lunedì 15 ottobre 2012

The lady

Week end intenso, passato variamente a vivere.
Bene, perlopiù.
Ieri sera, sfinita, mi sono ficcata a letto con una decina di DVD assortiti comperati nelle ultime settimane e non ancora liberati dal cellophane, estraendo dal mucchio, dopo breve esitazione, The lady, il film biografia che Luc Besson e Michelle Yeoh (quella de La tigre e il dragone e di Memorie di una geisha, qui splendida e devota interprete della protagonista) hanno tratto dalla parabola umana  di Aung San Suu Kyi.
Chi non conosce, almeno per sommi capi, la storia di questa piccola donna birmana? Tutti ne hanno sentito parlare, molti ricorderanno la cerimonia del Nobel per la pace che le fu conferito nel 1991: sul palco suo marito, professore inglese di storia ad Oxford, i suoi due giovani figli, e una sua gigantografia. Lei non c'era, costretta agli arresti domiciliari nella sua casa di Rangoon da un regime dittatoriale che cercava di cancellarla dal mondo, tanto che al momento della proclamazione nessuno, nemmeno la sua famiglia, sapeva nulla delle sue condizioni di salute; non si era nemmeno ragionevolmente sicuri che lei fosse ancora viva.
Eppure la visione di questa pellicola mi ha fatto scoprire quanto poco sapevo di lei. Quanto pochi strumenti di conoscenza avessi avuto fino ad allora per comprendere il dramma suo e della sua famiglia. Quanto straordinaria sia stata la coerenza della sua scelta di vita, così intensa perché così intimamente condivisa con suo marito. Quanto abbia perso di se stessa. Quanto abbia guadagnato in cambio. Che sacrificio immane abbia chiesto ai suoi cari. Ai suoi figli ragazzini, che hanno sicuramente sofferto in modo indicibile. Che strazio sia stato per lei esserne consapevole. Ed essere altresì consapevole di non poter fare altrimenti, semplicemente.

Tra le varie scene emozionalmente impegnative di questa pellicola, che sceglie di non approfondire più dello stretto indispensabile gli eventi della storia ufficiale per concentrarsi sulla vicenda privata di una donna che definire coraggiosa è molto più che riduttivo, due sono quelle che mi hanno particolarmente scosso. 

Una è quella, appunto, che descrive la cerimonia del Nobel. Suu, in completo isolamento, riesce a captare dalla radio, unico strumento di contatto col mondo esterno che le è rimasto, la cronaca dell'evento. Sa che lì ci sono suo marito, i suoi figli, con cui non può comunicare da tanto tempo; che parleranno di lei, che il mondo intero parlerà di lei: è una formidabile iniezione di fiducia, una sferzata potentissima di vita, in un momento così impossibile della sua esistenza. Ma i militari, con sadica crudeltà talmente chirurgica e gratuita da renderli grotteschi e ridicoli di fronte alla grandezza della sua umanità, le tagliano la corrente elettrica all'improvviso. La sua vecchia domestica non si perde d'animo: scova una radiolina a transistor sguarnita di batterie e ci infila a forza la pila della torcia elettrica. La radio funziona, riescono a sintonizzarla sulla stazione giusta, e Suu può così ascoltare le parole del comitato, gli applausi della gente, il discorso di suo figlio maggiore Alexander che parla in suo nome, presta la sua voce di ragazzo a lei, che il tiranno birmano vorrebbe rendere muta per sempre. Poi sente un'orchestra attaccare la sua musica preferita, quella che suo marito le ha sentito tante volte suonare: il Canone di Pachelbel. E allora, spontaneamente, si siede al pianoforte e trova il modo per essere lì con loro, colmando il baratro di tempo e spazio. I militari sono sconfitti, e con loro sconfitta è la protervia, la violenza, la brutalità. Vinta dalla sensibilità dello spirito di una piccola donna indomabile, impossibile da coercizzare o da imprigionare.


L'altra è quella, quasi insostenibile, dell'ultima drammatica telefonata tra lei e il marito morente di cancro. Ai dittatori non pare vero ritrovarsi tra le mani questa formidabile arma di cui profittare: dopo averle restituito una fittizia libertà di movimento con la revoca degli arresti domiciliari puntano sulla sua fragilità di donna toccata da una tragedia immensa nei suoi sentimenti più profondi, e negano perfidamente il visto d'ingresso all'uomo che vorrebbe ricongiungersi alla moglie che non vede da anni per un estremo saluto. Suu sa che questo è fatto per costringerla a partire: e che se uscisse dalla Birmania non le consentirebbero più di fare ritorno, vanificando il senso di anni di lotte, rendendo inutili anni di sofferenza sua e dei suoi cari. Ma senza salutare il suo uomo per l'ultima volta non sa stare. Lei, l'orchidea d'acciaio, per la prima volta davvero vacilla, e dice al marito che pensa di andare da lui in Inghilterra. Egli allora le si oppone fermamente: con indicibile generosità supporta Suu fino all'inverosimile, persino contro se stesso, spingendola così dove lei non si dà il diritto di arrivare. Sa che non la rivedrà mai più, che si spegnerà solo, lontano da lei. Ma proprio il dolore inaudito che entrambi provano a quel pensiero è misura della straordinaria condivisione d'intenti  tra loro due, uniti, nonostante il distacco, come pochi altri al mondo, dall'inizio dei tempi, sono stati. Rivedersi, abbandonando la strada che Suu sta percorrendo, vanificando tutto, sarebbe come rinnegarsi, e rinnegare qualcosa che sta alla radice del loro legame, su cui poggia l'autenticità e il significato del loro amore. Perché questo è il vero amore. Proprio perché si amano davvero Suu e suo marito Michael dovranno restare separati fino alla fine. Piange, Suu; e io, sdraiata sul letto accanto al mio, di marito, mi sono girata verso lo schermo, dandogli le spalle, perché mi vergognavo di fargli vedere che piangevo anch'io. O di fargli capire che sapevo che stava piangendo anche lui.

Quando ho spento mi è successo come quando i bambini piccoli vedono per la prima volta un documentario sui loro coetanei che muoiono in Africa e, per un po', i loro guai e dispiaceri scoloriscono in confronto ai veri travagli della vita. Aung San Suu Kyi oggi ha sessantasette anni: la sua esistenza volge al termine, e il rendiconto non è positivo. Si è persa la giovinezza dei suoi figli, costretti a crescere senza la madre e, dopo poco, assai prematuramente, anche senza il padre; si è persa la loro confidenza, se il figlio maggiore, oggi trentanovenne, si è rinchiuso in un monastero buddista negli USA e non ha inteso rivederla; si è persa gli ultimi anni di serenità accanto al suo uomo, morto il giorno del suo cinquantatreesimo compleanno; ha patito terribili segregazioni paragonabili alle più atroci torture, è stata oggetto di sopraffazioni inaudite, ha visto orrori incancellabili; e la situazione politica nel paese ch'ella lasciò ragazzina per tornarvi donna e madre con una vita ormai lontana da lì solo per una settimana o due - "il tempo necessario", dichiara ai soldati all'aereoporto - per assistere la sua, di madre, che aveva avuto un infarto - non è sostanzialmente mutata. Chi gliel'ha fatto fare?
Semplicemente, lei ha visto un orizzonte che gli altri non vedevano. Ha amato i suoi figli, il suo uomo. E siccome sapeva amare, ha naturalmente dilatato ed espanso questa sua capacità, questa tenerezza di madre, di donna, agli altri esseri umani, ai giovani universitari che ha incontrato, sanguinanti dopo gli scontri con i militari, nell'ospedale dove accudiva sua madre, e via via poi a tutti gli altri che si è trovata davanti nel cammino intrapreso, fatto di passi non preordinati, venuti spontaneamente, uno dopo l'altro, camminando. L'amore non è avaro, non si restringe, non si può circoscrivere. Può solo ampliarsi in cerchi concentrici via via sempre più larghi, come quelli di un sasso gettato nello stagno. E a sua volta ha tratto forza dal suo essere stata molto amata. Dai suoi figli, fino a dove le loro risorse emotive di ragazzi hanno consentito. E da suo marito, indissolubilmente legato a lei da un vincolo che li rendeva due in uno, anche a distanza, moltiplicando la loro forza e la loro capacità di incidere sul proprio e sull'altrui destino.
E mi sono detta: chissà come si sente, oggi, Suu. Questa donna minuta e indomabile, ostinata, piena di grazia e gentilezza. Chissà se ha mai provato le stigmate della depressione, del vuoto esistenziale, della mancanza di senso. Forse sì. Forse chissà quante volte. Però ce l'ha fatta. E' rimasta fedele a se stessa, senza perdersi mai.
E' una persona eccezionale, Suu. Quello che le è capitato è eccezionale. Per fortuna, anche, non è richiesto a tutti uno sforzo così sovrumano. Però, in fin dei conti, lei è invece, comunque, sempre e solo un essere umano. Una donna, solo una donna.
Se ce l'ha fatta lei, ce la posso fare anch'io. Ce la possiamo fare tutti.



13 commenti:

  1. Ma Cri, come fai ad aspettarti tanti commenti a un post del genere? È talmente ricco di spunti che si ha paura ad alzare la mano per far notare la propria timida presenza.
    Che è un po' ciò che si prova di fronte a personaggi come (ctrl+c, ctrl+v) Aung San Suu Kyi, una figura da ammirare, in silenzio.

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  2. Ci sono Eroi così fragili e piccoli, così disperatamente soli ... da dar l' impressione che una semplice brezza di maligno vento li possa spazzare via . E tanto lontani da noi, da apparirci irraggiungibili, se non nel sogno .
    Ma, così come quella delle stelle già morte ai bordi impensabili dell' universo, la loro luce viva naviga l' infinito e ci arriva ancor oggi, e tanto intensamente che le pensiamo perenni ...
    Aung San Suu Kyi è una di quelle, @Cri, ed è per questo che, pur così lontana, brilla inspegnibile nel nostro malinconico cielo e lo riaccende !

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    1. Hai ragione,Bruno: tutto ha un senso, se si presuppone che esista l'infinito :)
      Non c'è altra possibile dimora per la luce delle stelle...

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  3. Ho ammirato questa piccola grande donna sin da quando le hanno assegnato il Premio Nobel per la Pace ampiamente meritato.
    Sì te ce la puoi fare, spero che ce la possa fare anch'io.

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    1. Oh,sì, Aldo carissimo: ce la faremo tutti e due. Del resto (ora scherzo, ve' :D) il Nobel per la pace ora l'abbiamo preso anche noi, no? ;)

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  4. "Non c' è altra possibile dimora per la luce dell stelle ... "
    Nè cuore di Donna ... che non contenga il cuore di una Bambina ... !
    Ce la farai, @Cri ?!?
    Ma certo, cara Amica ! :-)
    Io .... non ne ho mai avuto alcun dubbio !
    @Cavaliereerrante ....

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  5. Un po' in ritardo, ma ci sono arrivata anch'io, al tuo blog (via Aldo).
    Complimenti.
    Cristiana

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  6. Certo che le ha provate quelle stigmate. si provano quando perdi i figli, per un motivo o per l'altro. E il figlio che si è fatto monaco è la dimostrazione vivente che tutta questa sofferenza lascia strascichi indelebili.
    Aung San è il mio mito, piccola e forte, privata degli affetti.
    Vorrei vederlo anch'io quel film. Ma fin'ora non ne ho avuto il coraggio.

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    1. Ho esitato tanto anch'io, Martina, per lo stesso identico motivo.
      E concordo: Suu è il mio mito, sempre per lo stesso identico motivo. E per quel quid apparentemente assurdo per cui, nonostante tutto, sofferenza indicibile nemmeno lontanamente commisurabile ai risultati, conseguente immaginabile frustrazione, possibile senso di desolazione conseguente chissà quante volte sfiorato o provato, lei è rimasta in piedi. Sta tutta lì la sua vittoria, la sua ragione, il senso della sua vita. E' qualcosa di formidabile. Davvero.

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