lunedì 31 ottobre 2011

Magnificat

Ci sono degli istanti nella mia vita di stuntwoman dell'emozione che sono talmente densi ed intensi da lasciarmi senza fiato e senza parole.

Quella rigogliosa pienezza io vorrei gridarla a tutti. Vorrei cavarmi dalla mente un pensiero, un'immagine, una parafrasi, una metafora, che esprima in modo anche solo vagamente appropriato quello che sento. Ma sono troppo grandi e mistiche le cose che capto, e troppo minimi e basici gli strumenti che ho per trasmetterle. 

In questi casi mi soccorrono antiche figure con cui ho avuto familiarità nell'infanzia, credute dimenticate e invece sempre riaffioranti dall'anima ogni volta ch'ella si scopre nuda davanti alla comprensione prima, e poi alla narrazione, del fantasmagorico giro di giostra che sta compiendo.

Oggi mi viene incontro Luca l'evangelista, che sul palmo della mano mi offre la sua giovane Maria, che "serbava tutte queste cose nel suo cuore."

(E' la seconda volta in una settimana che mi pare affine alla mia disposizione di spirito quest'intreccio di innocenza e carnalità e giovinezza e maternità ed esaltazione e nascondimento. Bello.) 

Ecco, oggi io m'appoggio lì. Sono io quella. E ho detto tutto.

giovedì 27 ottobre 2011

L'amore fa

Il nodo alla schiena pian piano si sta sciogliendo. Mi si è sciolto anche qualcosa dentro. Le mie funzioni vitali si sono riattivate.Ho anche fatto un bel sogno, stanotte! Che da tanto non facevo più.

Sento molto meno male, oggi.




L'amore fa l'acqua buona
fa passare la malinconia
crescere i capelli l'amore fa
l'amore accarezza i figli
l'amore parla con i vecchi
qualcuno vuole bene ai più lontani
anche per telefono
l'amore fa guerra agli idioti
agli arroganti pericolosi
fa bellissima la stanchezza
avvicina la fortuna quando può
fa buona la cucina
l'amore è una puttana
che onora la bellezza
di un bacio per regalo

cose che fanno ridere
l'amore fa
cose che fanno piangere

l'amore fa begli gli uomini
sagge le donne
l'amore fa
cantare le allodole
dolce la pioggia d'autunno
e vi dico che fa viaggiare, sì
illumina le strade
fa grandi le occasioni
di credere e di imparare

cose che fanno ridere
l'amore fa
cose che fanno piangere

fa crescere i gerani e le rose
aprire i balconi
l'amore fa
confondere le città
ma riconoscere i padroni
l'amore lo fa
aprire bene gli occhi
amare più se stessi
l'amore fa bene alla gente
comprendere il perdono
l'amore fa.

martedì 25 ottobre 2011

lunedì 24 ottobre 2011

Ave Maria

Essere scoordinate psichicamente è un casotto. Ma porta anche i suoi vantaggi, sempre gratuiti perché slegati da ogni contesto e dunque assolutamente e gioiosamente imprevisti.
Ad esempio in un lunedì mattina di fine ottobre puoi esserti dovuta svegliare accessoriata dei soliti quindicimila pensieri seri, meno seri e ridicoli che ugualmente ti tormentano il cervello ma col corredo dell'aggiunta di doverti lavare a pezzi scaldando l'acqua sul fornello perché la caldaia ha deciso (di nuovo) di non accendersi, puoi aver dovuto andare al lavoro sotto un cielo plumbeo e in più scoprendo che il pugnale da mesi piantato nel tuo petto ti si è improvvisamente spostato dietro, profondamente conficcato nella scapola destra, regalandoti un attacco di artrosi cervicale come non ne avevi da anni, col dolore che ti si propaga in scariche elettriche per tutto il braccio fino a comprometterti l'uso del pollice opponibile e per conseguenza la tua funzionalità lavorativa, eppure poi però lo stesso, fregandotene di tutto, puoi trovarti a salire le scale dell'ufficio e dopo a varcare la soglia del piano in frenetica e ilare danza al ritmo dei tamburi che cadenzano la seconda strofa de i treni a vapore che ti sparano nelle orecchie le solite cuffiette del tuo vetusto walkman, in preda ad uno dei tuoi non infrequenti attacchi di ottimismo e giocondo entusiasmo.
Buona settimana, mondo.



E te ne vai, Maria, fra l'altra gente
che si raccoglie intorno al tuo passare,
siepe di sguardi che non fanno male
nella stagione di essere madre.

Sai che fra un'ora forse piangerai
poi la tua mano nasconderà un sorriso:
gioia e dolore hanno il confine incerto
nella stagione che illumina il viso.

Ave Maria, adesso che sei donna,
ave alle donne come te, Maria,
femmine un giorno per un nuovo amore
povero o ricco, umile o Messia.

Femmine un giorno e poi madri per sempre
nella stagione che stagioni non sente.

venerdì 21 ottobre 2011

Nel covo dei pirati

Questa me l'ha regalata un amico su FB qualche giorno fa. 
Dopo i miei primi abbozzi di resoconti della manifestazione del 15 ottobre.
Mi ha scritto "non so perché mi sei venuta in mente tu".
Ma sono IO! E' la mia vita! La mia infanzia! La mia diciassettennità!
Devo esser proprio trasparente se mi tanano così.
Oppure è solo che certi vissuti di dolore, pur nella diversità delle esperienze, li abbiamo tutti dentro, che certe sofferenze le condividiamo in tanti.
E' anche quello che ci unisce e ci lega, gli uni agli altri, e ci rende più leggero il peso dell'esistenza.
Siamo tutti la Wendy coraggiosa che sola va sicura sul trampolino di Capitan Uncino. Che aspetta il principe azzurro che stavolta non viene, e contro i pirati dovrà lottare davvero. Che ormai già sa dai pirati cosa si può aspettare, ed è proprio questo il suo vantaggio, e non ci deve rinunciare.
E' il paradosso chiave: solo nella debolezza c'è la forza. Nella sconfitta il riscatto.
Non bisogna avere paura, Cri. Tu non lo sai, ma non ne hai mica.



mercoledì 19 ottobre 2011

Piazza San Giovanni, 15 ottobre/2

Dopo averli contemplati per un po', questi incappucciati quiescenti, ed essermi tolta lo sfizio del brivido della loro vicinanza, accelero di nuovo il passo, e quando, lasciatili indietro di parecchio, giungo in vista del Colosseo, ravviso in mezzo ad un gruppetto di ragazzi un compagno di classe di mio figlio nonché la scontrosa ragazzina alla quale costui è legato da tenera amicizia dalla sera di un anno fa in cui mi accompagnò a portarla al San Giovanni contribuendo con ciò a salvarle la vita, essendosi lei procurata un coma etilico a casa mia dopo appena poco più di mezz'ora dal momento in cui si era imbucata, sconosciuta ai più, a rimorchio dell'olandese volante, alla festa colà organizzata.
'Sto ragazzo, dall'alto del suo metro e novanta, mi guarda coi suoi occhi verdi spalancati di sovraeccitato candore e vergini di ogni consapevolezza politica che dia senso al suo essere in piazza e, mentre la sua amica tiene il broncio, mi fa con tenera incoscienza, mostrandomi sul suo cellulare le foto dei roghi che ha ripreso da ogni angolazione, "Cri, guarda che roba! Belle, vero? Forte ahò! L'hanno fatto i Black Bloc, noi li abbiamo visti, sa', gli siamo passati accanto, stanno là dietro, eh!"
"Visti, visti. Belle, sì! Mandatemele su FaceBook!" gli grido mentre riprendo la strada, un poco impensierita per lui e sollevata al pensiero che il diciottenne di casa, a cui pure ieri era punta vaghezza di venir qui, abbia poi abortito l'idea per partecipare alla festa di compleanno dell'olandese. Ché in un'ottica meramente ludica, divertimento per divertimento, quell'altro sembrerebbe almeno portar seco meno rischi (anche se, in un fuggevole flash del quadro di un anno fa della bambolina ora ammusata stesa su una lettiga d'ospedale con i riccetti bagnati appiccicati sulla fronte e gli occhi vitrei, mi smentisco il pensiero da sola, arguendo che non c'è da mettere la mano sul fuoco manco su questo).
All'altezza di Via Labicana mi accodo ai No Tav, tanti, civili e decisi nel gridare le loro proteste, adeguandomi al loro passo e seguendoli lungo tutto Viale Manzoni. Cammino da un'ora e sono stanca. Passato il momento di tensione per le scene di guerriglia che mi sono lasciata alle spalle comincio pure a sentirmi demotivata. Non so bene perché, questo corteo mi da più di altri l'impressione della mancanza di coesione. Sembra una coperta patchwork non ben assortita. Ciascuno ha le sue ragioni e solo quelle, e la sensazione è che non starebbe a sentire quelle degli altri, che non lo muoverebbero all'indignazione nello stesso modo. E' forte il sentimento di essere una monade in mezzo ad altre monadi. Altro che popolo unito.
Arrivo in Piazza San Giovanni prima delle quattro, e il sentimento persiste e si rafforza nel constatare che non c'è niente di organizzato, non c'è un palco, non ci sono oratori. Non si sa bene che fare, anche metaforicamente. Pertanto - nonostante l'animazione gioiosa della testa del corteo che vede schierate le pacifiche e colorate masse delle ONLUS per l'acqua pubblica, nonostante la mia emozione nel riconoscere, nel signore barbuto che in prima fila regge lo striscione e si arrabatta balbettando a seguire le parole della canzone di Gaber che i suoi stanno intonando, "la libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione", padre Zanotelli, uno dei miti della mia esistenza, al punto di mandare l'ennesimo messaggio esultante ad Angie - la percezione di smarrimento sovrasta tutto il resto. E ora?, mi dico. Vado a ripigliarmi la macchina e me ne torno a casa? E' tutto qui?
Mi scuote dal mio isolamento mentale il ragazzo col megafono che invita tutti ad addentrarsi sul prato antistante la basilica per agevolare l'afflusso dei partecipanti che man mano stanno giungendo. E lì faccio d'istinto la cosa che mi risparmierà, a conti fatti, un sacco di guai. Siccome sul pratone non c'è nessun interesse a sostare, decido di avvicinarmi al presidio degli indignati insediatosi sotto la statua di San Francesco, all'altro lato della piazza. Oltretutto da lì posso godermi lo spettacolo frontale del corteo che man mano arriva a destinazione entrando da via Emanuele Filiberto. E siccome sento il bisogno di riposarmi, mi siedo con sollievo e soddisfazione sul bordo del marciapiede che fa da base al semaforo al centro dell'incrocio.
Ormai, comunque, è fatta, mi dico. Gli incidenti ci sono stati, ma in misura alquanto contenuta rispetto alle aspettative. E ormai la manifestazione è al termine, l'abbiamo sfangata. Mi sovviene improvvisamente che forse le immagini delle auto bruciate a Via Cavour sono già rimbalzate sulle TV, per cui telefono a mio marito allo scopo di rassicurare lui e i figli della mia incolumità: "se anche vi giungono notizie di disordini, state tranquilli, a me non è successo niente, ormai sono arrivata e non c'è più pericolo". Nello stesso momento in cui pronuncio queste parole alzo gli occhi e vedo levarsi sulla sinistra, oltre i palazzi che stanno dietro alla Scala Santa, un'altra colonna di fumo piuttosto imponente. Mi metto in preallarme, forse stanno bruciando un'altra macchina, e mentre lo penso capto in un angolo remoto della mente le parole accorate e inani che sta pronunciando la portavoce del presidio: "gli indignati in tutto il mondo si muovono in maniera totalmente pacifica e non violenta... Quello che è successo oggi è una vergogna, ma di questa vergogna ci dobbiamo fare tutti carico, è una nostra responsabilità, una responsabilità di tutti dire no, no, no alla violenza..."
Non realizzo quel che sta succedendo. La ragazza allude alle macchine bruciate, o c'è dell'altro che non so? Sono ancora all'oscuro del rogo del magazzino militare, dei cassonetti ribaltati, del caos di Via Labicana. Lo slargo intorno a me pare uno stagno dove si aggira con poca animazione gente smorta e tediata e a me, accoccolata sul gradino sotto al sole, sta prendendo sonno... Ed ecco la prima scossa: dal gigantesco imbuto di via Emanuele Filiberto, come un'improvvisa folata di vento, irrompono sulla piazza alla spicciolata persone vocianti che corrono e sbandano al punto che un paio di loro ruzzolano a terra per poi rialzarsi tese e allarmate, smarrite in volto. Ma è come un'increspatura che subito si riassorbe, e tutto ripiomba in un languore sereno, chiaro e vischioso.
Dopo una manciata di minuti, all'improvviso, il quadro accelera di nuovo bruscamente. Si riversa davanti a me, come esplosa in ogni direzione, una nuova ondata di manifestanti atterriti. Urla di panico e toni concitati attraversano l'aria. Io osservo stranita e ancora intorpidita, ma basterà la frazione di secondo successiva per farmi schizzare lucidissima in piedi come una molla nel vedermi venire addosso, nere mosche gigantesche a ruota degli altri, gli incappucciati armati di bastoni e aste di bandiere e pezzi di corregge che oddio, forse saranno pure piedi di porco, che ne so, e subito appresso tre o quattro autoblindo della Guardia di Finanza e dei Carabinieri che prendono possesso della piazza spazzandola con gli idranti.
In un attimo lo scenario è radicalmente mutato. La gente si disperde, si volatilizza, dello slargo rimangono padroni i blindati, mute bestie enormi e minacciose, che scorrazzano ingaggiando una sorta di corrida con gli incappucciati, sciame di insetti che si ritira precipitosamente per tornare fulmineo alla carica tirando sassi e altri corpi contundenti, e petardi, e bombe carta, e poi di nuovo velocissimamente ritirarsi sfrecciando accanto a me, che son rimasta sola e totalmente esposta sotto al semaforo, al bordo del terreno di scontro.
Assisto paralizzata, incredula, ipnotizzata, alla scena surreale che mi si dispiega davanti agli occhi, coi blindati che puntano a riconquistare il territorio e tentano di mettere in fuga i teppisti senza troppi riguardi, inseguendoli, sollevandoli da terra coi musi, e i teppisti che volano, ricadono, si rialzano come molle, si avventano sui mezzi, in una sorta di coreografia furiosa e orribilmente bella. E nella bolla di vuoto permeato di silenzio si ode il cadenzato rimbombo secco e osceno dei lacrimogeni sparati a ripetizione, cupo come rintocco di campana a morto, insostenibile come il rumore di una fucilazione.
Non ho mai assistito ad un così sfrenato spettacolo del Male, alla declinazione di una violenza tanto intensa e selvaggia, automatica, che corre dagli uni agli altri come scariche tra i due poli di una pila, costantemente alimentate e rinnovate e rinvigorite da un'effusione di energia sanguinaria, primordiale, che sembra aver azzerato secoli di progresso ed evoluzione umana per far regredire gli attori del dramma a cavernicoli in lotta con mammouth. E' uno spettacolo orripilante e seducente, se resto ancora lì a godermelo finirò male, ma non riesco a decidermi a muovermi.
Ma poi mi sovviene Angie, e la sua preoccupazione per me, il suo avvertimento "vieni via se ci sono casini" e allora mi riscuoto. Vengo via per lei, perché l'ho promesso a lei.
Il tempo di tagliare un angolo della piazza esponendomi come bersaglio al fuoco incrociato dei guerriglieri e già sono tornata sulla terra. Non faccio in tempo a toccare incolume il marciapiede dove c'è il presidio degli indignati che scandiscono disperati, a palme levate, "Non violenza! Non violenza!" che già mi tremano le gambe. Ho bisogno di sentire la voce delle persone che amo, la mia famiglia, i miei amici. Piena di angoscia prendo il cellulare e chiamo i miei figli. Mi risponde il diciottenne. Piangendo gli dico che sono in salvo, che non mi è successo niente, che benedico il Dio che non prego più perché lui non è lì in quella bolgia d'inferno. Mio figlio, in un buffo rovesciamento dei ruoli, mi rassicura paterno "va bene, mamma, ma adesso stai tranquilla. Non ti è successo niente, ormai è finita, su, su, stai tranquilla."
Attacco con lui e messaggio Angie: "Guerriglia. Cariche. Me so' data, tutt'apposto" proprio mentre, percorrendo il controviale di Via Carlo Felice, scorgo con la coda dell'occhio grappoli di incappucciati rimpiattati in ogni angolo dei giardini adiacenti e, in fondo, sul sagrato della basilica di Santa Croce in Gerusalemme, un altro corposo assembramento di persone e svariati pullman della Celere.
Altro che a posto. Sono in trappola, circondata da tre lati. Mi sento boccheggiare, mentre un freddo terrore mi attraversa il corpo. Alla mia sinistra San Giovanni è off limits, e la metastasi nera degli incappucciati ha infettato la zona oltre le mura alle mie spalle e quella di Santa Croce alla mia destra. Posso solo andare avanti, verso il centro, cercando un varco tra i palazzi, e senza la sicurezza che i teppisti non abbiano preso possesso anche di quella zona. Angie frattanto mi rimessaggia incalzandomi: "Ma sei a casa?"
Mi faccio coraggio e rispondo frettolosa: "No, sono ancora per via. Ma via via, tranquilla"; e poi mi viene l'impulso di scrivere anche alla Volpe: "Wow, il G8 dal vivo. Che coglioni 'sti black bloc. Che smaltita."
Nel frattempo, sorretta da quell'invisibile filo di amore, riesco pure a questionare con un paio di questi delinquenti, che, caschi in mano, a capo scoperto stanno tornando diligentemente verso il campo di battaglia apostrofati a male parole da gruppetti di manifestanti indignati. Fuori dalla loro batteria da combattimento sembrano davvero piccoli e vigliacchi, e invitati al corpo a corpo da un paio di baldanzosi montanari No Tav si allontanano veloci con la coda tra le gambe.
"Coglioni! Coglioni! Siete dei coglioni!" strillo. "Siete più coglioni delle BR, che si sono fatte manipolare dai servizi segreti deviati!". I ragazzini si voltano a guardarmi corrucciati, borbottando qualcosa a mezza bocca, ma non hanno il coraggio o la voglia di venirmi ad affrontare. "Brava la signora!" urla la piccola folla.
Rifrancata mi infilo nel reticolo di stradine perpendicolari al viale, sbuco indenne all'incrocio tra Via Santa Croce e Viale Manzoni, percorso solo da rari passanti in giro per le spese del sabato sera, e da lì raggiungo in breve il solito, colorato e rassicurante caos etnico di Piazza Vittorio. Le immagini di ferocia viste solo un quarto d'ora prima, le nuvole di fumo bianco dei lacrimogeni, le grida degli indignati, il rumore degli spari, sembrano un mondo lontano, qualcosa che ho visto in sogno.
Nel frattempo mi è arrivato l'ultimo messaggio di Angie (cara Angie), che mi prega di farle uno squillino non appena metto piede in casa: "Son fifona!"
Ora sono preoccupata per Gap e Luz e sto per mandar loro un messaggio. Ma non ce n'è bisogno, perché mentre smanetto sul cellulare li rincontro miracolosamente sotto i portici. Ho una reazione di assoluta felicità, di totale sollievo. Il loro è invece permeato dalla preoccupazione per le figlie che sono rimaste indietro e si sono prese i lacrimogeni. Una delle due, quella che mi hanno presentato solo poche ore prima, è ancora bloccata al Colle Oppio.
Stare con queste due splendide persone, piene di giusto sdegno per ciò che è successo e di umanità, mi aiuta a rinfrancarmi. Con loro facciamo analisi a caldo e ragioniamo di quello che è stato, del perché è stato, di quello che non ha funzionato, di quello che si dovrebbe fare. Poi chiamiamo ciascuno i propri cari: Luz la figlia dispersa, io la mia Angie. Ora è davvero finita.
Poi Gap mi consiglia di andarmene a casa in fretta, perché è convinto che "quelli" potrebbero arrivare fin qui, dove siamo noi. In serata scoprirò che purtroppo aveva ragione.
Ci salutiamo. Pur col pensiero a tre chilometri di distanza, Luz è amorevole, solare. Il suo abbraccio stretto e caldo, che si mescola al mio, è una delle cose preziose di questo giorno che si staglieranno nella mia memoria e contrasteranno con forza la banalità del Male a cui ho assistito.
Per finire, quando sono già in macchina, mi arriva il messaggio della Volpe. Chiede come sto, come stanno gli altri. "Fatemi sapere." Sta vedendo le immagini dallo schermo del pc, immagini di scontri ed incidenti impressionanti, di cui io sono ancora all'oscuro, immagini che danno un'angoscia profonda.
E allora il filo nero del male e quello bianco del bene, che hanno proceduto dentro di me in parallelo per tutto il pomeriggio, si separano, e l'uno - quello dei sentimenti, dell'emozione, della tenerezza dell'umanità - che ha incalzato l'altro rispondendo colpo su colpo - prevale.
Con me che fermo la macchina, piglio il cellulare e faccio un'ultima telefonata.
Uomini battono bestie 1 a 0.




martedì 18 ottobre 2011

Piazza San Giovanni, 15 ottobre/1

Allora.
Son tre giorni che ne parlo ininterrottamente, con famiglia, amici, con interlocutori presenti fisicamente o al telefono o virtuali.  Ho visto molte cose dal vivo, molte altre ne ho sentite dai racconti di chi è andato via dopo di me, o che abita nella zona, altre ancora ne ho apprese dagli articoli e dai video dei quotidiani on line. Ho ascoltato tante ricostruzioni, analisi, punti di vista. Li condivido praticamente tutti, ciascuno racconta il suo pezzo di verità. Per cui non vedevo come aggiungere anche le mie parole al grande fiume che scorre da più di quarantott'ore sull'argomento. Non sono una notista politica, non so argomentare in modo elaborato, o anche solo originale, per apportare ulteriori contributi alla discussione.
Però parlare aiuta la riflessione, calma l'ansia. Quando ero piccola mio padre mi diceva, quando facevo un brutto sogno "raccontalo, così ti passa l'impressione" e io, allora, racconto.

All'una e un quarto del pomeriggio di un sabato smagliante come solo a Roma possono esserlo i sabati d'ottobre io, da brava entusiasta quale sono, cammino solitaria ed emozionata verso piazza della Repubblica, con il walkman in una mano (non ho un Ipod, sono retrograda anche in questo), nelle orecchie le cuffiette che sparano a tutto volume Canzone Popolare di Ivano Fossati, e gli occhi che scrutano in sintonia con la musica le facce della gente che già riempie molte aree ed interstizi dello spazio disponibile. Ho appuntamento all'una e mezza con Ilaria, un mio contatto di FB, sotto i portici all'altezza dell'ottica Vasari, ma ho anche ricevuto le coordinate del punto di ritrovo di Gap e Luz e sono piena di euforica anticipazione all'idea di incontrarli, loro che, dopo una prima conoscenza "concreta", ho preso la consuetudine di incrociare sempre sul web, e che fanno parte della cittadella  del mio spirito dove dimorano le presenze che mi sono più care in questo strano e delicato momento della mia esistenza. E l'abituale velo d'ansia posato sul mio petto è dovuto solo alla mia cronica insicurezza nel voler gestire tutte e due le cose insieme e nel timore di non esserne in grado, di restare delusa nelle mie aspettative di bambina festante per non riuscire a individuare gli uni nella massa (anche se so per esperienza che ci si può ritrovare senza difficoltà anche nei cortei più affollati)  e nel contempo nel fare una scortesia all'altra ritardando all'appuntamento. Le preoccupazioni reali, invece, quelle che mi hanno manifestato amici e conoscenti, per i disordini annunciati, proprio non mi sfiorano, sopraffatte dal mio abituale egocentrismo, dalla mia solita infantile attitudine a sostituire alla realtà esterna la mia personale concezione di essa, senza capacità di stabilire contorni né confini, a tal punto da renderla indistinta dal mio mondo interiore.
L'immediata constatazione che mi colpisce la mente passando attraverso le mie pupille sgranate è quella che raramente ho visto così tanti giovani ad una manifestazione, e sì che negli ultimi dieci anni ne ho fatte in quantità, e le più svariate. La piazza è piena di ragazzi - tra cui pure tanti palesemente studenti minorenni delle superiori - vestiti e acconciati in tutte le fogge, dalle zecche (si dirà così?) coi capelli rasta e i vestiti multicolore ai trentenni con le Timberland e il maglioncino color pastello. Molti seduti sulle gradinate dei portici, sereni, intenti a chiacchierare, telefonare, mangiare un panino coi volti distesi rivolti al sole. Ma ci sono anche i cosiddetti rappresentanti della società civile, gente più matura con bandiere e striscioni di sigle sindacali, di comparti lavorativi o partiti di sinistra ma anche con cartelli autarchici - mi farà sorridere il gruppuscolo di donne che incontrerò sedute sul marciapiede su Viale Manzoni all'altezza del Santa Maria, con fiocconi di cartapesta rosa in testa e il cartoncino scritto col pennarello che recita "massa-ia critica" -, e poi parecchie coppie borghesi, famiglie, mamme e papà coi passeggini o con bambini tenuti per la mano, rassicurante segnale di non belligeranza da qualche anno consuetudinario nelle manifestazioni, a demarcare la distanza con l'epoca in cui partecipare a cose simili poteva davvero costituire un pericolo. Ci sono  i soliti tizi originali sui trampoli, o travestiti da politici, tra i quali registro con poca attenzione e quasi totale disinteresse solo Berlusconi e La Russa. Noto anche un drappello di invalidi in carrozzina che son qui per protestare contro la miseria delle loro pensioni. Non vedo gli incappucciati, il massimo dell'audacia provocatoria è costituito dal ragazzo che arriva vestito da V, colla sua maschera da Guy Fawkes calata sul viso (ne vedrò altri nel corso del corteo), al quale qualcuno grida "magari fossi vero"!, e il clima mi sembra tutt'altro che minaccioso. Anzi.
All'ottica Vasari Ilaria ancora non la scorgo, e allora mi rituffo nella piazza per attraversarla fino alla parte opposta, dove ci dovrebbero essere Gap e Luz.
Eccoli! Ci abbracciamo sorridenti, trovando spontaneamente una confidenza che anche il contesto incoraggia. Parlottiamo un po' delle nostre comuni conoscenze, scherziamo sui parrucchieri cinesi che imbiondiscono donne di mezz'età un po' fuori di testa, chiacchieriamo dei miei deliri sul mio blog, mi presentano una delle loro due figlie, indi ci diamo appuntamento per un futuro molto prossimo, ci abbracciamo a lungo e strettamente, e poi io li saluto e vado a cercarmi di nuovo l'altra amica.Quando risalgo gli scalini del portico sono in ritardo di un quarto d'ora, ma punto sulla possibilità che lo sia anche lei. Dopotutto viviamo a Roma, il luogo dove gli orari sono tutt'al più una vaga indicazione di massima.
Nel frattempo comincio a mandare SMS ad Angie, che sta lavorando a distanza di un paio di centinaia di chilometri e alla quale ho promesso di manifestare anche in suo nome. Dopo il secondo o terzo scambio mi telefona, partecipe del mio entusiasmo e insieme inquieta;  e per buona sorte il mio contatto con lei, tra messaggi e chiamate, non si interromperà per tutto il pomeriggio, aiutandomi a distanza come un influsso benefico. Mando anche a Volpe un messaggio teneramente cretino che parla di "giornata magnifica", "splendida atmosfera", "bellissimi giovani". Poi, constatando che si son fatte le due e un quarto, ne mando uno pure ad Ilaria per dirle che forse quel buco di un quarto d'ora non ci ha fatto incontrare, al che lei mi risponde dispiaciuta "Ti abbiamo aspettato! Peccato". Pazienza. Così, sciolta da ogni impegno, mi accingo a sfilare in splendida solitudine. Che poi è quel che ho fatto spesso, e che non mi spiace nemmeno.
Il serpentone di persone si è già messo in movimento da un po', quando io comincio a fendere la folla cercando di risalire la corrente fino alla testa del corteo. Non appena svoltata su Via Cavour scopro in alcuni petardi accesi alle ali del corteo la prima sbavatura nel quadro allestito dalla mia immaginazione, ma la gente intorno a me sembra così tranquilla che anch'io cerco di non farci caso. A fatica mi faccio largo e guadagno terreno, superando quella prima discrepanza.
Mi accorgo presto che la sfilata è composita e disomogenea. Ogni settore pare scollegato dall'altro. A punti di intensa concentrazione di folla si alternano ampi spazi di vuoto. Passo avanti a molti striscioni, ascolto qualche raro slogan che si alza improvviso per poi un momento dopo affievolirsi fino a spegnersi. Si cammina per lo più in silenzio o chiacchierando col vicino sorridenti. La stragrande maggioranza dei marciatori sembra composta da persone inoffensive e anzi persino troppo miti nella circostanza, più assorte a godersi lo splendido sole e il caldo che vogliose di esprimere la loro indignazione.
All'altezza di piazza Esquilino raggiungo un paio di spezzoni più organizzati, quello di Freedom Flotilla e quello, corposo, dei Cobas, i quali dispongono tutti e due di un efficiente servizio d'ordine tramite il quale con  gentilezza e determinazione circondano e proteggono i loro membri. Da lì è tutta discesa lungo via Cavour, per cui alzando la testa posso vedere quanta porzione di corteo ho ancora da superare. Tanta, quanta non ne credevo.
Non appena via Cavour assorbe l'innesto di Via Giovanni Lanza vedo però anche dell'altro. Due colonne di intenso fumo nero che si levano dal lato destro della strada. E insieme sento le sirene e vedo due autobotti dei vigili del fuoco che si precipitano verso due incendi. Sono le prime due macchine bruciate, le prime devastazioni che vedrò nel pomeriggio. Due alte e spesse lingue di fuoco le consumeranno in pochi minuti. Della seconda si è incantato il clacson, e il suono echeggia insostenibile nel silenzio attonito che scende sul corteo, rotto solo da quel lamento ossessivo e dalla voce del pompiere che col megafono ci grida di spostarci tutti verso il lato sinistro per ragioni di sicurezza. La gente esegue senza sbandarsi, composta e diligente come una massa di collegiali beneducati, senza mostrare panico o isteria, anzi, osservando la scena con curiosità e distaccato interesse. Molti scattano foto col cellulare. Io mando un altro messaggio ad Angie per informarla dell'accaduto. Le dico che per ora comunque siamo incolumi. Forse la sto prendendo sottogamba, ma nessuno intorno pare più reattivo di me. E' più presente alla realtà Angie, che dal cellulare mi esorta ad andare via di corsa se cominciano casini.
Oltrepasso la zona senza rendermi conto delle ulteriori distruzioni: altre macchine coi finestrini infranti, cristalli delle porte degli hotel lordati di scritte, vetri delle banche spaccate, e l'Elite, il negozio di alimentari dove anch'io sono andata tante volte a far compere, semi sfondato nelle vetrine e saccheggiato, le commesse terrorizzate. Sottovalutando, forse per una strana forma di autodifesa emotiva, l'accaduto, senza domandarmi dove sono gli autori di questi vandalismi né allarmarmi per la loro possibile presenza ancora nei paraggi, mi affretto verso largo Corrado Ricci, e poi conquisto il selciato di via dei Fori Imperiali.
Lì, fatto un altro centinaio di metri, scopro l'arcano. Davanti a me, in un blocco scuro compatto ordinato e minaccioso, stanno un centinaio o poco più di sedicenti manifestanti; e tali devono essere, manifestanti, perché hanno anche il loro camion da cui una ragazza con un microfono spara discorsi farneticanti  e uno striscione rosso, in una formazione identica a tutte le altre compagini del corteo. Solo che loro hanno felpe nere, pantaloni neri, caschi neri, passamontagna. Una visione inquietante, soprattutto associata alle devastazioni che si son lasciati alle spalle. La ragazza parla con enfasi delle azioni "dimostrative" - così le chiama, "dimostrative" - che hanno appena compiuto, dichiara che han fatto quel che hanno voluto in piena autonomia perché nessuno è in grado di fermarli né di veicolarli, alludendo alla mancanza di regie esterne da parte di infiltrati nel loro movimento. Gli incappucciati sfilano composti, con le membra rilassate, in uno straniante contrasto con la disturbante minacciosità del loro abbigliamento. Fa caldo, parecchi sudano, e il dettaglio pare restituirli ad una comune matrice di umanità col resto dei partecipanti che li circondano, apparentemente senza notarli, distogliendo lo sguardo da loro.
Io esito, dapprima sinceramente impressionata da quella formazione a testuggine, da quella macchia brulicante di guerrieri urbani. Poi, vinta da uno strano distacco dalla concretezza della scena, vado loro a ridosso e comincio a fotografarli. Come se fossero animali allo zoo. Loro lasciano fare. Aleggia nell'aria la loro aggressività repressa, trattenuta, ma capisco che in questo momento non si scatenerà. Mi sembra di essere entrata nella gabbia dei leoni, provo un senso di timore e di esaltazione, insieme a quella strana sensazione di irrealtà. Non è possibile che siano davvero pericolosi, mi dice una voce dentro di me, altrimenti la polizia li avrebbe accerchiati, altrimenti gli altri manifestanti scapperebbero. Non possono essere stati loro ad aver compiuto i vandalismi di cui ho visto le palesi tracce, manca il rapporto di causa ed effetto, manca la prova dei sensi. Forse è un sogno. Alcuni di loro per il caldo si sfilano il passamontagna, cominciano a cadere i cappucci delle felpe, e si scoprono teste di ragazzini, gote imberbi di sedicenni. Qualcuno si passa bottigliette d'acqua, e beve calando appena il passamontagna, in un gesto che mi illude che siano inoffensivi. Quasi che, da mostri da combattimento come mi son parsi in primo momento, si tramutassero in quel gesto in miei simili, pure goffi per quella mascherata, stanchi di marciare sotto al sole con quegli indumenti pesanti che ne attirano i raggi, che hanno sete, e bevono come me, che hanno bocca, e mani, come me.
(1 - continua)




sabato 15 ottobre 2011

Piazza della Repubblica, 15 ottobre

Oggi vado in piazza.
Come tante altre volte in passato, e come forse tante anche in futuro.
Per non essere sola.

Le città e gli scambi. 2

A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose uno dell'altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s'incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano.
Passa una ragazza che fa girare un parasole appoggiato alla spalla, e anche un poco il tondo delle anche. Passa una donna nerovestita che dimostra tutti i suoi anni, con gli occhi inquieti sotto il velo e le labbra tremanti. Passa un gigante tatuato; un uomo giovane con i capelli bianchi; una nana; due gemelle vestite di corallo. Qualcosa corre tra loro, uno scambiarsi di sguardi come linee che collegano una figura all'altra e disegnano frecce, stelle, triangoli, finché tutte le combinazioni in un attimo sono esaurite, e altri personaggi entrano in scena; un cieco con un ghepardo alla catena, una cortigiana col ventaglio di piume di struzzo, un efebo, una donna-cannone. Così tra chi per caso si trova insieme a ripararsi dalla pioggia sotto il portico, o si accalca sotto un tendone del bazar, o sosta ad ascoltare la banda in piazza, si consumano incontri, seduzioni, amplessi, orge, senza che ci si scambi una parola, senza che ci si sfiori con un dito, quasi senza alzare gli occhi.
Una vibrazione lussuriosa muove continuamente Cloe, la più casta delle città. Se uomini e donne cominciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma diventerebbe una persona con cui cominciare una storia d'inseguimenti, di finzioni, di malintesi, d'urti, di oppressioni, e la giostra delle fantasie si fermerebbe.

venerdì 14 ottobre 2011

Innamorarsi

Io pensavo alla fanciulla. La mia carne aveva dimenticato il piacere, intenso, peccaminoso e passeggero (cosa vile) che mi aveva dato il congiungermi a lei, ma la mia anima non aveva dimenticato il suo volto, e non riusciva a sentire perverso questo ricordo, anzi palpitava come se in quel volto risplendessero tutte le dolcezze del creato.
Avvertivo, in modo confuso e quasi negando a me stesso la verità di quanto sentivo, che quella povera, lercia, impudente creatura che si vendeva (chissà con quanta proterva costanza) ad altri peccatori, quella figlia di Eva che, debolissima come tutte le sue sorelle, aveva tante volte fatto commercio della propria carne, era tuttavia un qualcosa di splendido e mirifico. Il mio intelletto la sapeva fomite di peccato, il mio appetito sensitivo l'avvertiva come ricettacolo di ogni grazia. E' difficile dire cosa provassi. Potrei tentare di scrivere che, ancora preso dalle trame del peccato, desideravo, consapevolmente, di vederla apparire a ogni istante, e quasi spiavo il lavoro degli operai per scrutare se dall'angolo di una capanna, dal buio di una stalla, apparisse quella figura che mi aveva sedotto. Ma non scriverei il vero, oppure tenterei di porre un velo alla verità per attenuarne la forza e l'evidenza. Perché la verità è che io "vedevo" la fanciulla, la vedevo nei rami dell'albero spoglio che palpitavano leggermente quando un passero intirizzito volava a cercarvi rifugio; la vedevo negli occhi delle giovenche che uscivano dalla stalla, e la udivo nel belato degli agnelli che incrociavano il mio errare. Era come se tutto il creato mi parlasse di lei, e desideravo, sì, rivederla, ma ero pur pronto ad accettare l'idea di non rivederla mai più, e di non congiungermi mai più con lei, purché potessi godere del gaudio che mi pervadeva quel mattino, e averla sempre vicina anche se fosse stata, e per l'eternità, lontana. Era, ora cerco di capire, come se tutto l'universo mondo, che chiaramente è quasi un libro scritto dal dito di Dio, in cui ogni cosa ci parla dell'immensa bontà del suo creatore, in cui la umile rosa si fa glossa del nostro cammino terreno, tutto insomma, di altro non mi parlasse se non del volto che avevo a mala pena intravisto nelle ombre odorose della cucina. Indulgevo a queste fantasie perché mi dicevo (o meglio non mi dicevo, perché in quel momento non formulavo pensieri traducibili in parole) che se il mondo intero è destinato a parlarmi della potenza, bontà e saggezza del creatore, e se quel mattino il mondo intero mi parlava della fanciulla che (per peccatrice che fosse) era pur sempre un capitolo del gran libro del creato, un versetto del grande salmo cantato dal cosmo - mi dicevo (ora dico), che se questo avveniva non poteva non far parte del grande disegno teofanico che regge l'universo, disposto a modo di cetra, miracolo di consonanza e di armonia. Quasi inebriato, godevo allora della presenza di lei nelle cose che vedevo, e in esse desiderandola, nella vista di esse mi appagavo. E pure sentivo come un dolore, perché al tempo stesso soffrivo di un'assenza, pur essendo felice di tanti fantasmi di una presenza. Mi riesce difficile spiegare questo mistero di contraddizione, segno che l'animo umano è assai fragile e non procede mai dirittamente lungo i sentieri della ragione divina, che ha costruito il mondo come un perfetto sillogismo, ma di questo sillogismo coglie solo proporzioni isolate e sovente disconnesse, donde la nostra facilità a cadere vittima delle illusioni del maligno. Era illusione del maligno quella che quella mattina mi rendeva così commosso? Penso oggi che lo fosse, perché ero novizio, ma penso che l'umano sentimento che mi agitava non fosse cattivo in sé, ma solo in riferimento al mio stato. Perché di per sé era il sentimento che muove l'uomo verso la donna affinché l'uno si congiunga con l'altra, come vuole l'apostolo delle genti, ed entrambi siano carne di una sola carne, e insieme procreino nuovi esseri umani e si assistano mutuamente dalla gioventù alla vecchiaia. Solo che l'apostolo così parlò per coloro che cercano il rimedio alla concupiscenza e a chi non voglia bruciare, ricordando però che ben più preferibile è lo stato di castità, a cui io monaco mi ero consacrato. E quindi io pativo quella mattina ciò che era male per me, ma per altri forse era bene, e bene dolcissimo, per cui ora capisco che il mio turbamento non era dovuto alla pravità dei miei pensieri, in sé degni e soavi, ma alla pravità del rapporto tra i miei pensieri e i voti che avevo pronunciato. E quindi facevo male a godere di una cosa buona sotto una certa ragione, cattiva sotto un'altra, e il mio difetto stava nel tentare di conciliare con l'appetito naturale i dettami dell'anima razionale. Ora so che soffrivo del contrasto tra l'appetito elicito intellettivo, dove avrebbe dovuto manifestarsi l'imperio della volontà, e l'appetito elicito sensitivo, soggetto delle umane passioni. Infatti actus appetitus sensitivi in quantum habent transmutationem corporalem annexan, passiones dicuntur, non autem actus volutatis. e il mio atto appetitivo era per l'appunto accompagnato da un tremore in tutto il corpo, da un impulso fisico a gridare e ad agitarmi. Ma la mia anima razionale era in qual mattino sopita dalla stanchezza la quale teneva a freno l'appetito irascibile, che si rivolge al bene e al male in quanto termini di conquista, ma non l'appetito concupiscibile, che si rivolge al bene e al male in quanto conosciuti. A giustificare la mia irresponsabile leggerezza di allora dirò oggi, e con le parole del dottore angelico, che ero indubbiamente preso di amore, che è passione ed è legge cosmica, perché anche la gravità dei corpi è amore naturale. E da questa passione ero naturalmente sedotto, perché in questa passione appetitus tendit in appetibile realiter consequendum ut sit ibi finis motus. Per cui naturalmente amor facit quod ipsae res quae amantur, amanti aliquo modo uniantur et amor est magis cognitivus quam cognitio. infatti io ora vedevo la fanciulla  meglio di quanto l'avessi vista la sera prima, e la capivo intus et in cute perché in essa capivo me e in me essa stessa. Mi chiedo ora se quello che provavo fosse l'amore di amicizia, in cui il simile ama il simile e vuole solo il bene altrui, o amore di concupiscenza, in cui si vuole il proprio bene e il mancante vuole solo ciò che lo completa. E credo che amore di concupiscenza fosse stato quello della notte, in cui volevo dalla fanciulla qualcosa che non avevo mai avuto, mentre in quella mattina dalla fanciulla non volevo nulla, e volevo solo il suo bene, e desideravo che essa fosse sottratta alla crudele necessità che la piegava a darsi per poco cibo, e fosse felice, né volevo chiederle più nulla ma solo continuare a pensarla e vederla nelle pecore, nei buoi, negli alberi, nella luce serena che avvolgeva di gaudio la cinta dell'abbazia.

mercoledì 12 ottobre 2011

La ragazza che giocava con il fuoco

E' inutile, non ce la possiamo fa'. Facciamoci un esame di coscienza, Cri, ed ammettiamo la nostra assoluta inadeguatezza in materia. Se uno nasce tondo non può morir quadrato. Accettiamoci, e accogliamo con serenità la presa d'atto della nostra penuria: questa potenzialità ci manca del tutto. Siamo fallate, orbe di alcuni utili accessori, siamo il modello base, il grado zero. 
Lo so, tu scalpiti, testarda, avida e volitiva come sei, anche perché tu le palle ce le avresti; ma dentro a questa donna dissociata ci sono pure io, che invece non so' nemmeno in grado di acchiappar farfalle col retino o granchi col secchiello, e ti intralcerei in maniera catastrofica. Rassegnati. Non è colpa mia se a te t'hanno rinchiuso e hanno mandato in giro solo me per tutta la vita. Mi dispiace, ahò, che te posso fa'? Ammazzarmi per farti un favore non posso, farei fuori anche te. E con l'occasione lo rammento pure a te, eh. Ti venisse qualche strana idea in testa.
Però, dai, su, ora non fare il muso. Dai, girati e, ahia, non mi graffiare. Mordermi non mi morderai, oggi, vero? Che oltretutto ti sei appena saziata, almeno in una delle tue golosità. Il nostro amico gelataio bengalese ci ha appena fatto da Fassi un cono da tre euro al prezzo di due: non ti pare già soddisfacente come forma di compensazione? Almeno un pochino?

Impiegati

Il mio nuovo collega è nato lo stesso giorno dello stesso mese dello stesso anno di mio marito, e non gli somiglia manco un po', se non negli occhiali e negli occhi che mi osservano indulgenti e divertiti mentre mi distraggo, bamboleggio, mi incupisco, canto, mi agito, mi ricompongo, vado in cielo, ricasco a culo per terra, rido, piango, taccio, sproloquio, vado fuori di testa, rientro meditabonda in me stessa, do buoni consigli, cattivo esempio, e tra uno scompenso e l'altro lavoro pure.
E' calmo e comprensivo: davanti ad ogni dimostrazione della mia irrequietezza scoppia a ridere, e ci mette così tanta empatia da farsi rosso in viso per lo sforzo.
E' un uomo colto, sensibile, con interessi e legami stretti e molteplici col mondo dell'arte.
Gli piace la musica italiana degli anni '70. Ieri pomeriggio abbiamo fatto una scorpacciata dal tubo di Patty Pravo, Ron ed Ornella Vanoni. Quando siamo arrivati a Massimo Ranieri purtroppo si era fatto tardi. Ma ci rifaremo.
Mi fa anche un po' da psicoanalista. E' pure bravo.
Ascolta paziente e incuriosito i miei deliri, si gode l'espressione gloriosa e sofferta delle emozioni che mi passano sulla faccia in un quarto d'ora come in un cielo di marzo, ambivalenti, contraddittorie, bipolari.
Sempre ieri m'ha detto: ahahahahahah, Cri, in tanti anni non avevo mai incontrato una collega come te (e grazie, nota di Cri), altro che diciassettenne, qui stiamo ai dodicenni che scrivono a Cioè!
E m'ha schioccato un bacione in fronte.


martedì 11 ottobre 2011

Lascia stare

Eccoli, son tornati a trovarmi, i miei amici più stretti ed affezionati. I sensi di colpa.

"Stanco
tanto"
mi ha scritto qualche giorno fa il caro filibustiere che mi sta nel cuore (lo posso dire perché tanto non leggerà mai 'sto blog, perché se lo sapesse mi rimbrotterebbe per la mia melensaggine) e, Dio, quanto lo capisco.

Sono tanto stanca anch'io. Stanca di dover pagare un prezzo tanto alto per le mie insicurezze, per le mie indecisioni, per la mia incapacità di accettare amorevolmente le mie pulsioni e i miei slanci, che poi sarebbe l'unico modo per guidarli e contenerli.

Stanca di costruirmi un castello nella testa e di visitarlo in continuazione fino a scambiare quella vita per la realtà. Stanca di non riuscire a sovrapporre l'immagine anoressica che ho di me stessa con la me stessa reale. Stanca che ad ogni momento di gioia esaltante di bimba segua, inevitabilmente, lo sprofondo nell'abisso della riprovazione.

Non sono stanca di vivere cristallizzata nella mia fiaba di Bella Addormentata. Sono stanca, stanca, stanca di castrarmi rimproverandomelo continuamente.

Che poi è il modo migliore per continuare a farmici rifugiare, in un eterno loop senza speranza.

Sono stanca di stare male.



lunedì 10 ottobre 2011

Le mie parole

Ribadiamo il concetto.






Le mie parole sono sassi 
precisi aguzzi pronti da scagliare 
su facce vulnerabili e indifese 
sono nuvole sospese 
gonfie di sottointesi 
che accendono negli occhi infinite attese 
sono gocce preziose indimenticate 
a lungo spasimate e poi centellinate, sono frecce infuocate che il vento o la fortuna sanno indirizzare 
Sono lampi dentro a un pozzo, cupo e abbandonato 
un viso sordo e muto che l'amore ha illuminato 
sono foglie cadute 
promesse dovute 
che il tempo ti perdoni per averle pronunciate 
sono note stonate 
sul foglio capitate per sbaglio 
tracciate e poi dimenticate 
le parole che ho detto, oppure ho creduto di dire 
lo ammetto 
strette tra i denti 
passate, ricorrenti 
inaspettate, sentite o sognate... 
Le mie parole son capriole 
palle di neve al sole 
razzi incandescenti prima di scoppiare 
sono giocattoli e zanzare, sabbia da ammucchiare 
piccoli divieti a cui disobbedire 
sono andate a dormire sorprese da un dolore profondo 
che non mi riesce di spiegare 
fanno come gli pare 
si perdono al buio per poi ritornare 
Sono notti interminate, scoppi di risate 
facce sovraesposte per il troppo sole 
sono questo le parole 
dolci o rancorose 
piene di rispetto oppure indecorose 
Sono mio padre e mia madre 
un bacio a testa prima del sonno 
un altro prima di partire 
le parole che ho detto e chissà quante ancora devono venire... 
strette tra i denti 
risparmiano i presenti 
immaginate, sentite o sognate 
spade, fendenti 
al buio sospirate, perdonate 
da un palmo soffiate

sabato 8 ottobre 2011

Lo strano caso di Benjamin Button

Accadono cose innaturali.
Mio figlio è maggiorenne.
Mia figlia è al liceo e piglia l'autobus da sola.
Io mi sono fatta i colpi di sole dal parrucchiere.

Quest'ultimo avvenimento è senz'altro il più inaudito. Anche perché erano quasi quindici anni che mi facevo tagliare i capelli in casa da qualcuno di buona volontà a scelta tra sorella o marito. Sono sempre stata una tipa "nature", molto snob nella mia semplicità tanto insistita e ricercata quanto subita per la superiore forma di accidia, un misto tra disinteresse, tedio e scoramento, che ha sempre connotato il mio rapporto con la mia femminilità, o perlomeno con l'esibizione di essa, e che probabilmente deriva dalla cristallizzazione dell'immagine interiore di me stessa in una bambina bloccata allo stadio edipico. Che è latrice di una sensualità lolitesca totalmente anacronistica, e perciò mette ancora, come quando aveva diciassette anni, le minigonne (sempre e solo quelle), indossa calze a disegni eccentrici e colori vivaci, calza vezzose ballerine a tacco basso o scarpette alla bebé col cinturino, ma non si cura di null'altro: per cui si mangia le unghie, non porta il reggiseno, non si trucca né si tinge la chioma brizzolata.
Quest'ultima cosa anche perché ho sempre pensato alla tintura come a qualcosa di posticcio. Come a voler dare una mano di colore malamente coprente su su un muro comunque sbreccato in modo irreparabile, o su una brutta carta da parati che non si riesce a grattar via. Il classico sepolcro imbiancato.

Molti hanno tentato di tentarmi, di indurmi a cambiare idea. "Ma prova, dai; poi se non ti piace cambi!", e io mi sono sempre schermita sorridendo. Mi ostinavo, oltretutto, nella convinzione di piacermi così.

Stavolta non so invece che m'è preso. 

Tutto originò da un dialogo di lunedì mattina scorso tra due personaggi: me ed il mio capo quasinuovo.

(Il mio capo quasinuovo non è un golfino che ha fatto pochi lavaggi. E' il mio nuovo dirigente - nuovo da aprile, avendo sostituito il precedente rudere della Magna Grecia, quello dagli occhi vitrei che con buffi pigiamini, tra una cosa e l'altra, s'è intrufolato variamente nei miei sogni oltreché nella mia vita per più di vent'anni, cedendo alle mie manovre di seduzione emotiva fuori tempo massimo e dovendo perciò ritrarsi nel suo cantone con rimpianto ed ignominia - che ugualmente da più di vent'anni conosco, anche se per lungo tempo è stato un collega e non un superiore. Da cui capo quasinuovo.)

Io e il capo quasinuovo non ancora capo abbiamo litigato non appena ci siamo conosciuti e da lì non abbiamo praticamente mai più cessato di farlo. Perché abbiamo lo stesso carattere impaziente, fumante ed affettuoso, ci stimiamo parecchio, ci facciamo sangue e ci capiamo al volo. 

E forse è giunto al momento giusto. Perché, quando lunedì mi ha detto perentorio, con un tono di voce che contrastava coi suoi occhi che il taglio curiosamente orientale (lui in realtà è romano de Roma) fa sembrare sempre ridenti, "Cri, tu hai da fa' qualcosa a 'sti capelli, anzi, due: tagliarli corti e fatte i corpi de sole. Devi sembra' più signora, più grande. Così nun sei credibbile, me pari la moglie de Frankenstein, quella del film, coi capelli a onde co' la frezza bianca" io, invece di far, come al solito, transitare queste esortazioni nella testa per il tempo necessario a farle entrare da un orecchio ed uscire dall'altro, non so com'è, ho cominciato a pensarci, e mi son convinta. 

Non abbastanza, comunque, da non tirar tardi la sera in ufficio.

La mattina dopo rifaccio il percorso in corridoio verso la mia scrivania, lui mi vede da lontano e mi fa a voce altissima: "niente, eh?"
"Fa', ho fatto tardi ieri sera..."
"Oggi ce vai, però!"
"Nun c'ho manco i soldi appresso..."
 Che è, un problema di soldi? Te li presto io, ma vacce!"
"No, no, per carità, esco presto, faccio il bancomat e vado".

E così sono andata obbediente verso il mio destino. 

Alle quattro e un quarto ho messo piede dentro il negozio della parrucchiera cinese davanti a casa. Atmosfera rilassata, serena. Pieno così di genti che via via sono finite sotto le mani di Anna, la giovane titolare, o di una delle sue tre ragazze che non ho capito bene se siano legate a lei da vincoli di parentela, o di amicizia, o siano solo semplici dipendenti.

Anna è il nome italianizzato di questa donna bella dal viso duro e un po' ermetico, sempre pacata, attentissima, pronta a qualsiasi richiesta delle sue clienti e dei suoi clienti, capace di far fronte a tutte le evenienze.

Sono entrate persone fino alle sette - oltre non so, perché avevo finito e me ne sono andata - chiedendo anche trattamenti lunghi e complicati, e lei non ha rifiutato nessuna.

Lei e le sue ragazze sembrano api operose, le mani sempre in movimento, via una sotto l'altra, senza riposare mai, senza un cenno di stanchezza né di cedimento. Il muro culturale che le separa dalle loro clienti italiane, costantemente reinnalzato da un loro modo di comunicare con gesti e suoni ora dolci ora gutturali che sistematicamente innescano vivaci e soavi scoppi di risa, viene ripetutamente trapassato, senza difficoltà, da poche parole pronunciate in un buon italiano ingentilito dall'assenza del rotacismo, a cui le donne autoctone rispondono timidamente ma con gratitudine.

Io mi sono portata un libro, ma non riesco nemmeno ad aprirlo. Osservo e ascolto tutto, affascinata da quel ronzare ipnotico, suadente, rassicurante, e mi chiedo, quando arriverà il mio turno, come sarà essere manipolata da quelle piccole mani delicate e decise.

Tocca a me. Anna mi chiede di scegliere il colore delle mechés. Non ne ho idea, dico, voglio solo coprire i capelli bianchi, mi fido del tuo giudizio di esperta. Lei allora fa un gesto d'intesa e dice, in italiano perché io comprenda, ad una delle lavoranti: "allola biondo chialissimo. E fanne tante e sottili."

Dopo tocca al taglio. Arriva l'altra ragazza che mi volteggia intorno adoperando le forbici con una tale leggerezza e velocità che non si riesce a percepire il movimento delle punte.

Poi una terza mi asciuga e stiracchia i capelli per quello che mi pare un tempo infinito, che mi godo ad occhi chiusi per la carezza rilassante delle sue mani. Pare uno scultore, un cesellatore. Non è mai soddisfatta, aggiusta una ciocca qui, piglia le forbici e spunta là, mi tira la testa indietro, poi avanti, con dolce determinazione. In ultimo mi rifinisce con un tocco di gel, mi spruzza abbondantemente di lacca, si tira indietro e mi dice di guardare. E' fatta.

Tutto il negozio si ferma per un attimo. Le altre clienti si danno di gomito. "Guarda la signora! I colpi di sole! Che spettacolo! Non sembra più lei!"

Io sono bionda, adesso, in testa, e rossa come un pomodoro maturo sulle guance. Non riesco a guardarmi allo specchio, davvero non mi sembro più io.

Anna sorride della mia emozione. Mi fa lo scontrino e me lo porge dicendo "Dieci anni di meno".

Subisco per un paio di giorni la festosa accoglienza da parte di colleghi, parenti e amici, di questa nuova Cri mai vista prima. Una processione di gente in preda ad una buffa euforia commenta con toni coloriti il mio nuovo stato di donna rinnovata nell'immagine, dagli uscieri del palazzo dell'ufficio al ragazzo dei bagni, dall'amico di mio figlio ai miei amici virtuali. Molti accorrendo a lasciare le loro affettuosissime osservazioni nella mia bacheca di FB, molti in messaggio privato. Luz in tutti e due i posti, lì e qui (cara Luz)!

Il commento più bello lo fa Vincenzo, il mio amico sardo di pochissime parole: "è come se ti fossi ricordata di te, e ora guarda che risultati".

E da lì capisco che io, che non volevo tingermi perché non volevo diventare finta, invece ho tirato fuori qualcosa di autentico da me stessa. Che questa nuova Cri somiglia più a me di quella di prima.

Ad ogni modo molti ripetono le parole di Anna, cercando di convincermi di avere, ora, dieci anni di meno.

Dunque ora ne ho sette, e sono pressappoco così,




o così.




O magari così.




lunedì 3 ottobre 2011

Io come farò

Mi sento fuori posto
Faccio fatica a crescere
Ripeto la mia parte ma ormai
Non so più crederci
Questa bambina mi nasce dentro
Non ha pietà
Prende i miei giorni e li traduce
In fantasia
Un sorriso pagliaccio che canta
Posso inventarlo io
Una storia più ricca e felice
Posso inventarla io
Ma poi
Ma poi non lo so
Io come farò a inventarmi te 



Un interno con stelle di carta
Posso inventarmi io
La magia di un incontro rubato
Posso inventarmi io
Ma poi
Ma poi non lo so
Io come farò a inventarmi te 







Anche perché poi se no chi me li taglia i capelli, stasera?


:*

Woman


For largest Woman's Hearth I knew -
'Tis little I can do -
And yet the largest Woman's Heart
Could hold an Arrow - too -
And so, instructed by my own,
I tenderer, turn me to.


Per tutti i cuori di Donne speciali che ho sentito battere oggi.