domenica 30 marzo 2014

L'assenza dondola nell'aria

L'assenza dondola nell'aria come un batacchio di ferro
martella il mio viso martella
ne sono stordito

corro via l'assenza m'insegue
non posso sfuggirle
le gambe si piegano cado

l'assenza non è tempo né strada
l'assenza è un ponte fra noi
più sottile di un capello più affilato di una spada

più sottile di un capello più affilato di una spada
l'assenza è un ponte fra noi
anche quando
di fronte l'uno all'altra i nostri ginocchi si toccano

(Un anno che te ne sei andato, io fatico a ricordarmelo. Certe volte mi sembra di non sentire niente. Nemmeno la tua assenza. Come se tu non fossi mai esistito nella mia vita. Come se non ci fosse differenza, tra oggi e un anno fa. E cerco di recuperare qualcosa di te per dare senso alla mia identità. Di colmare quest'assenza dell'assenza.
Ciao, papà, ovunque tu sia)

Love after love

The time will come
when, with elation
you will greet yourself arriving
at your own door, in your own mirror
and each will smile at the other's welcome,

and say, sit here. Eat.
You will love again the stranger who was your self.
Give wine. Give bread. Give back your heart
to itself, to the stranger who has loved you

all your life, whom you ignored
for another, who knows you by heart.
Take down the love letters from the bookshelf,

the photographs, the desperate notes,
peel your own image from the mirror.
Sit. Feast on your life.


Amore dopo amore
Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell'altro,

e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d'amore,

le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.

sabato 29 marzo 2014

Music

Musica, musica. E' da un po' che ho smarrito le parole.

Perché dentro di me da un po' tutto risuona, rimbomba, dissona, in un fracasso che pare quello dell'officina di Dio durante i giorni della Creazione.

Dentro di me non c'è più spazio per le parole.

Dentro di me tutto è musica.



Music was my first love
and it will be my last
Music of the future
and music of the past
To live without my music
would be impossible to do,
In this world of troubles
my music pulls me through

venerdì 14 marzo 2014

Tutto su Aldo (Il monticiano)

Dunque, esortata da molti di voi, ieri sera ho telefonato ad Aldo: buone notizie! L'intervento, o meglio, gli interventi, hanno avuto un esito positivo e il decorso post operatorio procede in modo soddisfacente, a parte un focolaio d'infezione restio a farsi domare che somiglia  per ostinazione a quello con cui aveva già lottato nel precedente ricovero, e che i sanitari sono decisi a debellare a tutti i costi prima di dimetterlo. Da qui il prolungamento della sua degenza.
I batteri, comunque, non avranno vita facile con Aldo, a giudicare dalla nostra conversazione frizzantina...
Il nostro Monticiano è cosciente, senziente, loquace, mordace e salace quanto e più del solito. Dunque chi volesse (so che qualcuno l'ha già fatto) lo chiami, per un sicuro reciproco diletto.
Ho scommesso con lui che martedì prossimo al massimo sarà a casa e aggiornerà il blog. Vediamo se ci piglio, mi farebbero comodo un po' di soldi...

sabato 8 marzo 2014

La (mia) grande bellezza

Come avevo previsto (in tempi non sospetti), La grande bellezza ha vinto l'Oscar.

Non è che sia indicativo di chissà quali meriti artistici, l'Oscar: simbolici sì, però. E' il segno che la Mecca del cinema mondiale, quella da cui tutto è partito, considera che quel film ha i fondamentali con cui dev'esser fatto un film: ne ha la forma e la sostanza.
Il che, nel caso di specie, a me è parso evidente fin da subito.
Cos'è il cinema? E' arte popolare. E' mezzo comunicativo di massa, fabbrica di sogni e di inquietudini, di evocazioni, di emozioni. E' un'industria di manufatti più o meno artigianali nei quali ciascuno, fruendone, può scovare robe diverse da un altro. A seconda della propria età, del proprio stato sociale, del proprio carattere, delle proprie esperienze di vita, del momento che sta attraversando.

Per quello La grande bellezza è, prima ancora di essere un capolavoro (argomento controverso e tutto sommato irrilevante), un oggetto perfettamente descrivibile come "film" con tutti i sacrosanti crismi.

Il che non è affatto scontato, per una produzione cinematografica, al giorno d'oggi.

In più, per la sua lunghezza imponente, la sua opulenza, dovizia e maestosità di inquadrature, la tensione drammatica creata dal rapporto tra queste e la musica, l'ambizione e sfrontatezza nella trattazione di temi primordiali e nel ricorso ad allegorie universali, le fierissime polemiche e partigianerie che ha suscitato, apostrofarlo "film" è riduttivo: trattasi di filmone.


Questo filmone è un filmone evangelico: lo guardo (sette volte, finora: numero biblico) e penso alle parole di Gesù Cristo: "non sono venuto a portare la pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre". E' talmente semplice nei dialoghi, rasenti la banalità, e nelle situazioni, e al contempo tanto inquietante ed ermetico da poter esser considerato una sublimità assoluta o una esimia schifezza; un'espressione poetica altissima come una bassissima furbata; un coacervo di significati come un involucro vuoto. 

E' un autentico segno di contraddizione. O lo si odia o lo si ama. E anche tra quelli che lo amano non sono pochi i distinguo. Ciascuno ha la sua propria Grande bellezza personale, intima, calzata su misura.

C'è La grande bellezza del mio amico Lowerome, scrittore e sceneggiatore di indiscusso talento, che lo definisce "fenomeno culturale bestiale che fa guelfismo e ghibellinismo a manetta. Film d'autore spregiudicatamente destrutturato che vince i premi più prestigiosi al mondo e fa 9 milioni in tv, senza neanche schierare Tevez. Frutto di grande talento e intelligenza, a vari livelli." Per poi dire che gli sta tremendamente sul cazzo. Ma che "I primi dieci minuti per me sono incantevoli. La prima sequenza mi ha scotennato, il giapponese che crepa di sindrome di stendhal davanti alla visione del gianicolo e la macchina che si avvita intorno al cannone fino a farlo sparare. Poi parte la festa e quelli che dicono che è copiata da baz luhrmann dovrebbero andarsi a vedere quella di cirino pomicino nel divo, che era ancora più bella. (...) quando il film ammutolisce e lascia parlare la macchina e la sua idea di roma secondo me lì siamo a livelli storici. Poi purtroppo ridà la parola ai personaggi e si ricomincia con il pamphlet anti-libertà e giustizia..." 

C'è La grande bellezza di Sonia, la proprietaria del (prelibato) ristorante cinese davanti al mio ufficio, dove, a giudicare dalle centinaia di foto appese alle pareti, sono andati a mangiare tutti i vip d'Italia di ieri e di oggi, che mentre mi fa il conto mi mette allegramente a parte della circostanza che ieri sera è entrato da lei Federico Moccia. "Ma non ha mangiato, sai? Perché io avevo tanti tavoli liberi, ma lui voleva saletta riservata. Dice che non mangia assieme ad altra gente. Io detto non è possibile, e lui andato via."
"Moccia stronzo" rido io, e lei ride con me. "Del resto si sapeva, che bella conferma mi dai! Invece scommetto che, per esempio, Sorrentino, queste storie non le ha mai fatte."
"Ah, no!" si illumina. "Sorrentino viene spesso mangiare qui, con tutta famiglia. Molte volte venuto. Lui molto gentile, molto disponibile. Lui è tipo... " ci pensa cercando la parola giusta "... familiare. Ecco, sì. Lui familiare. Lui verrà senz'altro appena torna a casa."
"E' tornato oggi" la informo. "E' arrivato a Fiumicino stamattina. C'erano le sue foto su Repubblica on line."
La parola "Repubblica" la riscuote improvvisamente. "Ah! Tu ha letto giornale martedì?" e al mio diniego tira fuori una copia di Repubblica appunto di martedì scorso, aperta su una pagina sul cui fondo c'è un trafiletto con una sua foto: "Repubblica intervistato me, io detto che avevo detto lui che vince Oscar!"

C'è La grande bellezza della mia collega Pina, che non se lo sarebbe mai andato a vedere al cinema ma che per abitudine ha acceso Canale 5 e così gli ha dato uno sguardo (qualcosa la sera in TV si deve pur vedere) rimanendone imprevedibilmente folgorata: "Cri, tu che l'hai visto, sai dirmi come finisce?" Perché Pina si alza tutte le mattine alle cinque per venire al lavoro, e già il film è lungo di suo, con in più con tutte le pause pubblicitarie è diventato uno stillicidio infinito, e lei è crollata alla scena in cui la Ferilli muore, "ma muore, Cri? Quando muore? Quando chiude gli occhi?" mi fa mentre lei invece me li spalanca davanti al massimo, gli occhi, fin quasi fuori dalle orbite, e dentro c'è meraviglia ed emozione: "alla prima scena, con la fontana, il panorama, il giapponese che schiatta e e le voci splendide di quel coro di donne che canta su quella musica bellissima, che musica, Cri, che musica!, sono rimasta incantata", e mi emoziono anch'io perché l'effetto che le ha fatto è come una cartina tornasole che mi fa indicibilmente piacere mi confermi che lei, pur essendo una donna pratica poco incline all'intellettualismo spinto, è di grana più fine di quella di tanti altri in ufficio.

C'è La grande bellezza del produttore del film, Nicola Giuliano, amico d'infanzia dei Sorrentino, che entra a sera nella norcineria del mio amico, di cui è come me affezionato cliente, dove sono anch'io come tutti i giovedì, col bel viso stanco e il colorito un po' grigio per i giorni frenetici di LA e il jet lag, e il mio amico gli butta le braccia al collo e lo stritola (è un bell'omone) e poi lo libera, si gira verso di me e me lo presenta gridando: "Cri! Lo sai chi è questo? Questo è il produttore de La grande bellezza! Quello che stava al fianco di Sorrentino sul palco all'Oscar!" e allora io mi alzo dallo sgabello su cui sono seduta aspettando di finire di esser servita, abbandono il mio American Psyco e gli vado incontro con occhi luccicanti: "ma allora permetti che ti baci pure io, mi tocca proprio" e lui sorridente e disponibile tende le braccia verso di me e mi esorta "fai pure" e io lo abbraccio e "grazie" gli dico, e che ho visto il film sette volte e ora voglio tornare a guardarmelo sul grande schermo, e guarda me e mi vede e capisce, e mi risponde contento "grazie a te". E io allora, rischiarata dalla gioia del mio amico che gli sprizza da tutti i pori, e da quella di Nicola e dalla mia, gli chiedo delucidazioni sul film, come se parlassi ad un vecchio amico. E lui mi risponde senza esitazioni, con affabilità. Il set della mostra fotografica? Fammi pensare. Sì, ecco, è a Villa Giulia, sì. Ah, mi pareva, difatti, ma non ero sicura. Oh, ti prego, puoi dire a Sorrentino che c'è una matta che gli vuole un sacco bene per aver avuto quell'idea diabolica, al culmine del film, delle porte di Roma che si schiudono? Non puoi capire che cosa significa per la me bambina aver assistito alla scena in cui si apre il buco di Roma, l'ho visto inquadrato e mi sono detta col cuore in gola "non può essere che ora, non può essere che ora si inventi di aprirlo, che genio, che figlio di..." e qui mi fermo perché mi ricordo che la mamma di Sorrentino è morta quando lui aveva diciassette anni, ma insomma il senso si è capito, anche perché la voce mi si è fatta stridula e mi trema, come sempre quando sono emozionata, e lui sorride ancora di più, e poi smette di sorridere, e mi sussurra eh, purtroppo quella scena è finta, come finta? Faccio io, e contenendo la delusione ribatto eh, mi pareva impossibile difatti che i Cavalieri di Malta vi avessero concesso di girare dentro il giardino, quelli chissà che segreti, che scheletri ci hanno nell'armadio, da loro non ci mette piede manco il Papa, mah, fa lui, veramente è stato più per motivi tecnici, avevamo bisogno di un giardino illuminato in un certo modo, per cui è stata una scelta obbligata quella di ricrearlo su misura, prima si vede il buco della serratura vero, poi il portone che si apre è un portone identico a quello, poi il giardino dove si muovono gli attori è un altro giardino e in fondo c'è il mascherino verde. Ah, mi riconsolo subito io, ma infine non importa, anzi, il fatto che sia una finzione in qualche misura arricchisce il senso, perché quello che conta è il gesto, il gesto di aprire quel portone che per ogni bambino di Roma ha una patina fiabesca, quel portone chiuso su un mistero impossibile da svelare, quel gesto è dirompente, squarcia quel velo, ha una forza enorme, è quello il senso, è un simbolo potentissimo lo stesso e anche di più. Ma i Capitolini sono quelli invece, vero? Sì, dice lui, quelli sì. Marforio è quello vero, ma anche gli altri palazzi? Anche le altre statue? Anche il Galata morente? Sìssì, conferma ancora lui, divertito. E la Fornarina, anche quella è vera? Eh, no, si rammarica lui, quella è una copia, e quella invece proprio perché non ce la davano per filmarla, viene tutelata per evitarle danneggiamenti, non si può fotografare né filmare. Ah, dico io ridendo, vabbé, basta, non dirmi più niente, ma sono felice, e stordita dalla coincidenza, aver tanto amato questo film, averlo difeso a spada tratta, e incontrarne il produttore proprio il giorno in cui torna dall'America. E prima che se ne vada mi viene un'ultima urgenza, ma la galleria prospettica del Borromini, gli grido, quella è vera, dimmi che quella è vera! Sì, quella è vera, ride lui, è proprio quella autentica, e io gli racconto allora che mio padre, il mio povero padre fragile, inetto e sognatore, innamorato di Roma che conosceva meglio di una guida turistica, era amico del custode e se la faceva aprire fuori orario di pubblico, proprio come si vede nel film, e che ogni volta che riusciva a trascinarci me e mia sorella ripeteva sempre le parole di Sabrina Ferilli, hai visto, pareva tanto grande e invece guarda com'è piccola, e mentre glielo racconto mi rendo conto che Sorrentino è riuscito, con questo film, a restituirmi qualcosa di lui, di questo padre inesistente nel mio cuore oggi come lo è stato a lungo nella mia vita ieri, qualcosa di forte, di tenero, di indimenticabile, l'essenza del mio legame con lui, con questo manchevole, inadeguato, inesistente padre che non sapeva amare sua figlia ma che era amante della Grande bellezza, che è tutto l'amore che mi ha trasmesso, tutto ciò che di lui mi resta, tutto ciò che è bello che resti, le mie poche sortite per Roma con lui, che di Roma conosceva ogni pietra, e ogni pietra descriveva con immensa infantile emozione, e che forse è questo, senz'altro è questo il motivo per cui questo film mi strugge fino in fondo al cuore.

E' c'è La mia grande bellezza. Che sta in tutto questo, e che non finisce mai, che continuamente si rinnova, che mi scappa dalle dita come una farfalla, guizza via come un uccellino impossibile da catturare. Ma che lo stesso sono riuscita a comprendere e a trattenere. E che ho racchiuso e confezionato con cura in un sorriso: quel sorriso speciale che serbo per una persona speciale, che, non appena lo incontrerò - è già successo, so che ricapiterà - donerò a Paolo Sorrentino.



(Edit del 15 luglio 2014: negli scatoloni delle scartoffie di mio padre, a più di un anno di distanza dalla morte, è saltato fuori un contenitore zeppo di fotografie. Tra cui questa soprastante. E il cerchio, finalmente - si spera - si chiude.)