lunedì 23 febbraio 2015

Here lies one whose name was writ in water

(Poiché fuori di me perdurano, fastidiose, le mie tenzoni quotidiane, e dentro di me perdura, invincibile, la calma piatta, per ricordare a me stessa e a chi si ricordasse ancora di me che sono viva, e, più in generale, che sono, lascio qui una cosa che scrissi molti mesi fa per il mensile on line con cui collaboro da un anno, Operaincerta. E' scritta in verità a quattro mani, in differita: nel senso che le prime due mani sono quelle di mia sorella, che sulla vita e sulla poetica di Keats, che in lui sono tutt'uno, compose la sua prima tesi di laurea (la prima delle sue lauree) una ventina d'anni orsono; le altre due, estrapolanti e rielaboranti in tempi recenti una minima parte di quel lavoro ricchissimo, sono le mie, che attraverso lei ho conosciuto ed amato - allora in modo istintivo, approssimativo e tutto sentimentale, oggi con infinita maggior cognizione di causa per la superiore comprensione della bontà e giustezza delle sue intuizioni sulla vita e sull'amore e per la sopraggiunta capacità di riconoscermi ed immedesimarmi  in esse che mi ha donato la maturità - quel giovane oscuro e fulgente, glorioso e nascosto, che finì di consumare la sua vita in questa notte del 23 febbraio, in questa Roma che è la mia città, ed è rimasta, per sempre, anche la sua.)

Possono ben capitare, al turista che visita Roma, attacchi di sindrome di Stendhal: momenti in cui l'innumerevole e ingombrante bellezza che lo circonda da ogni parte arrivi ad inebriarlo fino ad un punto di sopraffazione, e l'emozione per tanto splendore giunga inopinatamente a tramutarsi in parossistica vertigine, palpitazioni cardiache, nausea e sudori freddi da panico.
In simili frangenti egli può, se ha la ventura di stare aggirandosi nei pressi della Piramide Cestia, tra Testaccio e Porta San Paolo, correre a rifugiarsi e riprendere fiato nella quiete fuori dal tempo di un giardino antico protetto da alte mura.
Quel giardino, oasi incantata di pace e di silenzio in mezzo al caos frenetico della città, è il bellissimo cimitero acattolico che lo scrittore Henry James definì " una mescolanza di lacrime e sorrisi, di pietre e di fiori, di cipressi in lutto e di cielo luminoso, che ci dà l'impressione di volgere uno sguardo alla morte dal lato più felice della tomba".
Lì, dopo essersi ritemprato, può partire senza fretta per una passeggiata esplorativa, alla ricerca del fazzoletto di terra dove sono custodite le ceneri di Gramsci, e poi di quelli dove riposano le spoglie mortali di poeti, politici, filosofi e scrittori - Percy Bysse Shelley, Dario Bellezza, Carlo Emilio Gadda, Luce D'Eramo, Amelia Rosselli, Antonio Labriola, Miriam Mafai - ma anche di un figlio di Goethe morto bambino, della moglie di Altiero Spinelli, dell'attrice Belinda Lee.
Finché in questa perlustrazione i suoi passi lo condurranno inevitabilmente nei pressi dell'angolo più remoto, più dolce e più vetusto, quasi a ridosso del muro di cinta confinante con la Piramide Cestia - accanto al sepolcro di Joseph Severn, pittore suo connazionale che quasi senza conoscerlo accettò di imbarcarsi con lui per l'Italia per essergli dapprima coinquilino e poi unico fraterno appoggio nel suo estremo soggiorno romano fino a vederselo spirare tra le braccia -, davanti alla lapide di "a young english poet" morto di tisi in un appartamento di Piazza di Spagna, dove si era trasferito lasciando le brume natie nel tentativo di strappare ancora tempo alla malattia, la sera del 23 febbraio 1821, a soli venticinque anni.
Questo giovane inglese, per cui vita e pensiero poetico furono indissolubilmente intrecciati; che coniò per il poeta, e dunque per se stesso, la definizione di "più impoetica delle creature"; che del suo fallimento di uomo, di artista e di essere vivente fece la cifra necessaria, altissima e sublime, sacerdotale, della sua esistenza, lasciandone testimonianza nelle parole che volle gli fossero incise sulla tomba ("qui giace Uno il cui nome fu scritto nell'acqua"); e che a distanza di due secoli si trova invece saldamente collocato, assieme a Shelley e Byron, nell'Empireo dei pilastri del Romanticismo inglese e mondiale, è John Keats.
Meno noto alle masse degli altri due più baldanzosi compagni di gloria letteraria, Keats fu realmente, nel suo breve passaggio terreno, un uomo dimesso e oscuro. La crisi fu la sua costante condizione, la sua autentica pelle, l'aria che respirava: nella sua quotidianità difficile, costellata di disgrazie, disagi e ristrettezze economiche, come nella sua interiorità ipersensibile di adolescente, e poi di giovanissimo uomo posseduto dal demone dell'amore, di una passione che, proprio per essere, come lui affermò, "la cosa per cui voglio vivere" fu, precisamente, la "grande ragione" della sua morte; e anche nella sua consapevolezza di rappresentante di un'umanità della terra al tramonto, dove, caduti gli antichi dei assieme alle certezze illuministiche, si può solo cantare la stagione dell'autunno, dell'indolenza, dell'inerzia che è l'infinito silenzio della pura esistenza.
Fu questo il tragico paradosso di cui, nella folgorante e letale stagione della sua giovinezza, che è tutta la maturità che gli fu concessa, Keats prese sempre più coscienza: l'irresolubile, fatale circostanza per cui la bellezza della vita è mortalità, e non si può sfuggire alla mortalità se non attraverso la morte, che quella bellezza, quella vita distruggerà. Una morte Keats che non dovette nemmeno tentare di procacciarsi per poter entrare nella leggenda romantica, perché, per strana ironia della sorte, mentre scriveva la manciata di opere costituenti l'intero suo lascito ai posteri, minato dalla malattia, stava già lentamente morendo. 
La tanto prematura sua dipartita dal mondo nel nascondimento, lontano da tutto e da tutti - dalla patria, dagli amici, dai suoi cari, da Fanny Browne, la ragazza amata di un amore profondo, intenso e tormentato - assomiglia molto al fade away, lo svanire che è sprofondamento dolce, lieve, nell'oblio, dissoluzione come estrema chance di condividere l'essenza stessa del tempo, di assecondarlo fluidificandosi per attutirne i colpi, punto d'approdo della tematica da lui professata e vissuta come una religione del cuore e cantata nella lirica sua più nota, quell'Ode to a Nightingale costituente il suo marchio di fabbrica nell'immortale espressione Tender is the night. È come lo straziante avverarsi di un desiderio di morte: una morte accolta ed invocata non tanto come liberazione dello spirito, quanto come reintegrazione nella natura, nell'oltre indistinto, oscuro e insondabile, l'orizzonte invisibile che la voce dell'usignolo invade e oltrepassa laddove la coscienza, il "self", dell'essere umano lo serra e costringe impedendogli di spiccare lo stesso salto, nemmeno se librato sulle ali della poesia.
È per questo struggente ed esemplare, la parabola umana di sofferenza e morte precoce di un artista che fece del suo passaggio terreno una missione etica tradotta in effettiva esperienza poetica per sua propria volontà e, al contempo, senza possibilità di altra scelta. Keats muore giovane poiché è giovane, poco più che un ragazzo, e come ogni ragazzo ama la vita: davvero per lui questo è tutto ciò che sappiamo a questo mondo, e tutto ciò che ci serve di sapere; e per sentirsi vivo accetta tutto, anche se sentirsi vivo fino in fondo significa conoscersi mortale, e abbracciare la mortalità fino alle estreme conseguenze, fino al punto di esperire la caducità nel suo compimento, e il compimento nella caducità. Questa consapevolezza è tuttavia radicalmente aliena dal pessimismo: diversamente da Leopardi, che di fronte alla sua ambivalenza conclude che la natura non è né buona né cattiva, ma indifferente, Keats la ama troppo per arrivare ad una simile considerazione; la ama, e continua ad amarla, perché è bella: ed è bella perché è viva. "Beauty is truth, truth beauty", la sua professione di fede mai sconfessata, significa in eterno per lui che tutto ciò che esiste è bello perché è vivo, e la sua bellezza è "a joy forever".
È toccante il contrasto tra la tra la "felicità deliberata" della poesia di Keats e la tristezza che caratterizzò la sua esistenza: una dicotomia che egli porta addosso in ogni istante come il segno sacramentale di una vocazione suprema. Alla ricerca di un sistema di salvezza più soddisfacente di quello delle religioni tradizionali, di un senso ultimo dell'esistenza in un mondo dominato dall'infelicità, dal dolore e dalla finitudine, l'acutezza della sua visione si concretizza in una crescente oscurità: più si scruta nell'abisso, nel "Mist", il peso evanescente (come la nebbia; che per un inglese non è un concetto, ma un'immagine di vivida concretezza) che lo opprime, uomo tra gli uomini, spingendolo, mediante l'amore, la bellezza e l'arte, a tentare di diradarlo superando i limiti della mortalità, più la tenebra si infittisce. L'illuminazione poetica svela solo una cecità più profonda: ne consegue una nostalgia per qualcosa di inafferrabile tanto sublime e intensa da generare un confine in cui piacere e dolore, pur distinti, diventano inestricabili. Se sentire per l'essere mortale è soffrire, solo accogliendo la sofferenza si può gustare sino in fondo la bellezza della vita. L'amaro che resta in fondo al calice è il residuo inevitabile di una dolcezza che nel contrasto esce esaltata. La notte del "Mist" fa dunque eco alla "notte del cuore", in una risonanza che è la vibrazione dell'esistere, come il movimento di sistole e diastole delle pulsazioni, che Keats battezza "malinconia" e che celebra nella sua ultima ode, "To Autumn", la stagione dolce,  quieta, gravida di languida pienezza, del tramonto del ciclo della natura ch'è anche metafora del tramonto del del ciclo della vita umana.
È così, in una sorta di titanismo rovesciato, che Keats arriva a scoprire il valore della passività: la sua indolence diventa l'unica vera ricettività e creatività, l'ignoranza - che è quella dei fiori e degli uccelli, che non conoscono i misteri della vita ma li vivono - diviene saggezza: egli è giunto alla Negative capability. Non potendo guardare, come Dio creatore, nel cuore del mistero, si apre al suo destino opposto facendosi creatura, e creatura inerme e minuta: margherita, usignolo, embrione frutto dell'amore di due amanti, abbassandosi, ripiegandosi come nel bozzolo di una crisalide a condividerne nella  κένωσις il nascondimento, l'umiltà, l'essenzialità e la terribile potenza in posse di vita. È un destino che accetta comunque con sommo orgoglio: Keats, uomo moderno dalla coscienza divisa, non può schierarsi decisamente dalla parte luminosa così come non può dare voce alla divinità: la sua rimane una continua tensione verso una meta mai raggiunta.
Sta tutta qui la storia di John Keats: in una traiettoria incompiuta. Il suo strumento ha delle corde spezzate, come la lira che Severn scolpì sulla sua tomba, e non solo per la sua morte prematura, ma anche per la sua stessa incredibile capacità di occhieggiare nell'oltre, scorgendovi la sola verità possibile, e cioè non un diradamento, ma un addensamento del tenebroso "mist": la "visione", per chi sta "al di qua", è solo una percezione più profonda dell'oscurità. Il vero illuminato - il poeta "camaleonte", senza self, capace di assumere ogni identità perché senza più identità - è colui che grazie ai fiochi bagliori della sua psiche aperta all'amore, all'arte e alla bellezza, riesce a scrutare la trama del buio, e per questo come nessun altro è consapevole di quanto sia fitta e serrata. L'intensità del sentimento, portata all'eccesso, finisce sempre per trascolorare nel suo opposto: la negazione.
L'ultima fase della sua esistenza, quella del suo soggiorno romano, è, di questa negazione, espressione straziante e coerente. Keats è diventato afasico: non comporrà più, non scriverà più a Fanny Browne. I suoi giorni si stanno compiendo: non è più tempo di scrivere, di fare poesia: è tempo di prepararsi a viverla fino in fondo, addentrandosi effettivamente, necessariamente, nell'oscurità. Ma il suo silenzio, che è la notte della poesia, è il silenzio di chi ha detto tutto quello che c'era da dire, stabilendo un legame, una "connessione" che non ha bisogno di ulteriori parole. 
Keats, che fu anche farmacista, non ha nessuna ricetta contro la notte dell'anima dell'uomo contemporaneo. Ma da tutti i suoi scritti trapela una forza costante, quella forza che oggi molti giovani come lui rischiano di perdere: l'amore della vita, quell'amore che culmina nella grande armonia dell'Ode all'Autunno, un amore tanto intenso da condurre all'accettazione di quell'aspetto della vita da cui l'uomo comune rifugge, il limitare sul quale la vita finisce, o si trasforma in qualcos'altro, il passaggio senza il quale non c'è pienezza, poiché deathless equivale a lifeless. 
"Beauty is truth, truth beauty, - that is all/Ye know on Earth, and all ye need to know": la morte è l'unica certezza dell'uomo, e se la morte è verità è anche bellezza, e allora la questione dell'immortalità non si pone più, questo è il suo tempo, e la borderline, il between, il suo spazio. Keats è l'uomo sospeso tra due mondi, l'uomo della terra al tramonto: il suo re è il sole pieno dell'autunno che sul morire del giorno sembra voltarsi indietro e racchiudere in un unico caldo abbraccio la pienezza di vita che ha generato dal limine del buio che lo contorna, mortale e immortale assieme. Il dramma cosmico partecipa del dramma umano, in profonda comunione con gli uomini, con la natura e con un soprannaturale tragicamente occulto che Keats non cessa mai di cercare.
E il luogo di questa ricerca, di questo inseguimento appassionato, è sempre la notte, la "Tender night": l'oscurità della condizione umana, appena rischiarata da piccole, stellari scintille, minimamente confortata dai bagliori dell'amore. 
È una ricerca che rimane tutta al di qua: la notte è il punto di partenza e il punto di arrivo. Ma questo è un fallimento solo apparente. Perché nella notte, regno della sintesi, c'è tutto: è l'ineffabile notte nuziale in cui luce e oscurità, vista e visione, piacere e dolore attuano una fusione senza confondersi: e in questa suprema drammatica riconciliazione è racchiuso il culmine dell'esperienza umana.
Più di questo, Keats non arriva a dire: ha compiuto la sua strada fino in fondo, è passato "oltre". La crisi è finita. La sua luce si è affievolita fino a spegnersi, o forse piuttosto a riassorbirsi nell'infinito, ma ciò non ci riguarda più, almeno per ora. Quello che di lui ci ha lasciato, trattenuto nel nostro "aldiquà" e appartenente alle cose vere, reali, e dunque things of beauty, oltre ai suoi resti inerti racchiusi sotto la lapide di pietra grigia senza nome, è vivo e operante nei suoi sonetti, nelle Odi, e nelle sue commoventi e inebrianti lettere, scritte alle persone che più gli erano care sulla terra -  la sorellina Fanny, l'altra Fanny amore della sua vita, suo fratello George, sua cognata Georgiana, l'amico John Brown - nelle cui parole riemerge ancora oggi, vivo più che mai, lo spirito di un ragazzo che bruciò al fuoco dell'amore sciogliendosi come una candela, e che lo fece facendo poesia, che per lui era sinonimo di fare il bene.
Separandosi da chi resta, Keats usa parole tanto semplici quanto rivelatrici della tenera e nervosa gentilezza del suo animo: "sono sempre stato imbarazzato nel prendere congedo". E forse è per questo che, in qualche modo, non se n'è mai andato. Perché è singolare come, a chiunque si accosti alla sua tomba dopo essersi accostato alla sua poesia, paia proprio di sentirne aleggiare la presenza, in mezzo ai fiori e all'erba tenera; di scoprire quasi, a tratti, nella visione periferica delle pupille, un'eco sommessa e indefinibile dell'immagine di questo "giovane poeta inglese", minuto e fanciullesco per età, per purezza del cuore e per statura, che, accennando un sorriso che dissimula la squisita acutezza della sua emozione, esegue, schivo e compito insieme, un mezzo inchino.

(Buonanotte, John. Alla prossima visita)