mercoledì 4 dicembre 2013

All's Well that Ends Well

C'è stato un momento di intenso malessere, sabato mattina, in cui ho preso a scrutare quietamente angosciata i volti degli affaccendati londinesi che affollavano ordinatamente, le fronti aggrottate da una serena pensierosità, quel fare tra il disinvolto e l'impegnato collocato sull'esatta metà della sottile linea di confine tra una sovrumana concretezza e il più totale alienato distacco, il mio autobus numero 14 in marcia verso la (peraltro) bellissima Cromwell Road, con un interrogativo che mi pesava sullo stomaco, impossibile da digerire (tanto è vero che poi la sera ho appunto vomitato): ma se tutto è illusorio, persino l'affetto tra i congiunti più stretti, a che serve tirare avanti? Dove stanno andando tutte queste persone? A che giova il loro energico affannarsi dal lunedì al venerdì al lavoro, avanti e indietro, saliscendi, sugli autobus e sulle metro, sempre perfettamente irregimentati, e poi il sabato e la domenica a macinare chilometri nei musei o sui marciapiedi e nei grandi magazzini dei quartieri dello shopping accalcati in file rigorosamente organizzate a comprare regali natalizi per altre persone ch'esse credono a loro legate da rapporto affettivo o amoroso? Che senso hanno i sentimenti, a quale verità si abbarbicano, qual è la realtà oggettiva, misurabile, verificabile, che dona loro peso, contorni e necessità? Che scopo hanno tutte queste pantomime, se non quello di passare il tempo in attesa della fine? La vita è un colossale equivoco, una frenetica deriva, e poi si muore.
E lì, concependo questi pensieri, spersa in un autobus a due piani a sud ovest di un'isola in mezzo all'Europa, lontana da casa migliaia di chilometri, accanto a volti sconosciuti e conosciuti che formavano un unico blob compatto per come non riuscivo più a cogliere apprezzabili distinzioni di familiarità tra gli uni e gli altri, mi sono percepita, in uno zoom di potenza mai provata prima, un infinitesimo puntino su una sfera di terra e di acqua, a sua volta minuscolo puntino smarrito nell'immensità di un universo di innumerevoli puntini, e ho cominciato a sudare freddo per la vertigine, e ho provato l'impulso di scappare a gambe levate: ma scappare per dove?
Non è stato un bel momento.

C'è stato poi un altro momento di disagio, questo molto meno fastidioso, quando, lunedì sera, sull'aereo della Norvegian Airlines che mi riportava a casa, giunta all'altezza della Versilia (inquadrata dall'oblò nella notte come un disegno fatto con la porporina) sono entrata, insieme all'apparecchio, ai passeggeri e a tutto l'equipaggio, in un'area di leggera turbolenza che per un quarto d'ora circa ci ha regalato la sensazione di stare su un autobus del centro di Roma a ballonzolare sui sampietrini. E lì ho percepito, nettissima, non la paura di cadere, no, perché non ero veramente spaventata: solo una sorta di apprensione, una concentrazione a cooperare spiritualmente ad un fausto esito del viaggio strettamente ancorata alla piena, forte, ferma volontà di non finire lì la vita, di giungere a destinazione e rimettere i piedi per terra. E ho riflettuto su come, al di là di ogni inquietudine sul senso, il senso vero della vita è vivere, e si esprime nell'istinto di sopravvivenza che scorre potente in ciascun essere umano, che prevarica tutto il resto. E amen. Tutto è bene quel che finisce bene.

7 commenti:

  1. Quell'interrogativo che ti pesava sullo stomaco, quella domanda di senso incalzante, quel senrtirsi un puntino smarrito nell'immensità che hai descritto così bene io l'ho vissuta nella metropolitana di Parigi. Ma....è stato bellissimo! E' stato un sentirmi piccola, ma parte di un grande universo, senza alcun desiderio di fuga, ma solo con la gioia di essere dentro e di percepire il respiro della vita nel suo farsi!
    Grazie della tua condivisione e un abbraccio!

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    1. In questo siamo evidentemente simili, cara Annamaria (sospetto anche in altro): questa fantastica esperienza che tu racconti l'ho vissuta anch'io, ed è stato, effettivamente, uno dei momenti più "alti" della mia esistenza. Diciamo che quello di cui parlo in questo post è l'altra faccia della medaglia: la sensazione che si prova quando, invece di essere in armonia, si è nella situazione opposta. Luce e buio sono l'uno parte dell'altro, finché siamo su questa terra, immersi nella nostra condizione mortale: ed è la prevalenza dell'influenza dell'uno o dell'altro elemento a scuoterci, in su o in giù, davvero come fragili canne al vento. Ma è altresì vero che questa condizione è quella in grado di farci provare, quando siamo ricettivi nel modo giusto, emozioni e commozioni e tenerezze indicibili, paragonabili all'estasi. E' perché so che tu hai ragione, che questo accade davvero, che ancora non dispero, nella vita :)
      Grazie a te delle tue splendide parole. Ti abbraccio anch'io!

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    2. Hai detto proprio bene, carissima Cri, uno dei momenti più "alti" perchè ci conduce al cuore dell'esistenza, dove la domanda di senso di si fa più viva e palpabile, oserei dire. E' verissimo: luce e buio sono parte della stessa esperienza terrena che la nostra ricettività ci aiuta a cogliere nella sua ricchezza e nel suo spessore.
      Il cammino fuori dal pelago della depressione e verso la gioia può iniziare quando si scopre che siamo tutti splendidamente pezzi UNICI, come opere d'arte originali. Allora possiamo cominciare ad amare la nostra vita, fragile e imperfetta, magari travagliata, ma unica al mondo e vera!
      Ti abbraccio e grazie!

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  2. La tua conclusione è la verità vera. Ci sovrasta l'istinto di sopravvivenza forte e generoso di vita. Ma se quei momenti di intenso malessere, che tu hai così acutamente descritto, vissuti nella pienezza della propria anima dolorante dovessero ripetersi con la stessa intensità fino a congiungersi l'uno con l'altro e formare un modo, un terribile stile di vita, allora l'anima non regge e l'istinto di sopravvivenza non riesce più a tacitare l'angoscia del non-senso e della vacuità. E allora è il suicidio.
    Lo so per conoscenza.

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    1. Cara Ambra. Cara, cara, cara Ambra :)
      A questa cosa che tu scrivi qui ho pensato tanto, prima di chiudere il post. Un anno e mezzo fa, poco prima della maturità, si è suicidato un compagno di scuola di mio figlio, un diciottenne che pareva l'emblema dell'allegria e della lietezza, anche un po' sventata, del vivere. All'epoca - tra l'altro avevo già messo anch'io i piedi nell'acqua melmosa della depressione - comprai, tra l'altro, dei testi di psicologi sul suicidio giovanile, e sul suicidio in genere. Lì era indicato il punto di non ritorno, l'attivarsi del proposito suicida, esattamente nei termini in cui ti esprimi tu. Ed è terribile, perché a quel punto non c'è forza positiva in grado di controbilanciare quella annientante sensazione di essere slegati da tutto e da tutti, indifferenti, oppressi dalla mancanza di senso. Si narrava, in quei libri tremendi, delle angosce dei terapeuti, costretti a contrattare con i pazienti una procrastinazione del proposito suicida fino alla seduta successiva, che talvolta non poteva essere questione che di qualche ora. E' qualcosa di diverso dal dolore: io il dolore, la sofferenza dell'anima, l'ho provata con acutezza in quel periodo di depressione. Questa sensazione va oltre. E' una sorta di svincolamento persino da quello: perché anche sentire di soffrire è segno di vitalità. Questa invece è una privazione di tutto. Resta solo l'angoscia, che come dice Edo è qualcosa di diverso dal dolore, è la disperazione. Per quello mi sono preoccupata provandola. Però è vero, è passata, e farò in modo che non ritorni, almeno per un bel lasso di tempo. Tu, Annamaria e gli altri qua sopra mi avete già aiutata molto. Vi voglio bene. Grazie :*

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  3. Alcune domande non avranno mai risposta. Malgrado ciò tornano periodicamente ad assillarci, facendo barcollare la nostra intelligenza e facendoci sentire, almeno questo e quello che succede a me, dei perfetti idioti. Bel post!

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    1. Io idiota ho smesso di sentirmi da un po': che dici, dovrò ritornare sui miei passi? Grazie :)

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