martedì 19 giugno 2012

Nothing left to lose

Sofferenza e dolore non sono sinonimi, affatto.

La sofferenza quale brezza mortifera ti piomba addosso all'improvviso facendosi tela di ragno che si invischia sull'anima permeandola di trafitture ulcerose e opprimendola di un fastidio molesto e gravoso, di un tormento insopportabile che la cinge d'assedio, la separa da ogni altro legame spirituale e la esclude dal contesto dell'armonia cosmica. E' fetido impiastro di pece che la inquina, angustia fredda e cieca che la isola, giogo - reso ulteriormente penoso da un'intollerabile oscurità di senso - che la asservisce.
E, come in un palude di sabbie mobili, tu ti dibatti in essa impantanandoti e sprofondando sempre di più.

Il dolore è l'opposto. Non è una sensazione che ti assale, è una condizione esistenziale. E' il nucleo compatto, caldo e pulsante di passione dove immergerti per arrivare al cuore di quel senso che disperatamente cerchi. Non ti viene incontro, sei tu che devi andarlo a scovare dentro di te, nel fondo della tua caverna viscerale, come un tesoro celato in una grotta nel ventre della terra, come la fonte stessa della vita, il codice del tuo DNA, il luogo mistico dove giungere straziata a guardare in faccia la verità di te stessa. Non è malessere, no. E' essere.
Lì, rimosso alla coscienza, riposto nelle migliaia di esperienze di infelicità e frustrazione occorse dal giorno della tua nascita e da prima ancora, si trova il segreto della tua autenticità.
Se avrai il coraggio di ripercorrere a ritroso quella galleria di orrore ed afflizione, di rivestirti di tutte quelle ferite dimenticate ma mai rimarginate, alla fine otterrai un bene inestimabile: la comprensione della struggente tenerezza della mortalità - impulso e gusto e motivo della necessità e capacità di amare, declinata in tutte le sue meravigliose conseguenze di misericordia, empatia, fiducia, speranza, benevolenza, per te e per i tuoi simili.
Nell'accettazione del dolore - che è dolore per la lacerazione primigenia della morte - sarai folgorata da tutta la bellezza, la gioia, l'energia, l'intensità pregnante della vita, che finora hai sempre e solo intuito, e solo per brevi istanti percepito.

E dopo nulla sarà più come prima.




Nothing's good the news is bad
The heat goes on and it drives you mad
Scornful thoughts that fly your way
You should turn away 'cause there's nothing more to say

You gave the best you had to give
You only have one life to live
You fought so hard you were a slave
After all you gave there was nothing left to save

You've got nothing left to lose (you've got nothing left to lose)
No you've got nothing left to lose (who'd wanna be standing in your shoes)

You read the book you turn the page
You change your life in a thousand ways
The dawn of reason lights your eyes
With the key you realise
To the kingdom of the wise

You've got nothing left to lose (you've got nothing left to lose)
No you've got nothing left to lose (who'd wanna be standing in your shoes)

Nothing ventured nothing gained
No more lingering doubt remained
Nothing sacred or profane
Everything to gain
Cause you've nothing left

16 commenti:

  1. Hai sentito il mio profondo respiro, alla fine di questa lettura?

    Ciao Cri, non l'avrai sicuramente sentito ma posso assicurarti che ho riempito i polmoni di aria, fino alla massima capienza! Poi, mi sono preso del tempo per riflettere. Credo sia una di quelle riflessioni che va letta alla luce del contesto etico in cui nasce e questa, forse sbaglio, ho l'impressione che sia figlia di una visione cristiano cattolica del "dolore" (e della sofferenza). Quella visione che considera il dolore non più come fenomeno negativo che affligge l'uomo ma il mezzo attraverso il quale, lo stesso, percorre e completa il viaggio della vita per riscattare se stesso dal peccato (originale) e raggiungere la salvezza (eterna). In questa visione etica, la sofferenza viene vissuta come una condizione umana ovvero come mancanza del bene e, quindi, figlia del male che in essa si annida. Infatti, tu scrivi che "la sofferenza è una brezza mortifera..... il dolore è l'opposto".

    Ho, personalmente, un approccio più "logico" (passami il termine, forse non appropriato) con il dolore e la sofferenza e tendo a interpretare gli stessi all'interno di un "contesto" che mi fornisca le indicazioni utili a determinarne le origini, in relazione al loro opposto che è il "piacere". Tu mi potresti obiettare, perché spesso me l'hanno ricordato, che esiste la sofferenza morale e, quella, come la puoi definire "logicamente"?? (prima o poi, mi verrà un termine più consono!) In genere, rispondo che se la "sofferenza fisica" è la manifestazione di un "dolore" di una parte del corpo che va razionalmente interpretata, la sofferenza morale è un malessere di natura psichica e, quindi, piuttosto che la medicina, lì interviene la psicologia.

    Va beh... facciamo che torno a riflettere. Forse, l'unica cosa che si è capita è che abbiamo una visione etica, un tantinello diversa!!! Buon pomeriggio a te!!!!

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    1. Non credo abbiamo una visione etica diversa io e te, sai, Carlo :)

      Questa mia riflessione non è affatto compiuta sotto l'ottica cristiano cattolica. Tutt'altro, soprattutto se andiamo a parlare di peccato e di colpa... Proprio non è quello che intendevo, assolutamente no! ^^

      Ho ritrovato un mio post sulla sofferenza, e ho scoperto che illustri pensatori proprio questo affermavano: che la sofferenza non ha senso... Il dolore invece secondo me sì.

      Io voglio dire che per me la sofferenza è l'effetto del dolore, ossia la sensazione, lo stato d'animo, l'umore: è la punta dell'iceberg, che occulta quello che c'è sotto. E' il malessere che si prova, spesso senza sapere perché, o attribuendogli un perché che si percepisce poco significativo rispetto al patimento sofferto. E' una reazione che si scatena per effetto di una contingenza, certo. Ma la stessa contingenza può arrecare una minima sofferenza a qualcuno laddove ad un altro scatena invece un tormento indicibile. Questo perché la risposta emotiva è, appunto, la superficie esteriore, conscia, anche se magari non controllabile.
      Ed è proprio un discorso di natura psichica, non morale, sai?
      Perché la sofferenza che ci attaglia e a cui non sappiamo dare un nome origina da qualcosa che è dentro di noi, ed è il dolore. Il dolore delle frustrazioni, delle mancanze di amore e di tutela, delle ferite che gli adulti ci hanno inferte da bambini - e tutti ne abbiamo, in misura più o meno ampia, più o meno profonda, perché essendo l'essere umano imperfetto anche il miglior genitore del mondo può a volte far del male ad un figlio - che è parte del dolore, vorrei dire, ontologico, esistenziale, del nostro essere uomini, creature incarnate in un tempo ed in uno spazio finiti, soggetti alla morte dal primo giorno in cui veniamo alla vita. Un dolore che non è in sé male, affatto! Anzi, che costituisce la nostra essenza, e custodisce in sé i germi della gioia, perché è la causa primaria del nostro essere uomini, con tutte le specificità di questa condizione: la socialità, l'aspirazione all'assoluto, la creatività, la fantasia, l'intelligenza, la capacità di amare... Ecco, secondo me dolore e amore sono strettamente uniti. Dove c'è l'uno c'è l'altro. E se non si accetta di vivere il proprio dolore non si troverà la sorgente dell'amore. Le persone che vivono narcisisticamente, ad esempio, anestetizzate, non provano dolore, ma nemmeno sanno amare. Non sono capaci di emozionarsi. Sono spietati, disumani. Dunque nessuna accezione negativa, anzi: il riconoscimento del dolore come salvezza e speranza di apertura del cuore alla tenerezza, all'emozione, all'amore, alla pienezza dell'essere. Tutto qui!

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  2. Il dolore .... "sono le perdute stagioni, e viva, e il suon di lei ... ", il dolore, cara .... sensibile @Cri, è il nostro 'vizio assurdo' .... è voler vivere come se fossimo immortali, pur non potendo affacciarci oltre il presente ... il dolore, infine, è essere ombre, mentre dentro ci ruggisce il sole !
    @Bruno ...

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    1. Ecco, Bruno, tu sintetizzi in maniera mirabile quello che ho vanamente tentato di spiegare in un post e nel commento fiume sopra al tuo :*

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  3. Avrei tanto da dire sia sulla sofferenza sia sul dolore ma lo farei su quello che mi riguarda personalmente e non lo ritengo giusto.
    Qui sono a "casa" tua e occorre riflettere su quello che hai scritto ma io, lo ammnetto, non sono all'altezza di poterlo fare.
    Un caro saluto,
    aldo.

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    1. Non dire cose inesatte, Aldo; tu sei all'altezza e come. Lo sei molto più di me. E mi piacerebbe che quel "tanto da dire" tu me lo raccontassi, almeno in parte. Io scrivo questi post in modo autoreferenziale, e mi spiace, ma li uso per cercare di capirmi, di venire a capo di me stessa, e tutta la cara gente che entra qua dentro e sfiora la mia vita e i miei pensieri vorticosi lasciandomi i suoi, di pensieri, mi fa un onore e mi dà un aiuto prezioso. :*

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  4. è vero sofferenza e dolore non sono la stessa cosa ma oer un innato istinto di sopravvivenza e di autoconsolazione il dolore non me lo vado a cercare che già alle volte si presenta a tradimento e non ne posso più

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    1. Ecco, anche questo intendevo io: che il dolore è esemplare della condizione umana. E in genere ha a che fare con l'elaborazione di un lutto, di una frattura, di una perdita: di una persona amata, di un legame, di una parte di se stessi, del passato che non tornerà più... Chi ha subito davvero grandi dolori nella vita non si crogiola nella sofferenza senza costrutto. Non ne ha bisogno. E si trae da dentro una forza che lo fa progredire :)

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  5. "Il dolore si può trasformare in prestazione, la colpa in elevazione, la transitorietà dell'esistenza umana in stimolo per un agire responsabile" (Victor Frankl).
    <3

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    1. Appunto. E' il paradosso, il miracoloso paradosso, dell'esistenza. "Quando sono debole, è allora che sono forte"

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  6. Quando si è deboli si è deboli e basta, cara Cri. Io volevo commentarlo questo scritto qualche giorno fa ma, come spesso accade con le tue parole, mi sono trovata spiazzata. Avrei commentato come ha fatto Aldo.
    Ti dico solo che miro all'assenza di dolore. Sono atea e per tanto non posso neppure definirmi buddhista, ma apprezzo un certo spirito Zen sulla mia vita. Il concetto di "espiazione" non mi appertiene più, tendo alla gioia e sono ingenuamente convinta che il concetto di dolore non dovrebbe far parte della nostra vita.
    Ma si sa, sono una sognatrice ;)

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    1. Ma io sono assolutamente d'accordo con te, Martina: "il concetto di "espiazione" non mi appartiene più" è una frase che è mia da ormai lungo, lungo tempo :)
      Espiazione di che, poi? Non ho proprio nulla, nulla da espiare.
      E assolutamente, esclusivamente, oh, sì, tendo alla gioia, al godimento, alla pienezza dell'esistere!
      In questo momento le mie azioni sono guidate da un imperativo morale che recita così: "è una cosa che ti fa del bene? Ti farà star bene? Accrescerà il tuo benessere? Ti tutela? E' nel tuo interesse?"
      In quanto al fatto della debolezza, non riesco forse a spiegarmi: io non voglio essere debole, lo sono, in senso assoluto, essendo un essere finito e soggetto a forze e soggetti più in grado di me di determinare, almeno in certi ambiti, sicuramente in ambiti rilevanti, la mia esistenza. Non sono perfetta, non sono autosufficiente nell'universo, ho bisogno dei legami coi miei simili per sopravvivere - qualsiasi cosa si intenda con questa accezione -, sono sottoposta al decadimento fisico, esposta alle intemperie, agli accidenti e alle malattie, posso essere ferita psichicamente perché, anche se mi corazzassi molto più di quanto non lo sia oggi, rimango una persona con un cuore, una sensibilità, una tenerezza. Proprio la mia qualità di persona, ciò che mi rende una "bella" persona, è un possibile punto di criticità. Non è che quando sono debole, allora sono forte, in realtà. E' che quando accetto che lo sono, lo sono ontologicamente come tutti gli appartenenti al consesso umano e in generale tutto ciò che fa parte dei regni naturali, perlomeno, solo allora posso essere forte. Perché non mi farò vane illusioni di onnipotenza, avrò cautela e cura di me stessa, non partirò lancia in resta per scontrarmi contro un muro convinta che basti la mia ottusa ostinazione per cambiare le cose. Saprò "sfruttare" le opportunità che la mia condizione mortale mi offre per arricchire e far sbocciare la mia vita, e stare attenta a farmi meno male possibile.
      Sul concetto di dolore... Mi piacerebbe tanto pensarla come te. Non so, sono ancora nell'ordine di idee che divenire completamente zen sia in qualche modo un rinunciare ad una parte di umanità. Soprattutto perché il dolore è ancora grandissima parte della mia vita, non avendo fatto io i conti col mio dolore, immenso pozzo di dolore pregresso. Il dolore è un territorio vastissimo e abbondantemente inesplorato della mia anima, il che mi rende ancora abbastanza sconosciuta a me stessa. E siccome sono convinta che la via della mia realizzazione passi attraverso la conoscenza e l'amore per me stessa, è giocoforza che io accetti di entrare in quel luogo di me dove è custodita la fonte del mio dolore. Dove c'è la me autentica da abbracciare, piangendo insieme a lei l'ingiustizia cosmica subita, e il lutto di non poter più chiedere un risarcimento. Per poter andare, finalmente, avanti, danzando a passi lievi e felici nella vita, da questo momento in poi.

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