giovedì 9 maggio 2013

L'isola misteriosa 3/Viva, viva, viva l'Inghilterra

Concludo il mio diario di impressioni londinesi dedicando l'ultimo corposo capitolo ai musei cittadini.
(Si nota tanto che cerco, almeno con la testa, di star fuori dall'Italia?)

Nel luogo dove, a detta di tutti, dovevo aspettarmi salassi per l'alto costo della vita, ho speso molto meno che nella maggior parte degli altri posti che ho visitato. Per la mera, specifica ragione che le mie mete prioritarie - i musei -, a Londra, sono gratis.
Sono gratis per legge da dieci anni soli, ho scoperto poi, per un'iniziativa del governo laburista che Cameron non ha finora avuto il coraggio di revocare, temendo negative ricadute nel consenso popolare.

Avvezza come sono a bazzicare, a Roma, Firenze, Siena, e in qualsiasi altra città d'arte italiana, grande o piccola, mostre, musei, chiese e monumenti dove si accede solo dietro esborsi che vanno dai dieci-dodici euro in su, avevo sepolto completamente in qualche recesso occulto nel bailamme della mia memoria  la cognizione di questa informazione che pure m'era di straforo pervenuta.
Solo dopo aver varcato l'entrata del primo - il Tate British - e aver compiuto la grezza di dirigermi al prospiciente bancone delle informazioni ed assistenza ai visitatori scambiandolo per la biglietteria ha fatto cucù nella mia mente fuori tempo massimo la reminiscenza della preziosa notizia, suscitandomi il gaudio di quando metto le mani nelle tasche dei cappotti riposti per il cambio di stagione e ci trovo soldi dimenticati lì mesi prima.
La sorpresa è stata così grata da dissipare la vergogna per la figuraccia, e pure l'immane fatica fatta per decodificare la tirata con cui  il gentilissimo impiegato ha rintuzzato le mie goffe ma ostinate pretese di deporre sul bancone dei soldi e ricevere in cambio un biglietto (le difficoltà di comunicazione rese più ardue e bizzarre dal suo modo sincopato di ripetere "free, free, it is free" con l'esatta straniante cadenza della canzonetta pop di Sting che catalizzava in maniera incongrua la mia attenzione, impedendomi di concentrarmi e carpire l'elementare significato del concetto espresso). E ha poi attenuato il mio dispetto nello scoprire come, causa inagibilità di un'intera ala del museo per ristrutturazione e impossibilità di stipare tutti i quadri esposti al pubblico nelle sale rimanenti, la direzione della Galleria, col fare laico e di sostanza tipico delle genti di là, avesse pigliato i suoi due piccioni - trovare provvisoria collocazione per un certo numero di tele in momentaneo esubero e al contempo ammortizzare i costi dei lavori - mediante la fava di sacrileghi prestiti a musei sparsi ai quattro angoli del globo di decine delle (da me) più ambite opere dei preraffaelliti: su tutte, l'Ofelia di Millais, Claudio ed Isabella di Hunt, la Beata Beatrix di Rossetti!, il desiderio di ammirare le quali aveva costituito uno degli incentivi più potenti a farmi metter piede in Inghilterra.

Comunque sia, ormai avevo capito l'antifona e mi ci ero già lietamente assuefatta; perciò, non appena messo piede nella splendida magione di Somerset Hall per ammirare la Courtauld Gallery, gestita da privati, sentirmi snocciolare in perfetto italiano da un'altera addetta impietosita, o forse inorridita, dai miei penosi grugniti di troglodita che se volevo vedere Manet, Van Gogh, Gauguin & Co. dovevo sborsare sei sterline è stato un brutto colpo alle mie aspettative (resta ad ogni modo che con quella somma contenuta, ben inferiore ai costi italiani, mi sono lustrata gli occhi non solo con la prevista ricca collezione di impressionisti francesi che pregustavo anche questa prima ancora di partire da Roma, ma anche con la tanto inaspettata quanto assai pregevole esposizione temporanea di un buon numero di tele giovanili di Picasso dagli esordi fino all'inizio del periodo blu).

Tutto è tornato nella norma all'ingresso della National Gallery, dove la parola FREE campeggiava ovunque e non c'era tema di capire male.
L'impresa si prospettava impegnativa: si appressavano le quattro di pomeriggio e io dovevo ancora accingermi ad affrontare una faccenda mastodontica all'incirca come gli Uffizi. Ma era venerdì, e il venerdì la National Gallery, come la maggior parte dei musei londinesi, resta aperta fino alle dieci di sera. Forte di questa freccia al mio arco, e anche di una baldanzosa ottimista fiducia sulle previsioni della mia resistenza fisica (destinata invece a scemare miserevolmente, mi sarei accorta in seguito, ben prima dell'orario di chiusura), ho varcato pimpante l'ingresso, oltrepassando il primo dei molti contenitori trasparenti colmi di monete e banconote.

Perché questa storia dei musei gratis è frutto di un gentlemen's agreement stretto tra governanti e cittadini profondamente consono alla mentalità, al carattere e alle tradizioni nazionali, ed espressivo di un grado di civiltà persino commovente per chi viene da contesti tanto lontani culturalmente. Crea un circolo virtuoso, un sistema filantropico che vuole, in cambio della liberalità dello Stato nell'aprire, in senso metaforico e concreto, i suoi centri d'arte e di cultura al popolo, così che esso nella sua globalità, e non solo in una sua ristretta elite, sia messo in condizione di  fruirne senza ostacoli, nutrirsene, venirne educato (e non sarebbe questo il fine ultimo e naturale dell'arte e della cultura?), il popolo a sua volta impegnato a donare, come può, un contributo per il sostentamento di quei luoghi, divenendone patrono. Il tutto senza vincoli, nella reciproca fiducia delle due parti contraenti.

Da questa nobile filosofia discende una serie di felici corollari.
Il primo è, ovviamente, il significativo accrescimento dell'affluenza, e dunque della fruizione delle opere d'arte. Un pubblico assai più vasto e diverso dagli usuali frequentatori del circuito costituisce il fiume in piena che,  già gonfio della babele di  stranieri provenienti da ogni parte del globo, rimpolpato da plotoni di cittadini di ogni ceto sociale, inclusi quelli delle classi più svantaggiate che difficilmente ne varcherebbero le soglie dietro canonico pagamento di un biglietto d'ingresso, si riversa, spettacolo nello spettacolo, nella National Gallery o nel British Museum, trasformandoli - secondo corollario - da meri spazi relegati all'osservazione silenziosa ed accademica ad agorà rivitalizzate, luoghi d'incontro a tutti gli effetti vissuti al pari delle altre strade e piazze della città, ma differenti ed unici perché intrisi di cultura.
Dove, 3), frotte di adolescenti, allettati dalla prospettiva di svagarsi gratuitamente, impiegano le loro ore di libertà concedendosi un'esperienza incomparabilmente più costruttiva e feconda del vegetare davanti ai videogiochi o dello struscio per le vie del centro senza meta e senza costrutto.
Dove, 4), abolite le congestioni e le code per le soste al botteghino, non si fanno le cinque ore di fila che bisogna mettere in conto per entrare agli Uffizi o ai Musei Vaticani.
Dove, 5),  si viene accolti da un personale di vigilanza cospicuo ma discreto, più ospitale che deterrente.
Dove, 6), il transito è fluido, il va e vieni non costretto o limitato, senza metal detector da oltrepassare.
Dove, 7),  il guardaroba è un luogo a disposizione del visitatore, che vi si reca per sua comodità, e non una costrizione offensiva, allusiva di un clima di sospetto e diffidenza, come in troppi musei italiani dove si è obbligati a depositare tutto per poi girare spogliati ed inermi in ampie sale dove non ci sarebbe nulla da rubare, secondo una prassi che lancia un messaggio negativo, e provoca, esorta, invoca, quasi, l'operato di borseggiatori e malfattori generici.
Dove, 8), pullulano decine di quegli esemplari mitologici già accennati: i custodi.

Essi compongono un piccolo esercito di individui assai variegato. Alti, bassi, simil albini o color caffellatte, dall'aspetto di giovani hostess competenti o di esperti vecchi maggiordomi, esili, obesi, austeri o eccentrici. Tutti individuabili dall'unico distintivo dettaglio: la divisa; armatura di cavalieri di un Ordine particolare sotto le insegne della tutela delle arti e dei loro amanti.
Sono ovunque, uno in ognuna di quelle innumerevoli sale. Talvolta, spostandosi in quelle successive, ci si imbatte perplessi due, tre volte, sempre nella stessa faccia. Perché i custodi dei musei londinesi, tra le tante peculiarità che li rendono difformi dai loro colleghi italiani dal culo pesante, fanno, ogni tot tempo, una cosa che è una via di mezzo tra una ronda, una staffetta e il gioco dei quattro cantoni: ciascuno lascia la sua postazione per andare ad occupare quella appresso. Vedendolo sopraggiungere, quello stanziato in precedenza gli passa le consegne, smonta, e a sua volta va a rilevare la posizione di quello immediatamente successivo. In sincrono, come il meccanismo di un orologio di precisione. Date queste premesse, il loro lavoro non può certo dirsi sedentario. Alla fine della giornata avranno macinato chilometri.
Altra singolarità sbalorditiva: forse anche a causa di tutto questo movimento che li mantiene svegli non ostentano l'aria annoiata/assente/sofferente stampata sulla faccia dei nostri. Anzi, sono tonici, disinvolti, composti ma vigili, cortesi ma attenti.
Non sembrano capitati lì per caso, controvoglia. Sono a proprio agio, si muovono con sicurezza. Non si crede alle proprie percezioni, constatando la dimestichezza ch'essi hanno con tutto quello che è contenuto nello sterminato spazio dove prestano servizio, e come sappiano perciò utilmente guidare i visitatori che chiedono lumi. Devono aver seguito dei corsi di preparazione. Forse sono in possesso di titoli specifici. Magari hanno superato prove di selezione. Hanno l'aria di specialisti formati, non di generici uscieri.
La mattina dopo, al British Museum, ho fatto tanto d'occhi, quando ho persino pizzicato uno di loro - una ragazza - intento ad ammirare i pezzi esposti nella sala dove stava lavorando.

Finisce qui il mio resoconto oceanico su due giorni e due manciate di altri due giorni passati nella capitale della perfida Albione. Dove già alla fine del primo - come si vede dalla foto - mi ero fatta persuasa che Londra è la città che fa per me: e che, se non fosse per il clima - non per il cibo, a cui ho scoperto di potermi assuefare facilmente, non per la mancanza del bidet, che potrei comunque farmi installare - potrei viverci proprio come una regina.



14 commenti:

  1. A parte la foto dove campeggia in primo piano una signora che mi pare di conoscere, appare chiaro dal contenuto delle tre puntate "inglesi"
    molto ben dettagliate che tu sei stata stregata dalla città di Londra.
    E va bene, ma per favore non fare paragoni con Roma perchè essa è, tu lo sai, la Caput Mundi.

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    1. Non faccio paragoni con Roma per carità di patria, Aldo :)
      Roma è una donna baciata dalla fortuna che l'ha dilapidata dissennatamente al vento. Altro che caput mundi... Soprattutto al giorno d'oggi. Sono rientrata da due settimane e ancora non riesco a riabituarmi all'oscena babilonia senza regole che vi regna sovrana e che la sconcia irrimediabilmente...

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  2. Mi associo ad Aldo cara Cristina, anche il paragone con l'Italia intera è piuttosto delicato, non per nazionalismo, è una degenerazione che non mi appartiene. E' verissimo che i musei gratis sono un fatto di grandissima civiltà e lungimiranza ma il nostro paese è un museo a cielo aperto e sebbene sia vero che in alcune chiese si può entrare pagando e così per tutti i musei, è altrettanto vero che si può entrare gratis in centinaia, se non migliaia di chiese ricche di tesori dell'arte. Così per le vie delle nostre città che sono esercizi di architettura veri e propri o nei borghi medioevali e via e via e via. Siamo nati nel giardino del mondo e spesso mi capita di dire una battuta alla Flaiano che la peggiore sventura degli italiani è di essere nati in Italia proprio perché gli italiani non si rendono conto del tesoro che hanno avuto la fortuna di ereditare. Questo manca in Italia, una cultura della fruizione dell'arte, che in questo paese significa una mancanza di identità.

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    1. Antonio, voglio risponderti senza fretta, voglio pensarci bene. Tu sei una delle persone più lucide, pacate ed articolate che conosco, dunque le tue considerazioni per me sono importanti. Ora ci penso e domani scrivo ;)

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    2. Eccomi qui, ce l'ho fatta :D
      Non intendevo nel post fare dello sciovinismo al contrario :)
      Mi sono sempre sentita una privilegiata vivendo a Roma, della quale da bambina ho conosciuto tutti i suoi tesori, avendo un padre che tra le sue molte scomode eccentricità aveva anche quella di amarla e conoscerla come un archeologo, di essersi fatto amico degli allora custodi del Foro Romano, del mausoleo di Cecilia Metella, di Palazzo Spada. Prima del compimento dei miei sette anni mi aveva portato in ogni museo, monumento, chiesa o palazzo storico. Roma, sovrana indolente, tollerante, opulenta, mi ha reso molto più che sopportabile un'esistenza difficile: anzi, talvolta penso che mi abbia salvato la vita, e la amo, e la sento mia.
      Questo non mi impedisce di soffrire per le sue infinite inaccettabili contraddizioni, che la umiliano e rendono tanto faticoso camparci. E di meditare sulla sventatezza dei suoi abitanti. E di immaginare che luogo impareggiabile sarebbe se fosse organizzata anche in minima parte come Londra.
      E' che secondo me il tuo assunto giustissimo può ben ribaltarsi: in questo paese manca un'identità di nazione, di popolo: non esiste un complesso di valori, usi e costumi condivisi; d è per questo che oltre alle altre conseguenze negative manca anche la cultura della fruizione dell'arte, che non è percepita come radice e patrimonio comune indispensabile.
      Non esiste al mondo una tale concentrazione di vestigia di ogni epoca e di ogni civiltà come in Italia. Tutta la penisola, isole comprese, è uno sterminato museo a cielo aperto. In molte occasioni lordato assurdamente, come un'enclave assediata da ogni lato dai nemici, dal degrado desolante del contesto ambientale: penso a Paestum, ad esempio, o ad Oplontis, con le sue magnificenti ville di epoca romana che custodiscono affreschi più vividi di quelli di Pompei, per visitare la quale io passai, una decina d'anni fa, per le strade di Torre Annunziata dai muri crivellati di colpi di pistola; ma penso anche alla nostra città, la Caput mundi unica e indescrivibile, i cui tesori sono anch'essi, in certo modo, isolate, inermi oasi di incomparabile grandezza e bellezza circondate dagli sconci grandi e piccoli di mille incurie.
      (Devo spezzare il commento, se no non me lo piglia. Continua sotto)

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    3. L'inghilterra non ha la fortuna di essere costituita da tesori d'antichità tali da concorrere col nostro paese (e per entrare nei suoi monumenti si paga anche caro: la cattedrale di San Paolo costa 16 sterline, ce ne vogliono circa 20 per la Torre di Londra; però io ancora mi ricordo quando, sei anni fa, in una mezza mattinata a Siena la mia famiglia, due adulti e due bambini, fu salassata di ottanta euro per visitare, dai lati opposti della stessa piazza del Campo, il Palazzo Comunale e il Duomo: in quest'ultimo prima mi fecero sborsare il costo dei biglietti e solo poi mi bloccarono l'entrata, eccependo le impudiche bretelline del mio vestito non consone alla sacralità del luogo, e costringendomi a calzare una delle mantelline non usa e getta fornite da loro). Il suo patrimonio artistico è per lo più frutto di acquisizioni. Ho bisticciato col marito dentro il British Museum perché mentre si destreggiava con la lingua di fuori tra le gigantesche sculture assiro babilonesi e i fregi del Partenone gli è scappato "guarda qua che razzie". Gli ho ribattuto che a me pareva che queste razzie fossero state compiute non da principi della Chiesa comodamente assisi sui loro scranni, che da lì ordinavano di spogliare il Colosseo dei suoi bronzi oppure di depredare Villa Adriana, ma da temerari, probabilmente arroganti esploratori che però rischiarono la pelle in prima persona, archeologi o naturalisti pregni del folle spirito d'avventura e di conquista caratteristico di questo popolo di navigatori (quando i lasciti non sono provenuti da collezioni di consoli delle colonie, o ambasciatori, donati da questi o dagli eredi allo Stato), i quali, secondo un criterio oggi opinabile ma allora a mio giudizio non privo di una sua validità (mosso, immagino, dagli stessi principi ispiratori della creazione dei giardini zoologici), intendendo mettere a parte i loro sovrani e il popolo delle meraviglie da loro rinvenute nelle spedizioni in terre sconosciute (e magari non tutelate né considerate dalle popolazioni autoctone), in un'epoca in cui viaggiare era ancora prerogativa di pochi, non priva di scomodità,complicazioni e pericoli, ritennero che la soluzione fosse portarle in patria, per così dire a domicilio: l'ho trovato, me lo prendo e lo porto via (contribuendo, in molti casi, a preservarle). Il British, museo di storia universale, è il prototipo di questa concezione democratica di accesso libero alla cultura; e credo sia questo il motivo per cui è sempre stato ad ingresso gratuito, sin dal giorno della sua fondazione. La cosa straordinaria, a mio parere, è che il popolo ha risposto in massa, con la singolare sintonia mostrata in altre svariate circostanze: come, ad esempio, quando non molti decenni fa lo zoo di Londra, a causa della scarsità di visitatori, fu sull'orlo della chiusura, per scongiurare la quale i londinesi ripresero a frequentarlo. La fruizione collettiva della cultura, per me italiana e romana fatta con la testa in un certo modo, è una cartina tornasole, come e più di altri indicatori, del grado di civiltà di una comunità: civiltà che dipende dalla coesione e dalla forza dei legami sociali, cementata da un sistema di valori che rendono ciascuno a pieno diritto uomo tra gli uomini, collocato con sua gratificazione in posto idoneo a comporre una trama precisa di tessuto sociale, gerarchicamente dimensionato ma livellato in certi punti essenziali - concezioni, comportamenti, che sono approvati e vissuti, proporzionalmente, nello stesso identico modo dalla regina e dall'ultimo dei suoi sudditi, e che costituiscono i caratteri essenziali dello spirito britannico, a me pare. Come ho già scritto in un commento a Carlo, questo mi è sembrato un popolo che non subisce le regole, né le rispetta: semplicemente le condivide. Perché le riconosce come tratti di una comune identità. E per me, donna ansiosa, empatica e patente l'individualismo di massa tanto esasperato nella mia terra, campare tre giorni con questi qui è stato rilassante e terapeutico, tutto qui :)

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  3. mi hai fatto venire nostalgia ...

    OT non ci crederai stanotte ti ho sognata: ci scambiavamo confidenze e ci facevamo una bella chiaccherata :-)

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    1. Ah, Pat, magari ci andiamo insieme una prossima volta!
      (Tu non ci crederai, ma stanotte ti ho sognata anch'io :D )

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  4. Ciao Cri,
    anche a me Londra manca tanto. Soprattutto per i suoi musei e in generale i suoi luoghi di cultura. Così aperti al pubblico e coinvolgenti.
    Purtroppo qui da noi c'è la cultura dello spennare il pollo. Sia esso turista o studente o semplice cittadino. Manca quella reciproca fiducia che là è fondamentale nei rapporti tra istituzioni e popolo.
    I nostri tesori sono gelosamente custoditi anziché mostrati. Sappiamo che il turista non potrà fare a meno di visitare Galleria Borghese o gli Uffizi e perciò lo facciamo attendere e pagare. Niente di più sbagliato.
    Grazie delle tue riflessioni. A presto.

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    1. Grazie a te, AGO, che hai saputo esprimere così bene esattamente quello che provo e penso. E-sat-ta-men-te :)

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  5. Contentissima che ti sia piaciuta, ma io mi tengo la belle France.

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    1. Così non litighiamo! Come con i ragazzi che ci piacciono: a te biondi, a me mori ^_^

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  6. god save the queen!
    penso al potenziale di roma, ma forse è meglio di no.

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