sabato 18 giugno 2011

Nobody expect the spanish inquisition

Lo scarto tra la serenità e l'ansia in me è sempre minimo.

Questione di attimi. Laddove per dettagli microscopici, sfumature quasi inavvertibili, circostanze insignificanti, la gente di comune buon senso non noterebbe alcuna differenza, io invece perdo il senno.

La mattina parto in tromba: ottimista, volitiva ed energica, munita di una carica vitale esorbitante e di un senso di responsabilità ai (miei) massimi livelli, con il talento e l'abilità di un giocoliere consumato compio doveri familiari, adempio alle più eccentriche richieste lavorative, ascolto e soddisfo le più disparate esigenze altrui, non negandomi nel frattempo voli pindarici e fantasticherie unite a simpatiche imbarazzanti performance (tipo canticchiare sculettando Dancing Queen sparata dal pc mentre affranco la posta) e  riuscendo a tenere tutto simultaneamente in equilibrio, senza far cadere manco una pallina.

Poi, col passare delle ore, quando già comincia lo svuotamento e i miei entusiasmi vacillano, mi arriva la botta. Regola vuole che il precipitare degli eventi non si debba a fatti gravi, ma appunto a cazzate - una parola di troppo che per stanchezza dei miei freni inibitori mi esce di bocca, un'occhiata strana da parte di qualcuno che mi sta a cuore, una telefonata o una mail attese che tardano ad arrivare -,  perché la mia schizofrenia latente prenda il sopravvento, invadendo il campo della mia personalità, ed avvenga il singolare fenomeno per cui, mentre il mio corpo continua a rispondere con perizia e pertinenza alle sollecitazioni esterne, il mio spirito si catapulta nel vortice di una furiosa tempesta in un bicchiere colmo di due dita d'acqua.

E col pilota automatico continuo a portare avanti come se nulla fosse animate conversazioni al telefono, scrivere sensate e sintatticamente corrette lettere al pc o guidare senza danno in mezzo alla bolgia del traffico di Roma, mentre nella mia testa vengo tradotta in manette innanzi al solito Tribunale dell'Inquisizione per l'usuale processo dove non mi verranno concesse nemmeno le attenuanti generiche, e la conseguente condanna al massimo della pena, l'isolamento nel putrido sotterraneo della vergogna.

Là passo sempre dei gran brutti momenti. Chi mi sta intorno se ne accorge, perché faccio delle facce da tarantolata: arriccio il naso, stringo gli occhi, arrossisco, impallidisco. Delle volte somatizzo, soprattutto dall'occhio destro, quello più scalcinato, dove una sorta di stella pulsante ad intermittenza si dilata fino ad occultarmi del tutto la visione. Quando non sono le flotte di mosche - i cosiddetti corpi mobili vitreali - a raggrumarsi in una macchia scura che mi rende cieca per un po'. Ma se proprio sono in forma mi sciolgo in un bel pianto, ché mi fa sempre un gran bene. Ormai mi sono così specializzata che riesco a piangere a comando: non mi vede nessuno, dò la stura ai rubinetti. Entra qualcuno, mi arresto, le ghiandole lacrimali mi si seccano istantaneamente. Rimango di nuovo sola, ripiglio da dove ero rimasta.

Da lì ad un certo punto si compie l'ultimo felice stadio della paranoia:  finita sottoterra, incompresa, staccata da tutto e da tutti, io arrivo ad assaporare il paradosso della mia assoluta libertà, godendo, per un breve folgorante istante, della francescana  (ed evangelica) sensazione della perfetta letizia.

E la mattina dopo riparto in tromba.









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