lunedì 1 ottobre 2012

The rime of the ancient mariner


Quando, dopo una lenta, estenuante agonia, a quasi novant'anni di età morì mia nonna, cupa e amara vecchia che aveva costituito l'unico mio possibile appiglio nella vita, lo choc fu immenso.
Era la mia prima esperienza di distacco: temuta e accarezzata ossessivamente nei miei incubi per tutto il tempo della mia infanzia e adolescenza.
Nulla poteva lenire il dolore, l'angoscia del vuoto nero che mi si apriva davanti. Nemmeno dolci ricordi. Lei non era mai stata una cara nonnina che leggeva favole, che preparava dolci, che carezzava amorevole, che consolava quando la mamma era severa. Era solo stata l'unico scoglio del procelloso mare dove mi era toccato in sorte di annaspare. Piccolo, scomodo, scabroso, tagliente. Ma non avevo altro a cui aggrapparmi per non affogare.
Mi ricordo che fin da piccolissima, per tenere a freno l'ansia, il terrore che mi provocava il costante pensiero della sua dipartita, avevo cercato più volte conforto in una solitaria fantasia in cui io mi sarei presa una sua sostituta per farle recitare la sua parte: una donna che avrei fatto vestire con i suoi vestiti, avrei fatto abitare nella sua casa, parlare come lei, agire come lei. Come se niente fosse stato.
Quest'illusione mi esaltava e mi acquietava per qualche minuto. Il tempo di sentire affiorare alla coscienza la consapevolezza, la desolazione, la disperazione della mascherata. Non c'era soluzione. "Ma chi voglio ingannare? Quella comunque non sarebbe mia nonna, e io lo saprei" mi diceva subito una voce interiore, ributtandomi nel gorgo nero della mia paura, più debole e atterrita di prima.

Quando è morta mi sono spezzata dentro. Non perché le volessi bene, non era questo. Forse lo dico ora, dopo aver fatto i conti con la sua immagine per tanti anni, e aver capito tante, troppe cose. Forse allora mi pareva di averla amata talmente che il dolore era insopportabile.

Poi, dopo qualche giorno, mi sembrò di stare già meglio. Lei non viveva più a casa sua, vicino a noi, da molti mesi, e apparentemente non era dunque cambiato nulla. Io avevo ventun anni, da poco avevo preso a lavorare, avevo il mio ragazzo, sempre quello, quello che oggi è mio marito, e credevo anche di avere una vita davanti, occupazioni, progetti, speranze, sogni da coltivare, in cui immergermi.

Ma col passare dei mesi il dolore, anziché attenuarsi, si intensificò. Guardavo la sua stanza, le sue cose, che non avevamo avuto il coraggio ancora di riporre, il suo letto, i suoi abiti, e la mancanza di lei diventava così tangibile da togliermi il fiato.  La sera, quando andavo a dormire, in un lettino che avevo appoggiato al suo, in senso inverso, il mio sguardo errava sui muri di quella camera come quello di un carcerato in una cella senza finestre. Dovevo arrendermi all'orribile, inaccettabile realtà. Quei muri erano il simbolo concreto di quelli, invisibili, che la separavano da me per sempre. Potevo pigliarli a testate, ma non si sarebbero frantumati per aprirmi un varco verso di lei. Io non potevo abbatterli per andarle incontro, lei non poteva attraversarli per tornare da me.
Così mi familiarizzai gradatamente, inesorabilmente, sera dopo sera, coll'idea che lei non sarebbe tornata mai più, mai più. Non ero una bambina, lo sapevo che era morta, al suo funerale ero quasi svenuta, e al ritorno avevo avuto una metrorragia. Eppure quel dolore subitaneo nulla aveva a che vedere con il lutto infinito che mi devastò in quelle sere, quello stillicidio straziante che mi teneva il cuore stretto in un pugno e toglieva suono alle mie grida mute.

Durò un anno, questo tormento che si alzava come uno tsunami nella mia anima. La prima estate senza di lei. Il mio primo compleanno. Il primo Natale. La mia vita, senza di lei.

Poi, dopo un anno, come era venuto passò. La clessidra del tempo era stata rivoltata, portandosi via, risucchiati da un turbine di sofferenza, i più vivi ricordi, le più vive sensazioni. Allora riuscii pure a svuotare il suo armadio, i suoi cassetti, senza sentirmi sanguinare dentro il petto.

Forse un anno è il tempo minimo necessario a ricoprire i ricordi. Ogni giorno ripassi sopra allo stesso giorno dell'anno prima, ed è dilaniante la memoria di quello che ci hai vissuto al giro precedente, ne hai una nostalgia inaudita, ti si schianta il cuore nel constatare la differenza, la perdita. Poi, quando ci ripassi la seconda volta, non è più così. Ci hai perso l'abitudine. Ci hai frapposto, finalmente, un'intercapedine.

Prego con tutta l'anima che sia così anche stavolta. Perché allora sono, sì, appena entrata nel vivo di un'ulteriore eruzione del magma di sofferenza che ho dentro, ma ho speranza che tra qualche mese scivoli via. E io possa finalmente arrendermi ad un'altra orribile, inaccettabile, straziante realtà, e seppellire un altro morto. Senza rimpianti, senza più dolore.

The Mariner, whose eye is bright,
Whose beard with age is hoar,
Is gone: and now the Wedding-Guest
Turned from the bridgeroom’s door.

He went like one that hath been stunned,
And is of sense forlorn:
A sadder and a wiser man,
He rose the morrow morn.

8 commenti:

  1. il brutto è che non è un dolore fisico, è una cicatrice che ti porti dietro per sempre e ogni volta che cambia il "tempo" fa un male cane.

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    1. Occristo, ma allora non c'è speranza.

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    2. La speranza c'è perché c'è lutto e lutto e perché, per fortuna, siamo fatti per andare avanti, superare anche le situazioni peggiori e vivere, a volte anche con più attaccamento alla vita e consapevolezza.
      (La Cri sa di cosa parlo)

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    3. Angie <3

      Superare un lutto, piccolo o grande che sia, è oltrepassare e progredire. Ma tanto non è che si possa fare altro che stringere i denti e avanzare.
      E comunque grazie, grazie, grazie di esserci :)

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  2. In prossimità di un lutto, le parole sono sempre inadeguate.
    Tuttavia, come scrive un nostro comune amico, "sentiamo e sperimentiamo di essere eterni". Lo sentiamo nella durata della vita, non è dunque una speranza, una promessa o una fede.

    La morte è davvero poca cosa, Cri :-)

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    1. Cara, cara Bomba :)
      Il tuo modo di argomentare, ricco della pacatezza, della forza e della strana letizia di un ragionamento "buono" (spinozianamente parlando) mi dà sempre un conforto indicibile e indispensabile. :)

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  3. Qualcuno che muore e che condivideva il tuo tempo e la tua vita ti crea un dolore insopportabile e devastante. D'accordo con te che un anno è il minimo per elaborarlo, quella che non se ne va è la nostalgia a tratti acuta come la lama di un coltello che a tratti, anche a distanza di tanti anni, per un attimo ti scarnifica dentro.
    E poi, col passare degli anni, sperimenti, non di essere eterno, ma di essere condannato al nulla che si avvicina ineluttabile. Lo senti come non l'hai mai conosciuto prima.

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    1. Ambra :*
      io questa cosa del nulla l'ho sperimentata quando ho partorito il mio primo figlio. Sono tornata a casa, sarà stata la depressione post partum, ma per la prima volta nella vita percepivo di essere a termine. Me la figuravo proprio, 'sta cosa: come un segno nero in fondo ad una semiretta che a me fino ad ora era parsa tale, ed invece era solo un segmento. Lungo, corto, ma solo un segmento... Ho vissuto turbamenti da farmi rizzare i capelli in testa, mi ci svegliavo di notte, era diventato un pensiero di sottofondo a tutte le mie giornate. Poi, improvvisamente, con intensa emozione, mi sono riaperta alla vita. Da allora ho scoperto che davvero Eros è l'altra faccia di Tanatos. E ogni volta che mi scema la prima pulsione, ecco tornarmi su la seconda...
      (La nostalgia lama di un coltello che a tratti ti scarnifica dentro... Dio, se è vero.)

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