martedì 18 ottobre 2011

Piazza San Giovanni, 15 ottobre/1

Allora.
Son tre giorni che ne parlo ininterrottamente, con famiglia, amici, con interlocutori presenti fisicamente o al telefono o virtuali.  Ho visto molte cose dal vivo, molte altre ne ho sentite dai racconti di chi è andato via dopo di me, o che abita nella zona, altre ancora ne ho apprese dagli articoli e dai video dei quotidiani on line. Ho ascoltato tante ricostruzioni, analisi, punti di vista. Li condivido praticamente tutti, ciascuno racconta il suo pezzo di verità. Per cui non vedevo come aggiungere anche le mie parole al grande fiume che scorre da più di quarantott'ore sull'argomento. Non sono una notista politica, non so argomentare in modo elaborato, o anche solo originale, per apportare ulteriori contributi alla discussione.
Però parlare aiuta la riflessione, calma l'ansia. Quando ero piccola mio padre mi diceva, quando facevo un brutto sogno "raccontalo, così ti passa l'impressione" e io, allora, racconto.

All'una e un quarto del pomeriggio di un sabato smagliante come solo a Roma possono esserlo i sabati d'ottobre io, da brava entusiasta quale sono, cammino solitaria ed emozionata verso piazza della Repubblica, con il walkman in una mano (non ho un Ipod, sono retrograda anche in questo), nelle orecchie le cuffiette che sparano a tutto volume Canzone Popolare di Ivano Fossati, e gli occhi che scrutano in sintonia con la musica le facce della gente che già riempie molte aree ed interstizi dello spazio disponibile. Ho appuntamento all'una e mezza con Ilaria, un mio contatto di FB, sotto i portici all'altezza dell'ottica Vasari, ma ho anche ricevuto le coordinate del punto di ritrovo di Gap e Luz e sono piena di euforica anticipazione all'idea di incontrarli, loro che, dopo una prima conoscenza "concreta", ho preso la consuetudine di incrociare sempre sul web, e che fanno parte della cittadella  del mio spirito dove dimorano le presenze che mi sono più care in questo strano e delicato momento della mia esistenza. E l'abituale velo d'ansia posato sul mio petto è dovuto solo alla mia cronica insicurezza nel voler gestire tutte e due le cose insieme e nel timore di non esserne in grado, di restare delusa nelle mie aspettative di bambina festante per non riuscire a individuare gli uni nella massa (anche se so per esperienza che ci si può ritrovare senza difficoltà anche nei cortei più affollati)  e nel contempo nel fare una scortesia all'altra ritardando all'appuntamento. Le preoccupazioni reali, invece, quelle che mi hanno manifestato amici e conoscenti, per i disordini annunciati, proprio non mi sfiorano, sopraffatte dal mio abituale egocentrismo, dalla mia solita infantile attitudine a sostituire alla realtà esterna la mia personale concezione di essa, senza capacità di stabilire contorni né confini, a tal punto da renderla indistinta dal mio mondo interiore.
L'immediata constatazione che mi colpisce la mente passando attraverso le mie pupille sgranate è quella che raramente ho visto così tanti giovani ad una manifestazione, e sì che negli ultimi dieci anni ne ho fatte in quantità, e le più svariate. La piazza è piena di ragazzi - tra cui pure tanti palesemente studenti minorenni delle superiori - vestiti e acconciati in tutte le fogge, dalle zecche (si dirà così?) coi capelli rasta e i vestiti multicolore ai trentenni con le Timberland e il maglioncino color pastello. Molti seduti sulle gradinate dei portici, sereni, intenti a chiacchierare, telefonare, mangiare un panino coi volti distesi rivolti al sole. Ma ci sono anche i cosiddetti rappresentanti della società civile, gente più matura con bandiere e striscioni di sigle sindacali, di comparti lavorativi o partiti di sinistra ma anche con cartelli autarchici - mi farà sorridere il gruppuscolo di donne che incontrerò sedute sul marciapiede su Viale Manzoni all'altezza del Santa Maria, con fiocconi di cartapesta rosa in testa e il cartoncino scritto col pennarello che recita "massa-ia critica" -, e poi parecchie coppie borghesi, famiglie, mamme e papà coi passeggini o con bambini tenuti per la mano, rassicurante segnale di non belligeranza da qualche anno consuetudinario nelle manifestazioni, a demarcare la distanza con l'epoca in cui partecipare a cose simili poteva davvero costituire un pericolo. Ci sono  i soliti tizi originali sui trampoli, o travestiti da politici, tra i quali registro con poca attenzione e quasi totale disinteresse solo Berlusconi e La Russa. Noto anche un drappello di invalidi in carrozzina che son qui per protestare contro la miseria delle loro pensioni. Non vedo gli incappucciati, il massimo dell'audacia provocatoria è costituito dal ragazzo che arriva vestito da V, colla sua maschera da Guy Fawkes calata sul viso (ne vedrò altri nel corso del corteo), al quale qualcuno grida "magari fossi vero"!, e il clima mi sembra tutt'altro che minaccioso. Anzi.
All'ottica Vasari Ilaria ancora non la scorgo, e allora mi rituffo nella piazza per attraversarla fino alla parte opposta, dove ci dovrebbero essere Gap e Luz.
Eccoli! Ci abbracciamo sorridenti, trovando spontaneamente una confidenza che anche il contesto incoraggia. Parlottiamo un po' delle nostre comuni conoscenze, scherziamo sui parrucchieri cinesi che imbiondiscono donne di mezz'età un po' fuori di testa, chiacchieriamo dei miei deliri sul mio blog, mi presentano una delle loro due figlie, indi ci diamo appuntamento per un futuro molto prossimo, ci abbracciamo a lungo e strettamente, e poi io li saluto e vado a cercarmi di nuovo l'altra amica.Quando risalgo gli scalini del portico sono in ritardo di un quarto d'ora, ma punto sulla possibilità che lo sia anche lei. Dopotutto viviamo a Roma, il luogo dove gli orari sono tutt'al più una vaga indicazione di massima.
Nel frattempo comincio a mandare SMS ad Angie, che sta lavorando a distanza di un paio di centinaia di chilometri e alla quale ho promesso di manifestare anche in suo nome. Dopo il secondo o terzo scambio mi telefona, partecipe del mio entusiasmo e insieme inquieta;  e per buona sorte il mio contatto con lei, tra messaggi e chiamate, non si interromperà per tutto il pomeriggio, aiutandomi a distanza come un influsso benefico. Mando anche a Volpe un messaggio teneramente cretino che parla di "giornata magnifica", "splendida atmosfera", "bellissimi giovani". Poi, constatando che si son fatte le due e un quarto, ne mando uno pure ad Ilaria per dirle che forse quel buco di un quarto d'ora non ci ha fatto incontrare, al che lei mi risponde dispiaciuta "Ti abbiamo aspettato! Peccato". Pazienza. Così, sciolta da ogni impegno, mi accingo a sfilare in splendida solitudine. Che poi è quel che ho fatto spesso, e che non mi spiace nemmeno.
Il serpentone di persone si è già messo in movimento da un po', quando io comincio a fendere la folla cercando di risalire la corrente fino alla testa del corteo. Non appena svoltata su Via Cavour scopro in alcuni petardi accesi alle ali del corteo la prima sbavatura nel quadro allestito dalla mia immaginazione, ma la gente intorno a me sembra così tranquilla che anch'io cerco di non farci caso. A fatica mi faccio largo e guadagno terreno, superando quella prima discrepanza.
Mi accorgo presto che la sfilata è composita e disomogenea. Ogni settore pare scollegato dall'altro. A punti di intensa concentrazione di folla si alternano ampi spazi di vuoto. Passo avanti a molti striscioni, ascolto qualche raro slogan che si alza improvviso per poi un momento dopo affievolirsi fino a spegnersi. Si cammina per lo più in silenzio o chiacchierando col vicino sorridenti. La stragrande maggioranza dei marciatori sembra composta da persone inoffensive e anzi persino troppo miti nella circostanza, più assorte a godersi lo splendido sole e il caldo che vogliose di esprimere la loro indignazione.
All'altezza di piazza Esquilino raggiungo un paio di spezzoni più organizzati, quello di Freedom Flotilla e quello, corposo, dei Cobas, i quali dispongono tutti e due di un efficiente servizio d'ordine tramite il quale con  gentilezza e determinazione circondano e proteggono i loro membri. Da lì è tutta discesa lungo via Cavour, per cui alzando la testa posso vedere quanta porzione di corteo ho ancora da superare. Tanta, quanta non ne credevo.
Non appena via Cavour assorbe l'innesto di Via Giovanni Lanza vedo però anche dell'altro. Due colonne di intenso fumo nero che si levano dal lato destro della strada. E insieme sento le sirene e vedo due autobotti dei vigili del fuoco che si precipitano verso due incendi. Sono le prime due macchine bruciate, le prime devastazioni che vedrò nel pomeriggio. Due alte e spesse lingue di fuoco le consumeranno in pochi minuti. Della seconda si è incantato il clacson, e il suono echeggia insostenibile nel silenzio attonito che scende sul corteo, rotto solo da quel lamento ossessivo e dalla voce del pompiere che col megafono ci grida di spostarci tutti verso il lato sinistro per ragioni di sicurezza. La gente esegue senza sbandarsi, composta e diligente come una massa di collegiali beneducati, senza mostrare panico o isteria, anzi, osservando la scena con curiosità e distaccato interesse. Molti scattano foto col cellulare. Io mando un altro messaggio ad Angie per informarla dell'accaduto. Le dico che per ora comunque siamo incolumi. Forse la sto prendendo sottogamba, ma nessuno intorno pare più reattivo di me. E' più presente alla realtà Angie, che dal cellulare mi esorta ad andare via di corsa se cominciano casini.
Oltrepasso la zona senza rendermi conto delle ulteriori distruzioni: altre macchine coi finestrini infranti, cristalli delle porte degli hotel lordati di scritte, vetri delle banche spaccate, e l'Elite, il negozio di alimentari dove anch'io sono andata tante volte a far compere, semi sfondato nelle vetrine e saccheggiato, le commesse terrorizzate. Sottovalutando, forse per una strana forma di autodifesa emotiva, l'accaduto, senza domandarmi dove sono gli autori di questi vandalismi né allarmarmi per la loro possibile presenza ancora nei paraggi, mi affretto verso largo Corrado Ricci, e poi conquisto il selciato di via dei Fori Imperiali.
Lì, fatto un altro centinaio di metri, scopro l'arcano. Davanti a me, in un blocco scuro compatto ordinato e minaccioso, stanno un centinaio o poco più di sedicenti manifestanti; e tali devono essere, manifestanti, perché hanno anche il loro camion da cui una ragazza con un microfono spara discorsi farneticanti  e uno striscione rosso, in una formazione identica a tutte le altre compagini del corteo. Solo che loro hanno felpe nere, pantaloni neri, caschi neri, passamontagna. Una visione inquietante, soprattutto associata alle devastazioni che si son lasciati alle spalle. La ragazza parla con enfasi delle azioni "dimostrative" - così le chiama, "dimostrative" - che hanno appena compiuto, dichiara che han fatto quel che hanno voluto in piena autonomia perché nessuno è in grado di fermarli né di veicolarli, alludendo alla mancanza di regie esterne da parte di infiltrati nel loro movimento. Gli incappucciati sfilano composti, con le membra rilassate, in uno straniante contrasto con la disturbante minacciosità del loro abbigliamento. Fa caldo, parecchi sudano, e il dettaglio pare restituirli ad una comune matrice di umanità col resto dei partecipanti che li circondano, apparentemente senza notarli, distogliendo lo sguardo da loro.
Io esito, dapprima sinceramente impressionata da quella formazione a testuggine, da quella macchia brulicante di guerrieri urbani. Poi, vinta da uno strano distacco dalla concretezza della scena, vado loro a ridosso e comincio a fotografarli. Come se fossero animali allo zoo. Loro lasciano fare. Aleggia nell'aria la loro aggressività repressa, trattenuta, ma capisco che in questo momento non si scatenerà. Mi sembra di essere entrata nella gabbia dei leoni, provo un senso di timore e di esaltazione, insieme a quella strana sensazione di irrealtà. Non è possibile che siano davvero pericolosi, mi dice una voce dentro di me, altrimenti la polizia li avrebbe accerchiati, altrimenti gli altri manifestanti scapperebbero. Non possono essere stati loro ad aver compiuto i vandalismi di cui ho visto le palesi tracce, manca il rapporto di causa ed effetto, manca la prova dei sensi. Forse è un sogno. Alcuni di loro per il caldo si sfilano il passamontagna, cominciano a cadere i cappucci delle felpe, e si scoprono teste di ragazzini, gote imberbi di sedicenni. Qualcuno si passa bottigliette d'acqua, e beve calando appena il passamontagna, in un gesto che mi illude che siano inoffensivi. Quasi che, da mostri da combattimento come mi son parsi in primo momento, si tramutassero in quel gesto in miei simili, pure goffi per quella mascherata, stanchi di marciare sotto al sole con quegli indumenti pesanti che ne attirano i raggi, che hanno sete, e bevono come me, che hanno bocca, e mani, come me.
(1 - continua)




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