mercoledì 29 febbraio 2012

Il funambolo

Nella piena e totale coerenza della sua melensaggine ella amò tanto quel cantautore al tempo della sua giovinezza mancata. Sorda e muta alle relazioni umane, sociali e civili, per carenza di indispensabili esperienze dialettiche formative che le aveva inibito anche le già scarse capacità logiche e di buonsenso, fornita altresì in sovrabbondanza di una parossistica intelligenza emotiva, ella non era né femmina né maschio, ma una sorta di scoiattolino incompiuto di genere e di identità che viveva una vita scollata dalla realtà, raggomitolato nel fondo della tana in un buco di un albero altissimo, uscendone solo, e di continuo, con l'immaginazione, un'immaginazione meramente sentimentale. Lui, piccolo, infelice, appassionato, col suo intimismo rabbioso e tuttavia consolatorio per quel palliativo di umanità che le offriva, le era compagno perfetto in quel suo rosario di giornate inerti; la sua musica le implodeva fragorosamente nell'anima scuotendola di un furore amoroso sconosciuto, mai provato scambievolmente per alcuno, ma compreso per una sorta di intuizione superiore, e ardentemente bramato, ch'era inversamente proporzionale al silenzio ovattato della sua solitudine. 
Era ormai adulta quando, sentendosi come Cenerentola al ballo dopo l'intervento della fata madrina, andò ad un suo recital a teatro insieme ad uno sperso quanto e più di lei. Presero posto in piccionaia, dove avevano prenotato per risparmiare (tanto, aveva pensato lei, mica lo devo vedere, lo devo ascoltare!), e, in mezzo ad un sommesso ma vivace brusio, attesero in silenzio che il concerto cominciasse. Sì, in silenzio, a brutto muso, senza scambiarsi una parola, uno sguardo, un sorriso, perché avevano litigato già prima di arrivare per sciocchezze che i difetti di comprensione tra loro avevano contribuito a ingigantire; e il suo disgraziato compagno, ora, era brusco, di malumore, come sovente capitava, e perciò totalmente disarmonico, lontanissimo da lei, che si agitava a disagio sulla poltroncina scomoda, faticando a star seduta, pervasa da un turbamento scuro e triste, che dava un sapore cattivo di metallo raggelato alla sua emozione, togliendole ogni entusiasmo per lasciarle solo l'impulso di alzarsi, sottrarsi al contatto con quella persona distante, non cara né familiare, e con tutti quegli altri estranei inquietanti, e tornare sui suoi passi a rintanarsi di nuovo nel rassicurante buco che era la sua mesta prigione-rifugio.
Finalmente dal fondo lontanissimo del palcoscenico buio sbucò un omino minuto, che da quell'altezza pareva addirittura minuscolo; il quale, seguito da un unico occhio di luce, mosse alcuni passetti verso il centro della scena, fino ad arrivare di fianco ad un pianoforte a coda. 
Ci fu un attimo di sospensione, un'attesa in cui tutto il teatro trattenne il respiro.
Poi si levò come un incantesimo il tintinnio lieve e scintillante delle prime note dell'introduzione di questa canzone.


La musica di struggente bellezza salì e salì leggera fino a lei, a carezzarle il centro del suo essere. Poi arrivò la voce, vibrante, dolorosa, affettiva, a ripararla, ad isolarla in una bolla di cristallo dalle miserie del quotidiano, dal dispiacere, dalla mortificazione, dalla fatica, dall'insoddisfazione. Istantaneamente il grumo di sofferenza che le opprimeva il petto si sciolse in due perfette lacrime che le scesero simmetricamente dagli occhi. Il dolore era amore. E lei, illuminata e protetta dal conforto di questa consapevolezza, non era più lì.

Oggi ha capito perché tra tante canzoni più pregnanti per erotismo, energia, intensità, proprio questa, così atipica nella sua produzione, abbia sempre significato così tanto. Perché parla di lei. Perché lei è un funambolo che vive perennemente in precario equilibrio sospesa a metri da terra, mentre passa il tempo e intacca l'involucro vuoto di un'anima inscalfibile:

passa il tempo e il tempo dimmi che cos'è 
se il presente tiene dentro sè 
ogni passato prossimo 
come se non fossimo già qui 
ancora immobili, così 
con quei ricordi indistruttibili 
quei sentimenti indivisibili 
saremo lì, 
fragili
e nasconderemo le armonie 
di certe poesie...

Perché lei è un funambolo sospeso da terra, incapace di scendere se non quando la dolce zavorra dell'amore la tira giù in mezzo ai suoi simili rendendo la sua eterea incorporeità concretezza di carne e sangue; e allora, solo allora le pare di riuscire a vivere, di aver risolto la sua scissione, di riuscire a infilarsi nel suo involucro e a fare tutt'uno con esso. Fino a che non arriva, puntuale come la morte, la certezza dell'illusione, della sua fallacia, della sua inabilità alla pratica, della sua pretesa di vedere lanterne nelle lucciole, e quel peso allora le diventa insostenibile, e lei, confusa, straziata e oppressa, non trova altro di meglio da fare che scrollarselo di dosso, deporlo al suolo e tornare a vivere sul suo filo, staccata da tutti, protetta dalla tenerezza della sua malinconia, a guardare il mondo dall'alto come quella sera ha visto l'omino minuto dalla piccionaia, attendendo acquietata, atarassica, assorta nelle sue fantasticherie, la consumazione che il tempo che passa farà ancora della sua vita, a suo modo felice.

4 commenti:

  1. Ma che tenerezza, quello scoiattolino incompiuto!
    Merita un bacio della buonanotte! :D
    Ciao!

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  2. Oh, Nicola, lo scoiattolino timidamente ti ringrazia e tutto tremante ti ricambia il bacio :D
    Buonanotte! :*

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  3. Ho un mio personalissimo parere al riguardo. Per riuscire ad avere buoni risultati di equilibrismo un funambolo può anche avere all'inizio una partenza infelice ma credo che quello che conta è saper camminare sulla fune per poter arrivare bene e senza rischi fino alla fine del percorso.

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  4. Che care cose dici, Aldo. Certe volte per i funamboli è più facile camminare sul filo che coi piedi per terra. Però è vero, quello che conta è arrivare bene - e senza rischi - alla fine del percorso. Si faccia calpestando la terra, o in equilibrio su un filo. :*

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