venerdì 31 agosto 2012

Pioggia


Come quelle delle ossa, anche le fratture dell'anima si rimarginano.
Resta al loro posto una cicatrice che si farà sentire appena, come il dolore ai calli, solo quando cambia il tempo.

(Io riparto. Buon week end a tutti quelli che mi sono cari che passeranno di qui.)

mercoledì 29 agosto 2012

A come abusivo

Potresti per piacere uscirmi dalla testa e trovarti un altro posto dove stare? Lo vedi da te, non c’è tanto spazio, è piena di ciarpame e non c’è ragione di averti ospite nel sonno ogni notte quando poi al risveglio non ci sei. E’ irritante: faccio una gran fatica a non pensarti, impegno con dovizia tutto il giorno, faccio gente vedo cose (no, forse è il contrario, vabbè) e poi basta un nanosecondo di distrazione e zac! Salti fuori con un’immagine, una parola, un colore. A tradimento. Lo so, mica è colpa tua, è solo che il pensiero di te si sè intrufolato qua dentro e sta facendo confusione, un po’ troppa forse, per uno che non conosco neanche tanto. E pure per questo mi vergogno, magari ti accorgi che oltre alle cianfrusaglie c’è pure un sacco di polvere e di ragnatele, qua dentro. Almeno dimmi, lo fa anche a te di pensare troppo forte, di sentirti come le bocce dei pesci rossi del luna park, quelle senza nemmeno la rena dentro né uno straccio di alghetta di plastica dietro cui nascondersi? La fifa blu che l’altro veda tutto, senta tutto anche dalla distanzissima e che questo pensiero inopportuno lo possa allontanare, che faccia paura, che gli dia quell’aria da perseguitato politico che fai sempre anche tu quando ti viene dietro qualcuna che non ti aggrada, “Oddìo no! Eccone un’altra…” Ecco: io quella faccia per me non la voglio, mi farebbe sentire come nei giorni peggiori, quelli in cui mi vedo l’essere più repellente della terra a pari merito solo col Varano di Comodo. Per questo ti ri-chiedo, per piacere, di uscire. Come vedi se non c’è posto per me nella tua testa non vedo perché tu debba star qua troppo a lungo ché se poi venisse qualcun altro che volesse entrare come la mettiamo? Cervello e cuore non si fanno soppalcare.

Quello strano sentimento

Ieri ad un certo punto è stato quasi certo che avessi perso il cellulare.
Con tutti i numeri, e i messaggi, dentro.
Mi sono sorpresa del fatto che non sono minimamente andata in escandescenze. Anzi, quando l'ho ritrovato un po' mi è quasi dispiaciuto.
Chissà che mi sta succedendo.

martedì 28 agosto 2012

Il quartiere

Stasera ho fatto una cosa che non mi capitava da anni: un giro per il mio quartiere.
Quadrilatero di strade alla periferia del centro venuto su negli anni sessanta ruggenti del boom economico e dell'abusivismo edilizio dei palazzinari che cominciavano a mettere le mani sulla città stretto tra la storica borgata della Marranella e l'altrettanto storica zona del Pigneto, ambedue teatri di eventi epico drammatici ai tempi di Roma città aperta come le altre famose e famigerate aree confinanti della Certosa e del Quadraro: scontri, bombardamenti, rastrellamenti, resistenza partigiana.
Per cui enclave di nuove e per lo più giovani famiglie di residenti immigrati (sradicati) dalle campagne laziali, abruzzesi e molisane e dunque in larga parte vessilliferi di una subcultura contadina chiusa, egoista e beghina, ostinatamente retriva e reazionaria, riottosi a commistioni con le più antiche popolazioni delle zone limitrofe, proletari borgatari combattenti, integrati nel tessuto sociale dell'Urbe, portatori di istanze progressiste di lotta e rivendicazione, la cui influenza tracimava dai loro vicoli senza marciapiedi fino alle moderne, ordinate strade a doppia carreggiata con spartitraffico alberati al centro.
Differenze stridenti la cui evidenza si è trascinata a lungo, fino a che dei secondi, in buona parte più anziani dei primi e perciò passati prima di quelli a miglior vita, si è via via persa traccia, e il quartiere, decaduto molto rapidamente fino ad un grado di fatiscenza quasi insopportabile, è stato definitivamente colonizzato culturalmente dagli altri, diventati anziani nel frattempo.
Con robuste iniezioni di nuova immigrazione: quella dei giovani extracomunitari.
Nel multietnico versante del Pigneto, divenuto luogo trendy forse anche per la saturazione del vicino San Lorenzo, resiste ancora un residuo di vivacità civile ed intellettuale.
Dove vivo io non c'è più niente.
Saracinesche chiuse in un negozio su due. E non per ferie.
Aperte, le altre, su affastellamenti di chincaglieria cinese ammassata in spazi senza stigliature, squallidi phone center o equivoci locali di ritrovo, grottescamente affiancati a lustre vetrine di banche.
(Impressionante notare l'esponenziale aumento di filiali bancarie, inversamente proporzionale alla diminuzione di attività commerciali. )
Annunci di appartamenti in vendita affissi su ogni portone di palazzi in cortina ormai vetusti. Due o tre, su ogni portone.
Il cartello "vendesi o affittasi" troneggiante persino sulla gigantesca edicola alla fermata dell'autobus di Via Casilina, accanto all'Ufficio d'igiene, da sempre snodo principale del traffico e dei traffici.

Giro due angoli in successione, e mi ritrovo sulla strada perpendicolare alla mia, costeggiante lo spelacchiato giardinetto toponomasticamente denominato con patetica fierezza "parco Almagià", al termine della quale c'è il mio palazzo. E lì, incongrua e meravigliosa come un fiore nel deserto, trovo aperta una mescita di vini nello stesso identico punto in cui stava quando io ero bambina.
Poi, ancora più miracoloso, un antico forno ristrutturato ed ampliato dai figli degli antichi proprietari, due gemelli più o meno miei coetanei che ricordo ragazzini (terribili).
Poi il nulla.
Lì c'era un negozio di scarpe, ora c'è una serranda serrata e polverosa. Lì quel grande rivenditore di ricambi auto! Anche quello è sparito, al suo posto un magazzino. Lì l'alimentari... Lì l'elettrauto...
Buchi, serie ininterrotte di buchi, confrontati con le immagini che ho nella testa.
Una sensazione alquanto straniante.
E osservando spaurita la desolazione attorno a me capisco.
Non è colpa dei cinesi, non è colpa dei bengalesi, se il mio quartiere è diventato un paesaggio postatomico.
E' colpa, semmai, della vittoria dei "burini".
E' colpa della vittoria della cultura del "soldo", del benessere - un benessere materiale pure molto di bocca buona - che ha soppiantato la civiltà.
E' colpa del proliferare dei mastodontici centri commerciali venuti su a raggiera intorno al mio quartiere soffocandolo, e insieme a lui strozzando l'esistenza dei piccoli negozianti.
E' colpa dell'indifferenza degli immigrati degli anni sessanta, del loro rifiuto di tessere una tela di rapporti con gli altri residenti, che ha ucciso in culla la socialità e il senso di appartenenza al territorio.
E' colpa della mancanza di solidarietà di una popolazione che ha sempre e solo fatto ghetto, vivendo nel proprio alloggio cittadino come in un pied-à-terre dove non mettere radici, sempre con la testa al paese e alla "robba", inculcando a forza quest'idea anche nei propri figli nati qua.
I quali figli, ormai cresciuti, al paese non ci vogliono andare più, ma passano il tempo nello struscio inane e torpido a Via Condotti, e restano nei dintorni di casa solo per ammazzarsi di canne negli angoli delle strade più appartati.
I più impegnati, o quelli un poco più grandi, che si sposano o vanno a convivere, vengono ricacciati nelle ancor più disumane e squallide propaggini di Tor Vergata, Tor Bella Monaca, Ponte di Nona.

Ma è più comodo, e meno ansiogeno, dare la colpa agli immigrati extracomunitari.
Massì, continuiamo a mantenere in letargo il cervello.

Io, appena posso, cambio casa.




You'll be in my heart

La mia natura impressionabile e melodrammatica è tale, e tanto poca la mia dimestichezza con la gente, che il più delle volte mi capita di credere, incontrando le persone, ch'esse lasceranno un segno permanente nella mia anima.
Invece non è così.
Alcune di loro sono state fuochi di paglia, che hanno bruciato intensi e fulminei, lasciando un mucchietto di cenere che col passar dei giorni e dei mesi si è disperso al vento.
Altre sono pian piano evaporate nella mia memoria, sepolte sotto strati di realtà più recente.
Altre hanno attraversato come meteore il mio cielo interiore, talmente rapide da non lasciare quasi traccia.
Sedimenti di loro costituiscono nel mio inconscio un materiale informe di sensazioni e frammenti di ricordi che forse influenza ancora la mia essenza, ma in maniera del tutto inconsapevole e praticamente inavvertibile.

A conti fatti, le persone che si stagliano nettamente dentro di me, anche a distanza di anni, si contano sulle dita di una mano.
Tra questi ci sei tu. Ci sei sempre tu.
Tu, che sarai sempre nel mio cuore. Senza rimpianti, senza nostalgie. Che non mi manchi, perché mi hai lasciata appagata, non ferita, non illusa, non disorientata.
Che hai lasciato un segno in me. Un solco fecondo entro cui piantare nuovi semi. Un'aggiunta, una parte che io non avevo, un mattone portante della mia costruzione interiore, a cui essa tuttora si poggia.
Che non scolori mai.
Che spero di incontrare ancora, presto, di nuovo.
Buon compleanno, caro amico mio.
Ti voglio bene, per sempre.


domenica 26 agosto 2012

Summertime

Una folla multicolore, incessante, entrava lentamente nello stabilimento, con borse, palloni di gomma e altri oggetti inerenti al bagno. Si sarebbero detti i fedeli d'una misteriosa deità, che entravano nel tempio. I bagnini scalzi correvano ad aprir le cabine e a spinger nell'acqua le barche e i "mosconi" presi in affitto. Presso l'entrata, un pescatore sbatacchiava sul parapetto di pietra, con straordinaria violenza, un polpo testé pescato e ancora vivo. Si sa che con questo sistema vengono uccisi i polpi.
- Che barbara usanza! - esclamò Suares, che, con i compagni, entrava in quel momento.
- Le parrebbe anche più barbara - disse un assiduo dello stabilimento - se sapesse che quel polpo è sempre lo stesso, che viene ogni giorno pescato vivo e sbatacchiato per un certo tempo sotto gli occhi dei villeggianti.
- Come sarebbe a dire? - chiese il nostro amico.
- Ella sa - spiegò l'altro - che nessuno si fida di mangiare il pesce in uno stabilimento dove non si veda almeno un polpo ucciso sotto gli occhi dei clienti. Qui, poiché non si può ogni giorno pescare un polpo diverso, la direzione ha pensato di usar sempre lo stesso polpo, che dopo essere stato sbatacchiato per un certo tempo e prima che esali l'ultimo respiro, viene di nuovo gettato nel mare, in un recinto chiuso, dove è facile pescarlo a ogni occorrenza.
Era vero. Il povero animale, come se non bastassero gli sbatacchiamenti quotidiani della mattina, doveva spesso sottoporsi a penosi extra nel corso della giornata. Appena si presentava qualcuno e chiedeva di mangiare pesce fresco, pescato sotto i suoi occhi, il polpo veniva tratto fuori e tosto sbatacchiato per alcuni minuti sul muricciuolo. Poi, dopo essere stato sostituito con polpi venuti da Milano, era di nuovo gettato in acqua per servire in altra occasione. Ormai, il poverino sentiva dalle voci quando era giunto il momento d'esser tirato fuori e sbatacchiato. I primi tempi, appena udiva gridare "Ehi, c'è da mangiare pesce fresco?", mormorava "Ci siamo!" E si faceva piccino piccino, rimpiattandosi sui bassifondi. Ma tutto era vano. Ben presto veniva scovato, tratto alla luce e violentemente sbatacchiato sul muricciuolo, con soddisfazione della clientela. Poi, l'infelice mollusco, per abbreviare quei momenti terribili, appena sentiva chiedere pesce fresco veniva a galla spontaneamente e si metteva vicino al parapetto, con maravigliosa abnegazione. Ormai il disgraziato animale era diventato durissimo e non desiderava che di farla finita con la sua misera esistenza. Vero è che non gli mancava nulla. Anzi, per conservarlo in vita, la direzione non gli lesinava i buoni bocconi e le comodità d'ogni sorta. Ma quella storia d'esser sbatacchiato in così barbaro modo faceva passar tutto il resto in seconda linea. Ogni mattina egli diceva: "Speriamo che sia per oggi". Ma quando, dopo essere stato duramente provato, si sentiva gettar di nuovo in mare, invece che in padella, rabbrividiva pensando: "Ancora domani saremo daccapo". Qualche volta, dopo essere stato sbatacchiato, faceva il distratto e s'avviava zitto zitto verso la cucina. Ma il pescatore l'afferrava in tempo per restituirlo agli abissi marini.

giovedì 23 agosto 2012

Io la conoscevo bene

":D ma neanche col napalm ti si cancella a te :D"


Sogno di una notte di mezz'estate/replay

Ieri era il compleanno di mio padre, oggi quello di mio figlio.
In mezzo sto io, che non sono né carne né pesce.
Né madre né figlia. Solo un groviglio informe dei due. E faccio la figlia quando dovrei fare la madre, perché ho dovuto fare la madre quando avrei dovuto fare la figlia.
Un casotto.
Pensando alle mie tragicomiche catastrofi nell'ambito ho riletto il mio post di un anno quasi esatto fa, e lo riedito oggi.
Qua dentro si parla di tutti, o quasi, gli uomini significativi della mia vita: ci sono il padre, il figlio e il marito.
Speriamo vada bene a tutti e tre, con me, alla fine.
E viceversa.
(Il post lo dedico a Bruno e ad Aldo. Non me ne vogliano gli altri. E' perché il personaggio principale, prima ancora di noi, è Roma)


Qualche sera fa, per arginare la sconfortante malinconia agostana che puntuale ogni anno mi si ripropone e che si accentua al calar delle tenebre, invece di consumarmi gli occhi a srotolare vecchie conversazioni di skype od obnubilarmi il cervello guardando lo scorrere del rullo della home di FaceBook m'è venuto in testa di tuffarmi nella notte di Roma. Antica.
Così, verso le undici, ho cominciato a far le feste al consorte: "Usciamo? Mi porti al Campidoglio? Andiamo a vedere la rupe Tarpea?"
Il grande lavoratore, rincasato da poco, col boccone ancora sullo stomaco e il peso di mesi di lavoro sulle spalle, nicchiava sbuffando. Non gli andava, non gli andava proprio. Invece di rovine bimillenarie avrebbe voluto guardare, come ogni sera, gli specchi dell'armadio della camera da letto: in penombra, da supino, per quei trenta secondi necessari a chiudere gli occhi e sprofondare, da giusto qual è, nel solito sonno di piombo.
Io però non demordevo, presa dall'urgenza di sottrarmi, per una sera, al dibattermi in quella sottile e familiarissima angoscia che sentivo già salirmi come l'acqua alla gola.
Dopo più di una mezz'oretta di tiraemolla, lo streaming di Profondo Rosso sulla TV del salotto davanti alla quale si erano spaparanzati i figli con gli amici ("mamma" avevano detto "possiamo far venire a dormire da noi Simone e Carlo?" che tradotto s'intendeva "possiamo fare tutta la notte a pistolettate sulla PS3, a scorpacciate di film su TV e pc, a pancakes con sciroppo d'acero e zucchero vanigliato e Nutella e poi, in quest'ordine, a spaghettate ajo ojo e peperoncino zozzando tutta la cucina che in seguito TU pulirai, a chiacchiere sulla veranda fino a mattina inoltrata, per quindi, dopo esserci gettati di nuovo su altri generi commestibili intorno all'ora di pranzo, cadere stecchiti tutti, noi e loro, su letti e divani random oltre le cinque del pomeriggio seguente?") ha convinto il coniuge recalcitrante che era preferibile mettersi semi incosciente alla guida di uno scooterone a mezzanotte meno venti piuttosto che restare a rigirarsi nel letto sorbendosi urla da thriller ultratrentennale con il sottofondo della musichetta allucinante dei Goblin. Così siamo partiti.
Alla prima curva, sentendo l'arietta umida che mi solleticava l'artrosi cervicale nell'impatto tra le mie scapole scoperte dalla canottiera di cotone indiano e maledicendo l'adolescenziale imprevidenza di non essermi portata il giacchettino (atavica sventatezza per cui già ai tempi mi rimproverava sempre mia nonna), constatavo al contempo sulla mia pelle l'anomalia climatica di questa estate insolitamente fresca, non scontata come molte altre della mia vita passata e allora, forse, chissà, davvero potenzialmente foriera di novità atmosferiche - in senso proprio e metaforico, le quali io sto sempre protesa a fiutare come una mambo vudù - che mi ha allertata e spinta ad aprire al massimo i canali sensuali e psichici.
In un baleno, percorrendo le strade semideserte, siamo arrivati a piazza Venezia, che il mio centauro ha costeggiato parcheggiando sull'adiacente piazzetta antistante la chiesa di San Marco, di fronte allo slargo di giorno più ingolfato di Roma, che a quell'ora, vuoto e tranquillo, tra i sampietrini lustri che riflettevano le luci dei semafori e lo squarcio di cielo scuro e barocco, pareva la porta d'accesso a un'altra dimensione, incastonata tra la mole bianca del Vittoriano e, giù all'orizzonte, la sagoma del teatro di Marcello. Uno scenario che ho brevemente contemplato in compagnia di madama Lucrezia, una vecchia amica di pietra con la quale non conversavo più da parecchi anni e che mi ha fatto piacere ritrovare.
Quindi io ed il centauro, appiedati, ci siamo avviati verso il Campidoglio: superata l'Ara Coeli, abbiamo salito la scalinata tra i leoni di pietra, oltrepassando Cola di Rienzo, fino ad arrivare ai Dioscuri e al palcoscenico di una delle piazze più belle del mondo.
Davanti a tanta magnificenza il centauro ha sospirato.
"Che pena, pensare che ora qui c'è Alemanno."
"Ma chissenefrega" ho replicato io beata. "Guarda qua: a questa piazza, a Roma, Alemanno je fa un baffo."
E mentre lo dico mi avviene qualcosa dentro: sento che è vero; e che è vero anche per me, che m'accorgo improvvisamente di esser stanca, tediata, di soffrire, e di volermene un po' fare un baffo anch'io della mia angoscia; e così, improvvisamente, lì, al suono di quelle parole, tra le logge del palazzo dei Conservatori e la felice geometria delle losanghe dello splendido cortile di Michelangelo, mi cade dal petto una parte del peso che vi grava da un po' di tempo.
Per un attimo mi brillano gli occhi, il cuore mi canta.
Prendo per mano il mio ragazzone, lo tiro. "Vieni, dai, su, andiamo a vedere come sta la rupe, che fine ha fatto" e ci infiliamo nel vicoletto di fianco al Palazzo Senatorio, costeggiando le impalcature che lo cingono e che, insieme alle luci giallognole, creano un irresistibile effetto di sottosuolo riemerso da ricordi di vecchi sceneggiati TV ambientati in una Roma misteriosa e paranormale sepolti nella mia mente dalla prima infanzia. E io sempre coi sensi amplificati scruto, osservo e annoto tutto, godendomi fin dentro i pori della pelle la percezione di essere finita in Geminus, o ne Il segno del comando.
Finito il budello, usciamo sulla balconata e ci scontriamo col panorama più mozzafiato dell'universo.
Sotto di noi, deserta, immota, e tanto vicina che pare di poter stendere una mano ed arrivare a toccarla, si offre all'abbraccio dei nostri sguardi la distesa del Foro Romano in tutta la sua secolare maestosità.
L'enorme frammento delle otto colonne del tempio di Saturno, drammaticamente e fatalmente innalzate in una vertiginosa tensione ultraterrena. E intorno, a corona, il biancore del tempio di Vespasiano e dell'arco di Settimio Severo, Più in là la basilica Giulia, il tempio dei Dioscuri, il lapis niger. Sull'estrema destra la macchia scura, mistica, del bosco sacro del Palatino.
E ovunque punteggiato di chiese: San Pietro in carcere, San Giuseppe dei falegnami, la sagoma appena percepibile di quella dei Santi Cosma e Damiano. E in lontananza, verso il Colosseo, il costone su cui si erge la basilica di Santa Francesca Romana, col suo campanile medioevale.
Per un istante mi blocco e davvero trattengo il fiato, avvinta dalla sensazione di essere immersa in un oceano primordiale, fuori dal tempo e dallo spazio.
Ma poi la mia irrequietezza riprende il sopravvento, e, non appagata nemmeno da tanta meraviglia, trascino frenetica il mio compagno di scorribande su per la salita di Monte Caprino, verso l'obiettivo ultimo del mio viaggio della memoria: il giardino della rupe Tarpea, mitico sito di sommarie esecuzioni di traditori e storica meta di coppiette in fregola amorosa. Anche della nostra, ere geologiche addietro.
Lo troviamo, come ormai da molti anni, chiuso, e in più occupato da casotti prefabbricati, camion e materiale per costruzioni. Però c'è ancora, e tra i lembi dei teli verdi che ce lo occultano alla vista cogliamo scorci che ne testimoniano l'incorrotta magia, nonostante tutto.
Ridiscendiamo fino ad una panchina alle pendici della rupe, incastonata in una nicchia di freschezza immersa nel buio.
C'è una grande pace, ed un'atmosfera arcana, densa, brulicante dell'invisibile vita che per centinaia, migliaia di anni è passata su questo colle.
Restiamo a lungo seduti sul freddo marmo, sereni, ad ascoltare il silenzio gravido di vibrazioni. Parliamo anche un poco, ci viene facile in un luogo dove ogni cosa concorre a farci sentire esseri umani in armonia, legati dalle medesime intuizioni dell'inconoscibile e dall'emozione di esser sospesi insieme sul limite dell'ignoto.
Sono momenti, questi, in cui mi sento una privilegiata, per conoscere questo familiare respiro dei secoli come può solo chi nasce e cresce nell'unicità di Roma. Dolori, angosce, tutto si lenisce, davanti alla religiosa potenza del passato che è giunto sino ai miei piedi e che ora, teso come un immenso arco, mi tiene saldamente unita alle esistenze di individui lontanissimi nel tempo, antichi e favolosi. E io respiro rinfrancata una fierezza che mi dilata i polmoni e mi rimette a posto il cuore e le viscere, ricollocando me al giusto posto nel mondo.

Tornati sulla terra e nel ventunesimo secolo ridiscendiamo ancora lentamente il colle.
Davanti al panorama del Foro esito di nuovo. Sarebbe un delitto voltargli le spalle senza sostare ancora un ultimo istante. Non posso andarmene se non me ne riempio ancora un poco gli occhi.

Così di nuovo lascio errare lo sguardo, e vagare la mente. E mi viene da pensare a come il tempo ha eroso queste costruzioni monumentali. Guerre, saccheggi, accidenti atmosferici, ne hanno devastato la grandezza e compattezza, lasciando queste vestigia quale suggestiva impronta di un solenne e bellicoso splendore ineguagliabile nella storia dell'umanità.
Ma nessun cambiamento è intervenuto nel breve intervallo della mia piccola storia personale. Le otto colonne del tempio di Saturno, e tutto ciò che le circonda, sono le medesime, identiche al periodo della mia infanzia. Non una pietra si è persa. Son passati gli anni, tanti, io sono cambiata, cresciuta, invecchiata: mi sono mossa, ho agito, sperimentato, e porto il carico di ognuno dei miei movimenti, delle mie azioni, delle mie esperienze, impresso su di me.
Invece loro sono rimaste sempre lì, e, rispetto a quel breve soffio di esistenza, immutate, immutabili.

Quest'idea esaltante mi fa girare la testa. Il formidabile tuffo in questo mare di significato mi rassicura talmente da spaventarmi e farmi sentire il bisogno di ancorarmi a qualcosa di concreto. Mi chino in avanti e appoggio il mento ad un ceppo della balaustra. E mi giro verso il mio accompagnatore: ma per un attimo accanto a me non c'è più mio marito, c'è mio padre.
Sgrano le pupille. E' avvenuto davvero. Quarant'anni sono stati cancellati, azzerati in un lampo, e adesso l'immagine attuale combacia alla perfezione con un bianco e nero di allora. Non avrei mai chiesto tanto ad una notte romana. Eppure è accaduto l'insperabile, l'inconcepibile. Il tempo ha volato a ritroso, e io sono tornata bambina.




(Però poi, azz', l'attacco di artrosi cervicale m'è venuto lo stesso...)

lunedì 20 agosto 2012

Pensieri e parole

Passo di qua, lascio una traccia.
E due pensieri, due riflessioni che il fresco e l'ora notturna e il silenzio aiutano a stimolare.
Una, che - per una come me, che dà così tanta importanza ai segni - l'aver scoperto che una certa libreria ha cambiato nome e gestione è cosa degna di nota, simbolo pregno di significato, sigillo della chiusura di un'epoca della vita.

Due, che il dato critico nel confidarsi con le persone sta nell'interpretazione che ciascuno darà dell'evento che stai raccontando. Non oggettiva, ma, almeno nel novantanove per cento dei casi, ovviamente influenzata, falsata, dalla prospettiva di ognuno di questi ciascuno. Che non staranno valutando obiettivamente la tua, di situazione, ma leggendo nella tua la loro. Elargendoti pertanto consigli che non riguardano la tua vita, ma derivano dalla loro, di vita: dalla necessità di preservare le loro speranze, le loro paure, le loro illusioni, le loro convinzioni.
Insomma, è impresa ardua trovare uno che sappia davvero mettersi nei panni degli altri.

Per il resto niente, sono in vacanza, e il mio cervello e - novità assoluta e rimarchevole - il mio cuore lo sono con me. A presto.

domenica 12 agosto 2012

Un'altra donna

Quando ho elencato le dieci cose per cui vale la pena vivere ho commesso un'imperdonabile omissione.
Era talmente tanto tempo che non ci andavo da averlo dimenticato, che al primo posto tra le cose per cui vale la pena vivere, per me, c'è l'Umbria.
Ci sono stata per brevi periodi nel corso di varie estati quando ero bambina. Ci ritrovavo la mia maestra, le mie compagne, perlomeno tutte quelle che erano a convitto in collegio e non tornavano a casa nemmeno l'estate, quando allora venivano portate in "colonia". Lì le terribili monache dove andavo a scuola mi offrivano l'unico motivo che controbilanciasse il loro aggravarmi un'innocente esistenza infantile. La loro fondatrice, una donna rozza, ignorante, volitiva fino alla cieca ostinazione e assertiva fino al dispotismo, con pretese taumaturgiche alla padre Pio (sudori di sangue, bilocazioni, preveggenza, moltiplicazioni di cibo e mani fasciate per le stimmate e per presunte bastonate del diavolo con il quale diceva di lottare di notte) aveva ricevuto, forse come ex voto, una donazione alquanto particolare: un'intera collina distante pochi chilometri da Todi. Collevalenza, si chiama.
Lì ella fece costruire, tra il 1950 e il 1970, per buona parte sfruttando la diretta manodopera sua e delle sue consorelle, da cui era letteralmente venerata, una chiesa, poi un impressionante santuario di ferro, vetro e pietra con cripta sottostante, un pozzo per la captazione delle acque profondo cento metri e piscine in stile Lourdes, un paio di alberghi chiamati "case del pellegrino", nonché case per le sue suore e per i suoi preti, e corridoi lunghi e tortuosi come gallerie di formiche per collegare il tutto. Una piccola cittadina interamente votata al turismo religioso, organizzata e funzionale, completa di luoghi di svago adatti alla bisogna: presepi poliscenici con pupazzetti semoventi che erano il diletto dei ragazzini più piccoli, supermarket di gadget, libri, pubblicazioni e opere di varia religiosità, quattordici blocchi marmorei a segnare le altrettante stazioni della Via Crucis disseminati per il suggestivo sentiero dai piedi della collina fino in cima, lungo il quale io, insolitamente disciolta dalle catene del ferreo controllo nonnesco e materno - era questo il vero miracolo -, mi scapicollavo intere giornate con masnade di ragazzini sfuggiti al seguito di altre pie famiglie pellegrine - attirate probabilmente dalla possibilità di fare una bella vacanza a poco prezzo grazie alla combinazione economicità delle tariffe dello spartano soggiorno offerto/salubrità dei luoghi piuttosto che dalla devozione (rapporto costi/benefici in virtù del quale assoggettarsi ad una messa domenicale e a qualche processione occasionale, a mangiare in un refettorio dividendo le vivande, fornite ai tavoli da sei in unici piatti di portata smistati con carrelli ospedalieri, con perfetti sconosciuti, ad assumere un comportamento irreprensibile includente l'ovvio divieto di proferire bestemmie e parolacce udibili, norma questa che costava parecchio ai capifamiglia provenienti da Roma in giù soprattutto quando giocavano a carte, al dover sopportare un paio di volte al giorno qualche monacale predicozzo e all'obbligo di non indossare indumenti scollacciati non solo dentro alla chiesa ma in tutti gli altri edifici, albergo compreso, non doveva parere un sacrificio eccessivo) -, utilizzandolo con scopi ben diversi da quelli di riflessione e meditazione per cui era stato concepito; sorte che veniva riservata da me e dai miei compagni di scorribande anche all'immenso piazzale antistante l'imponente santuario, destinato al raccoglimento di penitenti folle oceaniche e invece da noi utilizzato per giocare a pallone, o a rincorrerci accovacciati gridando come selvaggi nell'enorme budello di cemento aperto a mezzaluna, una sorta di gigantesco anello che delimitava l'area e nei dopopranzo e dopocena svolgeva per convenzione la funzione di panchina di fortuna per gruppi di vecchie beghine brevemente sostanti durante l'usuale passeggiatina digestiva, sempre parecchio infastidite dal nostro arrivar loro alle spalle a frotte urlanti in quelle scomposte gare di acchiapparella, quando non di urtarle mettendole a rischio di finire ginocchioni sul sagrato scabro.
Intorno, il nulla: o, per meglio dire, intorno il bosco - quello che di notte, guardandolo dalle vetrate a pian terreno - uniche intercapedini di sicurezza tra noi e l'esterno, giacché evidentemente le suore ritenevano di esser tanto conosciute e benvolute dal circondario da non temere incursioni di ladri - degli edifici più isolati, influenzati com'eravamo da quell'atmosfera misteriosa, sibillina, che circondava la fondatrice, diveniva un buio tenebroso e popolato di presenze che accendeva le nostre già fervide immaginazioni, dove si mischiavano ambivalenti paure e attrazioni, deliziosi ed inquietanti incubi di spiriti e demoni come di assassini e di lupi e pipistrelli (questi ultimi ce li sentivamo spesso fischiare intorno nell'oscurità, e una notte uno di loro seminò il terrore entrando in camera di mia madre e mia sorella); e intorno, soprattutto, le distese d'oro, e le verdi vallate, e le dolci colline, ampie e morbide come seni di donna; un panorama che mi cingeva come un manto fatato e benevolo, e che, se di giorno mi mozzava il fiato, sul far del tramonto mi scioglieva il cuore, e allora pensavo commossa che nessuna meraviglia naturale, nessun ghiacciaio, nessuna montagna, nessun oceano, poteva essere in grado di suscitare emozione come quello di cui mi stavo imbevendo gli occhi senza potermene saziare.

Ci sono tornata, nel corso degli anni, in Umbria, ad intermittenza. Da ragazza, e poi da sposata, e da giovane madre, e con i figli già cresciuti.
Ad un certo punto ho chiuso con le monache. Ma non ho mai chiuso con lei.

Ho passato gli ultimi tre giorni in Umbria. E ho constatato che, pur essendo consapevole, oggi, di altri panorami belli quanto e forse più dei suoi - quelli della Val D'Orcia, della Val di Chiana, del Casentino, ad esempio - questi sono inarrivabili nella mia anima.
Sono parte di me.
L'Umbria mi ha accolto, una volta di più, esattamente come ha sempre fatto. Con le sue vastità serene, taumaturgiche, quiete.
Sorridendomi, a braccia aperte. Come una madre.
Sul cui seno ho riposato serena come una bambina sicura e felice.
Ho dormito a Todi, sul cocuzzolo, nell'albergo accanto alla piazza principale, quella con i due fiabeschi palazzi bianchi che ne fanno un capolavoro unico al mondo.
Ho girato per luoghi conosciuti ed amati, subito di nuovo familiari.
Sabato sera sono stata a Montecastello di Vibio, dove la piccola comunità ha organizzato una processione in abiti medioevali e poi uno spettacolo di falconeria.
E quando il giovane falconiere ha lanciato il suo falco, questo ha spiegato le ali e si è impossessato dell'immensa concavità azzurra sovrastante la valle del Tevere.
Tra gli spettatori a naso in su un ragazzino ha spontaneamente, gioiosamente esclamato: "vai, vai, falco, vola libero nel cielo!"
Il falco ha puntato dritto verso il tramonto rosa all'orizzonte.
E io mi sentivo di essere lui, che volava libero, con tutto il cielo per sé, fino ai confini del mondo.
E ora sono un'altra donna.
Rigenerata.
Non so per quanto durerà.

Ma intanto è successo.

mercoledì 8 agosto 2012

Honesty

Domani ultimo giorno di lavoro.
Poi ferie.

Ieri ho salutato Claudio.
L'ho abbracciato stretto come piace a me: caricando idealmente le braccia come la molla di un carillon e poi gustandomi la stretta, succhiandomi calore, morbidezza, solidità di un amato essere umano.
Poi, come uso fare - non so perché né quando ho preso il vizio, non solo con lui - anziché sfiorargli con le labbra una guancia, nascondendo il naso nel suo collo gli ho schioccato un bacio nell'incavo tra la spalla e la clavicola sinistra. Il mio marchio distintivo, un timbro di energia affettiva, che attesta che è passato per le mie mani, che in qualche modo è affare mio.
Mentre pensavo che è un anno che lo conosco, ormai.
Un anno in cui l'ho visto tanto poco - lavorando lui part-time lunedì e martedì, io, da maggio, martedì, mercoledì e giovedì, ci incrociamo solo un giorno a settimana, quando nessuno dei due è assente per qualche motivo - eppure è bastato a farlo lo stesso divenire una delle persone più significative della mia esistenza.
I suoi occhi blu, ora capaci di visione acuta e nitida grazie alla chirurgia laser, quando non concentrati sullo schermo del pc spesso fissi su di me, mi hanno osservata decine, centinaia di volte.
Vedendomi disperata, esaltata, commossa, abulica, annichilita, contenta. Sempre e comunque squilibrata.
Assistendo incuriositi, increduli, ai miei numeri da circo: divertiti ai miei sprazzi di gioia incontenibile, agli spettacoli pirotecnici della mia felicità, intristiti alle mie tragedie, all'apertura delle cataratte del mio dolore, all'agitarsi furioso e scomposto della mia sofferenza.
Registrando i miei momenti di rassegnazione come i miei scatti di smaniosa ribellione.
Guardandomi preoccupati scendere dalle nuvole e cadere, sempre più in basso, sempre più in basso. Aiutandomi poi, pian piano, a rialzarmi, facendo da specchio alla mia immagine, restituendomela più bella, più armoniosa, più amabile.
Riflettendo per me la mia dignità, la mia forza, la mia integrità.
Mai ciecamente indifferenti. Sempre colmi di spontanea simpatia, di naturale interesse, di autentica tenerezza.

Claudio è un essere umano.
E' un mio simile.
E' il fratello che avrei voluto, se avessi avuto un fratello.
E io gli voglio bene.
E' bello, dopo un anno, poterlo dire ancora. Con piena cognizione di causa.
Perché è una persona.
Una persona onesta.



martedì 7 agosto 2012

Aggiungi un posto a tavola

Del week end prolungatosi al lunedì non ho granché da raccontare.
Giorni di vita serena, meditativa, operosa, a vari livelli, per molti versi, in molti modi diversi (l'assonanza è bieco artificio retorico voluto, giuro).

Venerdì invece, sarà stato anche merito della famosa e fantomatica radiosità che da me promanava, si è snocciolato tripudiante e fortunato come una Pasqua. Il mondo, al mio passaggio, si adoperava a farmi strada sorridendomi, o squadrandomi con lunghe occhiate reverenti, o giungendo ad apostrofarmi "bella signorina" (il giovane e prestante barista al cui bancone nel tardo pomeriggio ho consumato la mia ennesima Schweppes Lemon).

E a coronamento di un dì in cui tutto è andato per il meglio, fuori e dentro di me, mi è stata donata anche la gioia di imbattermi in una conoscenza che avevo perso di vista da molti anni, a lungo vanamente e disperatamente ricercata, rimembrando la quale il mio cuore sanguinava di rinnovato rimpianto e nostalgia sempre viva.

Era stato uno dei più dilettevoli amici della mia adolescenza. Avevo trascorso in sua compagnia ore ed ore di assoluta spensieratezza. Arguto, brillante, a suo modo sentimentale, disincantato ma tenero! Ci eravamo intesi dalle prime parole. Non mi stancavo mai di lui, né lui, a quanto pareva, di me, nonostante fossi tanto giovane e inesperta delle cose del mondo che lui amava raccontarmi.
Ma un giorno sventurato, dopo un periodo in cui l'avevo colpevolmente trascurato, estromesso dalla mia vita a causa di eventi tutto sommato poco rilevanti - per esempio, il mio matrimonio -, andando al nostro solito punto di incontro non l'avevo trovato più. Se n'era andato chissà dove, senza clamore. Magari aveva seguito gli spostamenti di qualcuno della mia famiglia che aveva cambiato città. E io che non mi ero accorta di niente! Venivo punita per il mio repentino voltafaccia, sicuro.
Sulle prime, comunque, non mi ero preoccupata eccessivamente della sua assenza, convinta che alla fine l'avrei visto ricomparire al mio fianco. E invece passarono giorni, settimane, mesi, e finii per disperare di rivederlo. Ne seguii comunque le tracce per molto tempo, tra un avvenimento e l'altro della mia esistenza, prima di darmi per vinta, ma niente. E adesso che ormai proprio credevo di riuscire mai più a ritrovarlo, eccolo! Scorto assolutamente per caso, eppure riconosciuto al primo sguardo, nonostante la foggia e il vestimento diversi da quelli con cui mi era familiare.
Il cuore mi ha fatto una capriola. Un tassello della mia vita tornava finalmente a posto. Lui era lì, era lì: era proprio lui, e mi ammiccava contento. E seduttore come sempre, nonostante gli anni che erano passati.
Allora ho pensato "Dio esiste!". Quel Dio che non so se c'è, ma che David Forrest - pseudonimo di due giornalisti scrittori britannici che lavoravano in tandem, Robert Forrest-Webb e David Eliades - ha reso così simpatico e accattivante, così profondamente a misura d'uomo, nell'altro suo lavoro universalmente noto, After me the deluge, da cui è stata tratta la commedia musicale cult della mia giovinezza: Aggiungi un posto a tavola (con le musiche dell'immenso Armando Trovajoli, of course).
"Dio esiste!": così ho pensato, così mi son sentita nel momento in cui, in un lindo e luminoso venerdì di inizio agosto, dentro la libreria Feltrinelli di Viale Giulio Cesare, il tempo è magicamente tornato indietro di trentacinque anni, nell'era della guerra fredda, delle superpotenze, dei miei tredici anni perduti e ritrovati, e ci siamo finalmente guardati negli occhi, io e "E a mio nipote Albert lascio (l'isola che ho vinto a Fatty Hagan in una partita a poker)", il fulminante, formidabile romanzo di David Forrest pubblicato nel 1977, che (leggo dalla seconda di copertina), "ha avuto un enorme successo con la sua miscela di antimilitarismo e satira grottesca. Nonostante le richieste dei lettori non è stato mai ristampato - nemmeno in patria - fino a questa edizione del Saggiatore, una riscoperta a livello mondiale di un grande classico dello humor britannico."

(E adesso che ho finito di riassaporarmelo tutto finirà che mi riguardo anche la commedia musicale tratta dall'altro romanzo, di cui ovviamente possiedo copia in DVD...)



venerdì 3 agosto 2012

Mamma mia, here I go again

Ieri arrivo trafelata e come al solito in ritardo in ufficio.
Col mio vestitino rosa di cotone indiano scollato - ma tanto non c'è molto da vedere in quella zona - e lunghetto, al ginocchio, le scarpe rosse di vernice col tacco, i capelli biondi che ora porto cortissimi, rasati in punitivo stile Vanessa Redgrave in Fania playing for time.
E subito mi si fa dappresso una piccola folla di colleghe che mi guardano stranamente ammirate.
Io le guardo di rimando, spostando gli occhi dall'una all'altra, senza capire.
"Beh?"
Tutti i volti convergono su Roberta, eletta a portavoce, che favella emozionata: "Stamane sei radiosa, Cri"
(Quand'è che me l'hanno detto l'ultima volta?, penso io dubbiosa. Poi mi ricordo...)
NOOOOOOOOOOOOO!...

giovedì 2 agosto 2012

Trentadue





02/08/1980
Sono entrata, sei entrato, siamo entrati. Tutti in una stazione.
Non volevamo entrare in un mistero.
Avevamo un biglietto in mano, un semplice biglietto in mano.
Di quelli di cartone, piccoli, quelli che prendevano umidità subito.
I nostri fatti privati stavano dentro di noi, nelle valigie, nelle borse. Nei sacchetti della spesa.
Prendevamo un locale, un diretto. Qualcuno un treno rapido
Ora non fa differenza. Nemmeno allora.
Un attimo dopo hanno mischiato le nostre carni, le nostre budella. Violenza, quella vera senza diritto di replica o difesa.
Poi violenza su violenza hanno sparpagliato e mischiato i nostri pensieri, senza sapere nulla dei nostri sogni.
Di noi hanno fatto spremuta di speculazione, dopo il macello, hanno giocato con ciò che restava. Senza fine.
Indagine, senza soluzione di giustizia.
Chi ha scelto di essere li, era da quelle parti per profonda quotidianità.
Chi ci ha ucciso lo ha fatto per abitudine all'impunità.
E se oggi non sapete cosa dire almeno non pontificate, non giocate.
Se non sapete cosa dire, non meritate il dono della parola.
Se non sapete ancora cosa pensare di tutto questo, il vostro cervello è morto, molto prima di noi.
Che il diavolo o il caso vi secchi la lingua ogni volta che sparpagliate i vostri inutili "mi dispiace".

Testo di Listener
Postato da Gap