mercoledì 14 settembre 2011

Alfabeto apocalittico

Libreria MelBook Store di Via Nazionale, ore 18,30, settore libri scolastici. Affollato e caotico come l'antro dell'inferno. E pure altrettanto caldo.
Da lontano - perché non posso avvicinarmi per il mare di gente che c'è - scruto il numeratore rosso: segna lo zero, poi rapidamente l'uno, il due, il tre, il quattro. Non sto a riflettere sull'incongruenza di quella circostanza rispetto alla quantità di persone presenti sicuramente arrivate prima di me. Meno male, mi dico solo. Molti evidentemente hanno preso il numero, ma ora, scoraggiati dalla calca, se ne stanno andando. 
Incontro tra la folla un mio conoscente, un tipo complimentoso che non si scompone mai. Mi si avvicina allegro, offrendomi il vago sorrisetto canzonatorio e distaccato che gli è caratteristico.
"Ehi, ma che piacere vederti" dice inalberando quell'affettazione che, assommata alla vocetta fine che spesso gli sale di tono, lo fa sembrare un cartone animato di dubbia identità sessuale, "anche tu di corvè, ah questa scuola quanto ci fa faticare, non ho mai visto una fila del genere in tanti anni che ci vengo, che numero hai?"
"Eh, cinquanta..."
"Ah! Io venti, e figurati che è più di mezz'ora che aspetto, sono anche salito di sopra dove c'è la presentazione di un libro, ma poi son tornato giù di corsa perché temevo di perdere il turno. Adesso però mi pare che la fila scorra di più, dove sono arrivati?"
"Al tredici... No, al quindici."
E dopo un'altra manciata di minuti di amena conversazione uno dei disgraziati componenti il manipolo di ragazzini che fungono da commessi stagionali chiama il venti.
Il tipo alza il braccio e si precipita, nel senso che compie un mezzo giro su se stesso e mi si discosta di venti centimetri in direzione del bancone, impossibilitato a guadagnare più terreno in quanto ostacolato dalla marea umana che si accalca intorno ad esso.
"Venti, venti!" grida stridulo sventolando il minuscolo pezzetto di carta, in sincrono con una signora cinese  accessoriata di figlia al seguito.
Si guardano in faccia. Lui, per la verità, la guarda male.
La signora cinese, serena e ben disposta, mostra il suo biglietto: ha il venti anche lei, con una lettera davanti. E20.
Il mio conoscente mostra il suo: A20.
Io comincio a capire ed annichilisco. Non ho davanti a me trenta persone, ne ho centotrenta.
Interviene una terza persona. Una signora che seda la contesa educendoci tutti con calma sull'arcano meccanismo.
"Guardi" spiega al tipo "lei ha venti con l'A davanti, la signora ha venti con l'E davanti. Vede lì accanto al numeratore? C'è una grande "E". Ora stanno servendo la "E", numeri da 0 a 99. Poi si rifarà il giro e toccherà alla "A". La "E" viene prima della "A", capisce?
Il tipo impallidisce, un po' per il colpo, un po', essendo latentemente un filino razzista, per la stizza di dover cedere davanti ad una donna di etnia cinese, un po' per la figura barbina che ha fatto. E allora tenta di buttarla in ridere appellandosi ad una logica totalmente fuor di luogo che però, nella follia di quella situazione estrema, mi sembra quasi risplendente di una propria validità intrinseca e del tutto estrapolata dal contesto: "Ma senti! Non si finisce mai di imparare! La E viene prima della A? E l'alfabeto allora? Quello che ci hanno insegnato a scuola?"
E mentre lui si fa prendere da un risolino isterico, io penso che, anche nella specifica circostanza, è vero che ci siamo fatti portar via sotto il naso i punti fermi che ci avevano fornito da bambini quale corredo per la nostra futura esistenza di adulti: che esiste uno Stato che è la comunità delle persone unite da una stessa lingua e storia e tradizione e bandiera, che è giusto che tutti contribuiscano al benessere di questa comunità ciascuno secondo le sue possibilità, che a tutti dev'essere data pari opportunità di vita e di lavoro, che nessuno deve essere lasciato indietro, che l'istruzione è uno dei capisaldi della democrazia, che i giovani sono il futuro di un Paese...
Improvvisamente la frase della signora mi appare lo specchio, il paradigma dell'Italia di oggi.
"La E viene prima della A!". Sempre, oramai. E nessuno tenti di trovarvi un senso. 

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