccezionalmente, non verrà aggiornato almeno fino a domenica sera, per un evento ancor più eccezionale: parto per il fine settimana. Vado a Torino. Al salone del Libro. In treno, oltretutto.

Vado ad incontrare un po' di gente che è responsabile del mio sbarco sul web. Per fargliela pagare, ovviamente.

E' tutta colpa loro, difatti, se io, nel lontano 2008, ai tempi dell'orrenda dominazione Be&Bo, navigando in rete per distrarmi dai tristi casi italici, ho scoperto il blog, e poi il forum, di Spinoza.it, e mi sono innamorata della loro congrega di cazzoni. E' colpa loro se poi ho cominciato a conoscerne qualcuno - i peggio, all'inizio - virtualmente, e poi dal vivo, e da quelli a conoscere altra gente, virtualmente, e poi dal vivo, e così via, aggrovigliandomi sempre più, e procurandomi un sacco di guai.

E siccome sono masochista, voglio loro bene per questo.

Dal pensiero della colpa mi è venuto in mente Edoardo Bennato. Però non mi va di postare la sua canzone che parla di colpa. Preferisco quella che parla di treni, mi pare più appropriata.

Baci grandi a tutti, a presto.


Una settimana, un giorno o solamente un'ora
a volte vale una vita intera
il tempo passa in fretta e ti ruba
quello che hai.

Io non so parlare d'amore,
ma so che quando tu mi stringi le mani forte
vorrei che il tempo si fermasse
intorno a noi...

Vorrei che mai, mai, mai,
mai nessuno al mondo mai
potesse rubarti,
portarti via lontano, come ora quel treno
e so che mai, mai, mai,
mai nessuna donna mai
con uno sguardo solo,
saprà donarmi tanto...

Sensazioni che affollano la mente,
sensazioni dolci,
fatte di parole, baci...
fatte di suoni...

In un momento solo conoscerti, amarti
e già sapere che devi andare via
che devi andare via lontano,
che devi andare via.

Vorrei che mai, mai, mai,
mai nessuno al mondo mai
potesse rubarti,
portarti via lontano, come ora quel treno
e so che mai, mai, mai,
mai nessuna donna mai
con uno sguardo solo,
saprà donarmi tanto...

Sensazioni, sensazioni che
che nemmeno il tempo
potrà portarmi via

giovedì 10 maggio 2012

Sweet dreams

[28/01/2012 11:14:33] Cri: allora
[28/01/2012 11:16:38] Cri: il sogno comincia con me che sono ad un macchinario grosso, tipo un vecchio calcolatore di schede perforanti come quello con cui lavorava mio padre negli anni '70, o una macchinetta distributrice di caffé, ma molto più grande (mi fa venire in mente i macchinari di Pippo cervello del secolo, non so se l'hai mai letto quel fumetto, una delle storie della Disney più inquietanti e poetiche che abbia mai letto, e che ho riletto e straletto centinaia di volte da quando ero piccola fino ad oggi)
[28/01/2012 11:18:43] Cri: io sto armeggiando a 'sto macchinario per fargli produrre qualcosa, avvito, svito, incastro, e arriva un mio amico di FB, un uomo che ha dieci anni più di me, di poche parole e di intensa spiritualità, che va tutti i giorni per ghiacciai, sta ore sulle vette in mezzo alla natura, è uno studioso di filosofie orientali e di esegesi biblica, ha una cooperativa di recupero di tossicodipendenti e minorati mentali e insomma è una persona alquanto speciale, uno che mi guarda da lontano ma mi tiene una mano sulla testa e ogni volta che sto male mi viene a cercare in mp per chiedermi come va
[28/01/2012 11:19:03] Cri: uno in contatto con la parte profonda di se stesso, diciamo, ecco
[28/01/2012 11:19:17] Cri: e mi dice: "hai visto che hai imparato? Non era difficile farla funzionare"
[28/01/2012 11:19:59] Cri: e io dico "sìssì, grazie!" e dicendo così riempio due sacche, o bottiglie di plastica, di roba che fuoriesce dalla macchina
[28/01/2012 11:20:16] Cri: che è latte, latte tiepido, come appena munto
[28/01/2012 11:20:24] Cri: due bottiglie di latte da mezzo litro ciascuna
[28/01/2012 11:20:43] Cri: queste due bottiglie io poi le faccio bere ad una bambina piccola
[28/01/2012 11:20:48] Cri: che è la mia bambina, una figlia
[28/01/2012 11:20:59] Cri: come se fosse la prima volta che la nutro, che mi occupo di lei
[28/01/2012 11:21:33] Cri: questa bambina beve tutto avidamente e poi io la tengo in braccio, mi pare per la prima volta, con un senso di colpa perché l'ho trascurata per tanto tempo e sono stata una cattiva madre
[28/01/2012 11:22:00] Cri: però lei è tutta serena, mi guarda seria ma a suo agio, ha i capelli color miele rossiccio e gli occhi scuri, ed è la mia bambina, e io so che ha un anno
[28/01/2012 11:22:35] Cri: e mi dico "non l'ho mai presa in braccio, eppure guarda come sta dritta! Non l'ho mai stimolata, eppure è tanto presente alla realtà. Chissà se parla?"
[28/01/2012 11:22:59] Cri: e intanto che penso questo lei comincia a parlare, mi dice frasette che ora non ricordo ma di senso compiuto
[28/01/2012 11:23:08] Cri: poi dice una parola che mi colpisce: "sincero"
[28/01/2012 11:23:55] Cri: e io penso: tu guarda! Una bambina di un anno che nessuno ha mai curato e non solo sa parlare, è competente, ma dice una parola così difficile, così poco usata, in modo così perfetto: "sincero"
[28/01/2012 11:24:03] Cri: poi mi sono svegliata :)
[28/01/2012 11:24:16] Cri: e ho capito il sogno, e chi è la bambina :)


All'alba di stamane, in preda al classico delirio onirico dell'ultimo scampolo di notte, quando è prossimo il risveglio e l'inconscio vaga in mezzo a grovigli surreali di cose e persone e situazioni reali dove tempi, luoghi e avvenimenti si confondono, ho sognato di nuovo la bambina.

Prima di visualizzarla, l'ho percepita nella stretta di una manina piccolissima, calda e asciutta, posata nella mia. Allora ho chinato lo sguardo e l'ho vista camminarmi accanto. Io, donna adulta, stavo avanzando in una sorta di piatta distesa ultraterrena popolata qua e là di figure e vicende familiari con l'usuale punta di oppressione in petto - la fitta indistinta di timore, il vago turbamento che aleggia sempre su questi sogni mattutini - insieme a lei che, pur così piccina, era invece così palesemente serena, sorridente di un sorriso in cui brillavano spensieratezza e sicurezza, come se fosse lei a guidarmi, e non il contrario. Perché lei conosceva quel luogo e sapeva dove andare. E quando lo scenario, come accade nei sogni, è improvvisamente mutato, calandomi, sola, in un paesaggio lunare, arido, quasi post apocalittico, in mezzo ad esseri catatonici che alla me adulta sgomentavano per le loro sembianze di zombie, mi è bastato girare gli occhi per ritrovarla dinamica e soddisfatta dentro ad una sorta di furgone, intenta a scrivere, o disegnare e colorare, un mucchio di fogli bianchi, dai quali ha subito alzato la testina ricciuta per farmi un ammicco d'intesa e d'invito.
Poi mi sono svegliata. Peccato.

Ma la ritroverò. E mi farò mostrare quel che sta facendo, questa bambina eccezionale che cresce a vista d'occhio. Credo sia davvero importante.

mercoledì 9 maggio 2012

Foto di gruppo


Troppo stanco per dormire, come Pellico mi metto a scrivere memorie su memorie per reprimere
la voglia insoddisfabile di pormi dubbi irrisolvibili circondato da un deserto di inquietudini,
le conoscenze non le riconosco, su alcuni cresce il muschio di qualcuno rimane solo il teschio,
certi amici non li vedo più non li sento nemmeno, pensando a loro mi ricordo invano, ricordi talmente sparsi che non possono più collegarsi, presto o tardi andranno persi nella banalità di chiacchiere,
dentro la complicità di foto e lettere
mai promettere se non sei in grado di mantenere,
guardacaso più scrivo più temo di non averlo del tutto compreso, timoroso di voltarmi per
guardarvi e riconoscervi, vivo nel presente.
Tanto va così
ti accorgi che la vita è una foto di gruppo, molti posano, troppi vivono a contatto
con una realtà
che non è di casa, si affrettano a prendere decisioni nell'attesa
di qualcosa
con il rischio che non accada,
di qualcuno
con il rischio che non ti veda, del motivo
che ci accomuna dentro la cornice
troppo poco stanchi per dormire.
Dentro la cornice si emerge dal profondo fino in superficie per riscoprire un pò com'è che va cosa
si dice,
niente di nuovo come al solito
chi vive per illudersi, chi la fa finita, chi resta in bilico
tra mille situazioni che lo compromettono tra mille e più inquilini che lo sfrattano,
chi rimane con i piedi a terra, chi resta a bocca aperta
per lo stupore
per il malumore,
pochi volti rassicurano di questi tempi vivo di gratitudine per i momenti che passano di tanto in tanto come un classico
che mi rileggo con piacere mentre già pregusto il prossimo,
e i tentativi di stare da solo sono falliti
salvato dai soliti vecchi amici, si può cenare qui stasera, scatto primi piani eterni per non
dimenticarci.
Perchè va così
ti accorgi che la vita è una foto di gruppo, molti posano, troppi restano a contatto con una realtà che non è di casa, si affrettano a prendere decisioni nell'attesa
di qualcosa
con il rischio che non accada,
di qualcuno
con il rischio che non ti veda, del motivo
che ci accomuna dentro la cornice ancora troppo stanchi per dormire.
Va così
ti accorgi che lo scatto è mosso e fuorifuoco
ma è troppo tardi per fare uno spreco
dei momenti che affronti degli imprevisti che ti tocca vivere
pagando in contanti per poter scrivere
di qualcosa
con il rischio che non accada,
di qualcuno
con il rischio che non ti veda, del motivo
che ci accomuna dentro la cornice
ancora troppo sveglio per dormire.

martedì 8 maggio 2012

Spleen - J'ai plus de souvenirs que si j'avais mille ans

J'ai plus de souvenirs que si j'avais mille ans.

Un gros meuble à tiroirs encombré de bilans,
De vers, de billets doux, de procès, de romances,
Avec de lourds cheveux roulés dans des quittances,
Cache moins de secrets que mon triste cerveau.
C'est une pyramide, un immense caveau,
Qui contient plus de morts que la fosse commune.
- Je suis un cimetière abhorré de la lune,
Où comme des remords se traînent de longs vers
Qui s'acharnent toujours sur mes morts les plus chers.
Je suis un vieux boudoir plein de roses fanées,
Où gît tout un fouillis de modes surannées,
Où les pastels plaintifs et les pâles Boucher,
Seuls, respirent l'odeur d'un flacon débouché.

Rien n'égale en longueur les boiteuses journées,
Quand sous les lourds flocons des neigeuses années
L'ennui, fruit de la morne incuriosité,
Prend les proportions de l'immortalité.
- Désormais tu n'es plus, ô matière vivante !
Qu'un granit entouré d'une vague épouvante,
Assoupi dans le fond d'un Saharah brumeux ;
Un vieux sphinx ignoré du monde insoucieux,
Oublié sur la carte, et dont l'humeur farouche
Ne chante qu'aux rayons du soleil qui se couche.

Deserto rosso

Il tempo interiore si dilata all'infinito in un assoluto cristallizzato; la Bella Addormentata si punge il dito e cade immota in un sonno lungo cento anni.
Nella simbologia numerica il significante si fa significato. Che siano i quaranta giorni di Cristo o del profeta Elia o della permanenza sul Sinai di Mosè o i quarant'anni del popolo d'Israele, le traversate del deserto hanno sempre durate bibliche. Costituiscono il lunghissimo momento della prova. Durante il quale non si deve sperare nella manna dal cielo.