mercoledì 25 dicembre 2013

Do they know it's Christmas

Nel 1984 Bob Geldolf, musicista irlandese leader dei Boomtown Rats, vide uno speciale della BBC sulla tragedia della carestia in Etiopia e ne rimase così sconvolto da provare un impulso incomprimibile ad agire per reperire fondi da destinare al soccorso della sventurata popolazione di quella terra.
Trovò l'appoggio di Midge Ure, leader degli Ultravox. Insieme i due composero il testo e la musica di un motivo che fu sottoposto ai più noti cantanti e gruppi pop della scena inglese dell'epoca. Molti nomi famosi aderirono al progetto, accettando di collaborare all'incisione a scopo benefico della canzone di Geldolf e Ure come membri della Superband nata per l'occasione che prese il nome di Band Aid.
Essendo lo studio di registrazione stato messo a disposizione gratuitamente dai proprietari solo per un giorno, in un giorno la canzone fu giocoforza missata e registrata: per la precisione, tra le undici di mattina e le sette di sera del 25 novembre, tra l'ingorgo dei fan assiepati all'esterno, l'assedio della stampa all'interno, le defezioni di illustri come Bowie e McCartney, l'approssimazione di molti imposta dalla preparazione superficiale e dalla fretta (le parti registrate dagli Status Quo, ad esempio, vennero cassate perché considerate inutilizzabili, ma comunque in parecchi coretti si sentono accenni di stonature), i ritardi fuori tempo massimo di altri (Boy George arrivò solo alle sei di sera, praticamente preso di peso e portato da Geldolf, quando ormai era tutto finito, e registrò a posteriori in solitaria).
Il risultato fu un disco sporco, improvvisato, concreto, spontaneo, bello come un diamante grezzo. Che fece milioni di copie, diventando il singolo più venduto di tutti i tempi in Inghilterra, stimolò un'iniziativa analoga negli USA (i celeberrimi USA for Africa, con l'ancora più celeberrima We are the world) e un incredibile, irripetibile evento: il concerto rock di luglio 1985 del Live Aid, in diretta planetaria tra il Wembley Stadium di Londra e il JFK di Philadelphia, al quale parteciparono davvero tutte le stelle del firmamento musicale mondiale del presente e del passato, nessuna esclusa.
Riguardare oggi il video mi emoziona ancora. Paul Young, Simon LeBon, Boy George, Bono, Tony Hadley, Sting, George Michael, che lì sono poco più che ragazzini, sono più vecchi di me e oggi sono tutti più vicini ai sessanta che ai cinquanta. Per non parlare di Phil Collins.
Per non dire di Freddie, che con i Queen al Live Aid ebbe la definitiva consacrazione a icona della musica mondiale, il mio amatissimo Freddie, che è morto. Ormai da più di vent'anni.
Eppure non provo rimpianto né amarezza, riguardandolo. Bensì commozione, tenerezza, senso di calore: affetto, appartenenza, familiarità.
Gli stessi sentimenti che ho provato quando, incastrata con la mia incontentabile e incontenibile figlia giacobina in un negozio Accessorize a King's Cross Station già infestonata per Natale in un pomeriggio inoltrato della fine di novembre, ho sentito dagli altoparlanti della filodiffusione uscire le note della canzone: la melodia un po' storta, un po' cupa, un po' primitiva di Do they know it's Christmas, uno dei cardini della mia giovinezza.
E lì, in un posto dove non ero mai stata prima di allora, in una nazione a migliaia di chilometri dalla mia, in mezzo a frotte di gente estranea e indifferente, mi sono sentita improvvisamente a casa.


martedì 24 dicembre 2013

A l'unico amico

Vieni a trovarmi  
se puoi  
fra un taxi e una telefonata  
un contratto  
e un’arrabbiatura  
tra un giornale e una preghiera 
tra un film e un aperitivo  
vieni a trovarmi  
finché son vivo  
una mattina  
una sera  
scambiamoci un sacco  
d’idee sbagliate  

invecchiamo un’ora insieme. 

(Non è forse questo, il Natale? Sfiorare con la propria presenza quella altrui, e in quell'istante sentire esaltata la comune umanità e vitalità. Un gesto tanto semplice, naturale, e tuttavia così sublime che, secondo la buona Novella cristiana, è stato anelato, e compiuto, persino da Dio. Auguri, amici miei unici, di cui reco impresse nella mia esistenza in modo indimenticabile, indelebile, le ore in cui siamo invecchiati insieme. Vi abbraccio tutti idealmente come ho fatto più volte dal vivo, con affetto grande e grande gratitudine, fiduciosa di poter replicare - o sperimentare ex novo, con i pochi di voi che ancora non ho mai incontrato - innumerevoli occasioni di Natale grazie al conforto di altri preziosi momenti in vostra compagnia)

lunedì 23 dicembre 2013

Vaghe stelle dell'orsa/5

Ieri, domenica, ho saltato l'appuntamento, malandrina sfaccendata che sono.
Recupero stasera.
Nell'attesa del gran finale di domani.


MANNAGGIA
Si tagliò una mano 
per riscuotere il premio
dell'assicurazione.
Era svenuto
dopo il colpo e il sangue.
Si risvegliò all'ospedale
tra fotografi, cronisti, TV

Un professore americano
gli aveva
riattaccato la mano.



IL DRAMMA DEL TECNICO
Capire un tubo
e non capire
altro.




ATTENZIONE
Non si deve
essere grati
a chi cessa
di essere ingiusto.




LO SBAGLIO
E' sbagliato
raccontar le favole
ai bambini per ingannarli, 
bisogna
raccontarle ai grandi
per consolarli.


sabato 21 dicembre 2013

Vaghe stelle dell'orsa/4

NON MI VA

Non è colpa mia.
per quanti sforzi faccia
non riesco a soffrire
più di due minuti
poi mi distraggo
e tanti saluti.
Che vi devo dire?
Al funerale
all'eccidio, all'ingiustizia
all'alluvione
oppongo la distrazione.
Non è che io sia sordo
al dolore...
No, io me ne scordo.
Saluto chi mi insultò
chi mi tradì
chi mi rovinò.
Ho scordato l'affronto
non ne tengo più conto.
Ma non è generosità
è che di soffrire
non mi va.

venerdì 20 dicembre 2013

Vaghe stelle dell'orsa/3

Voglio preoccuparmi
della Torre di Pisa
intensamente
voglio farmene una croce
una manìa
starò lì a sostenerla
con una mano
come nei vecchi fotomontaggi.
Tempesterò sui giornali
farò cortei da solo
avrò uno scopo nella vita
finalmente
e la gente esclamerà
alla mia morte
"Ecco uno
che non poteva vedere
le cose storte"

giovedì 19 dicembre 2013

Vaghe stelle dell'orsa/2


Chi non muore si ricrede.

Chi troppo vuole firma cambiali.

Malcostume
grande gaudio.

Chi tardi arriva male parcheggia.

Chi rompe paga. Chi corrompe paga di meno.

La mela marcia costa come le altre.

Chi si ferma è panciuto.

Il diavolo non è così brutto come vorrebbe.

Quando piove chiunque vale un ombrello.

La gente meno si vuol bene e più si fa regali.

(Dose di oggi)

mercoledì 18 dicembre 2013

Vaghe stelle dell'orsa/1

Faccio una gran fatica ad accendere il pc, in questi giorni. Non so se covo qualche malattia, spero di no: ho sempre sonno, mancanza non di energia, ma di irrequietezza, e voglia di starmene rincantucciata sul lettone in mezzo a un mucchio di libri, sentendomi come un bruco nella crisalide, un'orsa in letargo nella tana. Ogni tanto mi appisolo; poi mi riscuoto e ripiglio a leggere per un nuovo segmento di tempo fino alla successiva perdita di conoscenza; il tutto sotto lo sguardo perplesso di Lilith, la nostra gattina, che dopo un po', non riuscendo ad appassionarsi alla pratica per mancanza di cognizioni adeguate di letteratura, ma apprezzando la possibilità di farsi cullare dall'insolito silenzio (ogni silenzio in luoghi nei cui paraggi ci sia io è insolito) e dall'atmosfera tranquilla finisce per addormentarsi su una coperta accanto a me.
Tra i molti libri che mi sono passati per le mani in questi giorni c'è questo compendio di genialità di Marcello Marchesi intitolato Il dottor Divago, dall'appellativo che lui coniò, insieme a molti altri altrettanto perfidi e azzeccatissimi per personalità illustri della vita pubblica e dello spettacolo - tipo Marlon Blando per Marcello Mastroianni, El Cid che tira a Campeador per Francisco Franco,  La penna montata per Dacia Maraini - per Aldo Moro.
Così, siccome quest'anno non ho comperato alcun regalo di Natale, ho pensato di lasciare qualche strenna qui sul blog costituita da poesie o motti coniati dalla mente di questo fantastico Umorista: un mini calendario dell'Avvento costituito da un pensiero marchesiano al giorno, che dono a chiunque passi di qua.
Comincio oggi con quello, celeberrimo, che potrei annettere come motto al blasone, se avessi un blasone.

SUPERTIMIDO
Affogò
perché si vergognava
a gridare
aiuto.

domenica 15 dicembre 2013

For the Beauty of the Earth

Sono tornata da poco dal concerto di Natale del coro degli alunni ed ex alunni del liceo scientifico Isacco Newton, nel quale militano, oltre a mia figlia, parecchie altre giovani creature che conosco e mi sono care.


Ci sono andata del mio solito umore: un magma di ambascia, fastidio, incertezza e irritazione, in larga parte senza un percettibile motivo. Che andava crescendo, via via che venivo a contatto con la folla che premeva per entrare, incontravo conoscenti con cui non avevo voglia di intrattenermi, venivo spintonata per infilare il budello del portone d'ingresso, lottavo per conquistarmi un posto a sedere, e una volta installata dovevo sorbirmi nell'attesa dell'inizio la visuale del muro umano di parenti che alzavano i loro cellulari o tablet per applicarsi a riprendere incessantemente, prima ancora che ci fosse qualcosa da riprendere, la scena da ogni angolazione e le conversazioni inutili e fatue dei rappresentanti della specie più minacciosa e insopportabile dell'universo, i genitori degli studenti.

Poi, la musica - di cui posto qua sotto un assaggio nell'incisione discografica di uno dei brani, per dare un'idea del clima della serata -,  che usciva dalle gole di cinquanta ragazzi e ragazze che fino a quel momento erano stati solo i nostri faticosi figli ma che ora ci apparivano mutati, trasfigurati - che rimetteva all'istante ogni cosa al suo posto, distendeva gli animi e restituiva bellezza alla cornice fastosa e solenne di Santa Prisca, alle pendici dell'Aventino, in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio. 

Gospel. Corali. Inni. Le voci. I volti. Il brusio di cinquecento persone cessato d'incanto, l'atmosfera che si fa gravida di partecipazione ed emozione, gli sguardi che si cercano, tra i cantori come tra gli spettatori assiepati nei banchi, per vedere se anche in quelli altrui si riflette quello che si sente brillare nei propri.

Ne sono uscita con gli occhi lucidi e un unico pensiero ad occuparmi la testa: che finché ci sono cinquanta ragazzi e ragazze tra i quindici e i vent'anni che cantano assieme in armonia non tutto è ancora perduto, per il mondo.

giovedì 12 dicembre 2013

Viva l'Italia

Ancora per poco è 12 dicembre.
Come quarantaquattro anni fa.
Tremendamente evocati nell'odore della madeleine avvelenata di questi giorni di inquietudini e tumulti.

(mi ricordo quella sera d'estate di più di dieci anni fa, quando, noi girotondini assiedianti Montecitorio per protestare contro l'approvazione della Cirami, o della Cirielli, o del legittimo sospetto, non mi sovviene più, riuscimmo a convincere gli allora DS, Margherita e Rifondazione Comunista ad abbandonare l'aula durante la votazione, per stigmatizzare il vulnus inferto al Parlamento con questa indegnità. L'allora capogruppo di Rifondazione venne giù a parlare in mezzo a noi, emozionato e commosso, e fece a braccio un discorso che ci toccò nel cuore e ci rinfrancò. Era Nichi Vendola. E mentre scendevano le luci della sera, negli ultimi fuochi rosei di un meraviglioso tramonto romano di metà luglio, noi accogliemmo i nostri rappresentanti che alla spicciolata lasciavano il palazzo per tornare in mezzo al loro popolo. Qualcuno aveva portato della musica: e dalla piazza che faceva da teatro a questa scena da cinematografo si levò leggera la voce di De Gregori che cantava questa canzone. Sembrava di stare in un sogno di un film di Fellini)


Viva l'Italia
l'Italia liberata 
l'Italia del valzer, l'Italia del caffè. 
L'Italia derubata e colpita al cuore, 
viva l'Italia, l'Italia che non muore.

Viva l'Italia
presa a tradimento 
l'Italia assassinata dai giornali e dal cemento, 
l'Italia con gli occhi asciutti nella notte scura, 
viva l'Italia, l'Italia che non ha paura. 

Viva l'Italia
l'Italia che è in mezzo al mare, 
l'Italia dimenticata e l'Italia da dimenticare, 
l'Italia metà giardino e metà galera, 
viva l'Italia, l'Italia tutta intera.

Viva l'Italia
l'Italia che lavora, 
l'Italia che si dispera, l'Italia che si innamora, 
l'Italia metà dovere e metà fortuna, 
viva l'Italia, l'Italia sulla luna.

Viva l'Italia
l'Italia del 12 dicembre 
l'Italia con le bandiere
l'Italia nuda come sempre 
l'Italia con gli occhi aperti nella notte triste, 
viva l'Italia,

l'Italia che resiste 

Il pianeta delle scimmie

Ma che perfetta analisi del personaggio Matteo Renzi questo ritratto fatto dalla penna di Luigi Castaldi, scovato l'altro ieri sulla bacheca di FaceBook della mia amica Alessandra, di cui poi ho captato tracce consistenti nel colore dei post di altri amici blogger.
Io Renzi, ammetto, l'avrò sentito parlare di sfuggita tre minuti da un anno a questa parte: è più forte di me, mi suscita lo stesso fastidio che mi suscitava sentire Berlusconi (anche se sono perfettamente conscia delle incolmabili, macroscopiche differenze tra i due, non avendo Renzi né le sue "risorse illimitate", per usare l'espressione contenuta nella sentenza di condanna per il lodo Mondadori , né i suoi scheletri nell'armadio, né il suo strapotere mediatico di padrone di televisioni - e non solo di cavallo vincente su cui scommettere al momento -, giornali, società di produzione e distribuzione cinematografica, banche, assicurazioni e di leader, con la frode, del più grande colosso dell'editoria italiana). Però quei tre minuti mi sono bastati e avanzati per farmene un'opinione, che il post che ho citato esplicita assai felicemente. Si è detto che le primarie sono state falsate dalla partecipazione surrettizia di masse di infiltrati prezzolati dal satrapo, il quale, peraltro, si è saputo, gli ha telefonato cordiale per congratularsi. Io credo che, molto semplicemente, un'ampia massa di italiani di fede massmediatico berlusconiana abbia riconosciuto con entusiasmo nel sindaco di Firenze un simpatico, fresco, rassicurante e giovanile simile, uno della loro specie, "una di noi"! come scandiscono, euforici e minacciosi assieme, i freaks di Browning al banchetto nuziale della perfida Cleopatra col nano Hans.
Che accadrà ora proprio non lo so: so quello che farò io. Da domenica sera nel mio animo è scesa una grande serenità: quella che si prova quando, nell'accettare i dati di realtà, ci si sente subentrare dentro un riposante senso di impotenza che non si percepisce come costrizione, ma, al contrario, come scioglimento di ogni zavorra, allargamento dell'orizzonte della propria mente svincolata da ogni lacciolo, raggiungimento di un più alto e inespugnabile stato di libertà. Una sensazione diametralmente opposta al crescente panico vissuto, ad esempio, durante la notte di tregenda delle elezioni del 2006, con la mia agitazione parossistica ("chiedo l'intervento dell'ONU, dei caschi blu!") immortalata nel docufilm di Deaglio Uccidete la democrazia; o la nauseante, orrifica angoscia provata davanti alla copertina dell'Espresso del 2008 che, all'indomani della roboante ultima vittoria della banda delle libertà, effigiava i musi suini di Bossi e Berlusconi talmente sordidi e ghignanti che parevano usciti da un quadro di Bosch.
Stavolta è tutto diverso: ho fatto pace dentro di me. Nulla posso, io, povera persona, davanti a sconvolgimenti epocali di tale portata comparabili all'estinzione dei dinosauri. Qui, più che ad un grosso deficit civico e democratico (perché quella che manca non è solo l'ortodossia del κράτος, è proprio quella del δῆμος), prima ancora che a una grave carenza culturale, prima ancora che alla crisi delle ideologie, sembra di assistere ai primi effetti di una catastrofe antropologica. La maggioranza degli italiani non è né di destra né di sinistra: è solo composta da individui della specie homo sapiens sapiens che stanno subendo progressivamente un'involuzione, regredendo ad uno stadio subumano, più vicino a quello dei cugini primati. Purtroppo senza avere dalla loro nemmeno l'ausilio dell'istinto, né la protezione dell'irsutismo corporeo, per ora. Speriamo in un prossimo ripristino di quelle funzionalità, almeno. E si può farlo, a buon diritto, per fortuna! Già con le ultime esternazioni degli esponenti del Movimento 5 Stelle e del loro padrone abbiamo fatto radicali passi avanti verso il ritorno alle caverne. Confidiamo nella rivoluzione prezzolata dei forconi per compiere definitivamente la mutazione genetica.

mercoledì 4 dicembre 2013

Twelfth Night







"On the first day of Christmas my true love sent to me..."

E comunque.

Scendere da Oxford Circus lungo Regent Street sotto una luminaria fiabesca che illustra le filastrocche più antiche fino a Trafalgar Square, passando di lato al Mall che in lontananza rifulge dello splendore di Buckingham Palace, e poi giù attraverso i maestosi marmi della White Hall che torreggiano nel loro austero biancore sotto le stelle fino all'immensa Westminster che emerge a forza dal buio e al Big Ben grande e sfavillante più della luna e da lì arrivare ad affacciarsi sul Westminster bridge a contemplare le luci iridate del London Eye e dei mille palazzi sulle rive che si doppiano specchiandosi nel Tamigi in un dopocena londinese del primo di dicembre dolce e mite e piacevole come una ruffiana serata primaverile romana è stato un privilegio, un piccolo prodigio che conserverò nello scrigno dei miei ricordi più preziosi. Fosse stato anche solo per questo, sarebbe valsa mille volte la pena di andare fin lì. Come sei bella Londra, come sei bella Londra quando è sera. 

All's Well that Ends Well

C'è stato un momento di intenso malessere, sabato mattina, in cui ho preso a scrutare quietamente angosciata i volti degli affaccendati londinesi che affollavano ordinatamente, le fronti aggrottate da una serena pensierosità, quel fare tra il disinvolto e l'impegnato collocato sull'esatta metà della sottile linea di confine tra una sovrumana concretezza e il più totale alienato distacco, il mio autobus numero 14 in marcia verso la (peraltro) bellissima Cromwell Road, con un interrogativo che mi pesava sullo stomaco, impossibile da digerire (tanto è vero che poi la sera ho appunto vomitato): ma se tutto è illusorio, persino l'affetto tra i congiunti più stretti, a che serve tirare avanti? Dove stanno andando tutte queste persone? A che giova il loro energico affannarsi dal lunedì al venerdì al lavoro, avanti e indietro, saliscendi, sugli autobus e sulle metro, sempre perfettamente irregimentati, e poi il sabato e la domenica a macinare chilometri nei musei o sui marciapiedi e nei grandi magazzini dei quartieri dello shopping accalcati in file rigorosamente organizzate a comprare regali natalizi per altre persone ch'esse credono a loro legate da rapporto affettivo o amoroso? Che senso hanno i sentimenti, a quale verità si abbarbicano, qual è la realtà oggettiva, misurabile, verificabile, che dona loro peso, contorni e necessità? Che scopo hanno tutte queste pantomime, se non quello di passare il tempo in attesa della fine? La vita è un colossale equivoco, una frenetica deriva, e poi si muore.
E lì, concependo questi pensieri, spersa in un autobus a due piani a sud ovest di un'isola in mezzo all'Europa, lontana da casa migliaia di chilometri, accanto a volti sconosciuti e conosciuti che formavano un unico blob compatto per come non riuscivo più a cogliere apprezzabili distinzioni di familiarità tra gli uni e gli altri, mi sono percepita, in uno zoom di potenza mai provata prima, un infinitesimo puntino su una sfera di terra e di acqua, a sua volta minuscolo puntino smarrito nell'immensità di un universo di innumerevoli puntini, e ho cominciato a sudare freddo per la vertigine, e ho provato l'impulso di scappare a gambe levate: ma scappare per dove?
Non è stato un bel momento.

C'è stato poi un altro momento di disagio, questo molto meno fastidioso, quando, lunedì sera, sull'aereo della Norvegian Airlines che mi riportava a casa, giunta all'altezza della Versilia (inquadrata dall'oblò nella notte come un disegno fatto con la porporina) sono entrata, insieme all'apparecchio, ai passeggeri e a tutto l'equipaggio, in un'area di leggera turbolenza che per un quarto d'ora circa ci ha regalato la sensazione di stare su un autobus del centro di Roma a ballonzolare sui sampietrini. E lì ho percepito, nettissima, non la paura di cadere, no, perché non ero veramente spaventata: solo una sorta di apprensione, una concentrazione a cooperare spiritualmente ad un fausto esito del viaggio strettamente ancorata alla piena, forte, ferma volontà di non finire lì la vita, di giungere a destinazione e rimettere i piedi per terra. E ho riflettuto su come, al di là di ogni inquietudine sul senso, il senso vero della vita è vivere, e si esprime nell'istinto di sopravvivenza che scorre potente in ciascun essere umano, che prevarica tutto il resto. E amen. Tutto è bene quel che finisce bene.

Much Ado about nothing

E rieccomi qui, frastornata da una travagliatissima convivenza coatta con quella che, sulla carta, è la mia famiglia.
Non c'è niente di meglio, per rinfocolare tensioni che covano sotto la cenere, di un viaggio assieme a coloro con i quali ci sia disarmonia. I fuochi scoppieranno tutti, uno dietro l'altro, in un deflagrante spettacolo pirotecnico di vigore direttamente proporzionale all'intensità della tensione iniziale (nella fattispecie molto elevata) e anche alla distanza del punto di arrivo da quello di partenza. Una meta che richieda uno spostamento in aereo, per esempio, come nel nostro caso, fa ottenere risultati più apprezzabili di una per cui basti qualche ora di macchina. E difatti. Il combinato disposto dei vari fattori ha prodotto uno show faraonico di altissima qualità.
E io mi sento come se mi avessero pigliato di peso, sollevato a mezz'aria, sbatacchiato con pervicacia e poi ributtata giù, senza alcuna finalità precisa, per un Fato cieco e ostinato. Una botta di caos, anziché una botta di vita.

Forse essere così esausta darà i suoi frutti. Mi sono talmente infragilita che sicuramente stasera alla seduta con Edo faremo faville. Chissà, magari scardineremo qualche importante testata d'angolo del mio ingombrante rimosso.

Evviva.

Nel frattempo ho cominciato a godere dei benefici del trattamento in situ: dopo più di vent'anni in cui non riuscivo a vomitare (Edoardo ultimamente mi aveva detto: ci credo, coll'irrigidimento del diaframma che ti ritrovi) la notte di sabato scorso ho rifatto l'anima prima in un interludio nel lavello di cucina e poi, finalmente, con tutti i crismi, accasciata sul pavimento, nel water dell'elegante ed angusto appartamentino di Chelsea dove eravamo alloggiati.

Mi sono stappata le tubature, insomma. Che altro voglio dalla vita?

Sono davvero incontentabile.